sabato 28 novembre 2020

Il diritto ereditario in Marocco alla difficile prova di una moderna riforma.



Il Marocco vuole cambiare la normativa sull’eredità, introducendo una nuova legge successoria, basata sulla parità uomo-donna (proposta di legge16 agosto 2018).Da tempo, in Marocco, donne comuni ed intellettuali stanno manifestando per cambiare la legge sull’eredità per parificare quella concessa alle donne con quella garantita agli uomini dalla Mudawana o Codice di Statuto Personale Marocchino, il diritto di famiglia. Esso è stato riformato nell’ottobre del 2003 dall’attuale, illuminato re, Mohammed VI, e approvato nel 2004 del Parlamento del Paese nordafricano, giustamente salutato anche dall’Occidente come uno dei diritti di famiglia più avanzati del mondo arabo, che perciò ha scatenato le ire degli integralisti islamici. Tuttavia ci sono alcuni punti che vanno modificati per portarli al passo con la modernità, tra i quali appunto quello sull’eredità, il cosiddetto ta’sib, che favorisce gli uomini rispetto alle donne. Esse infatti ereditano soltanto la metà dei beni e soltanto nel migliore dei casi: accade che non ereditino nulla, soprattutto nelle aree rurali del Paese. Nel marzo 2018 cento intellettuali marocchini (come professori universitari, avvocati, teologi, medici, giornalisti e scrittori) hanno firmato una petizione per cambiare tale situazione. Quindici dei sottoscrittori hanno redatto L’héritage des femmes (“L’eredità della donna”), una pubblicazione accademica che accompagna la petizione, spiegando la loro posizione in favore della donna e che il ta’sib non dovrebbe più essere applicato in una società marocchina che sta cambiando. Stanno cambiando le famiglie e il fatto che le donne ereditino la metà rispetto agli uomini come previsto dalla shar’ia, la legge islamica, non dovrebbe essere più contemplato.
Nel testo si legge che oggi le donne marocchine svolgono un ruolo cruciale nella famiglia, come nella piena responsabilità dell’educazione dei figli e nel sostegno economico e di altro genere ai loro mariti. Attualmente oltre un terzo delle famiglie, in Marocco, sono guidate da donne: loro sono i capi famiglia o da loro dipendono gran parte delle entrate familiari. In una famiglia marocchina su cinque le donne non sono aiutate in alcun modo da “lontani parenti maschi”, anche loro finora avvantaggiati nel diritto ereditario. Moha Ennahi, professore di Linguistica, Genere e Studi Culturali all’Università Sidi Mohammed Ben Abdellah di Taza e uno dei firmatari della petizione, spiega sul giornale accademico online The Conversation che il ta’sib decreta: “Le donne orfane che non hanno un fratello devono condividere l’eredità con il parente maschio più vicino al defunto … anche se sconosciuto e [non ha mai fatto parte della famiglia]”. Da qui la richiesta dell’abrogazione del ta’sib “come è stato fatto di recente da alcune altre società musulmane”. Negli anni scorsi, per esempio, lo stesso passo è stato compiuto dalla Tunisia, da sempre all’avanguardia per i diritti della donna nel mondo arabo. La Costituzione marocchina è stata modificata nel 2011 per garantire una maggiore parità di diritti alle donne, ma situazione sull’eredità è rimasta invariata a causa dell’insistenza degli integralisti islamici, che come sempre strumentalizzano il Corano secondo la loro ideologia misogina. Nouzha Skalli, ex ministra marocchina dei diritti delle donne e paladina di questi nota anche all’estero, ha reso noto in un’intervista rilasciata nel 2017 che “Non appena abbiamo pronunciato la parola ‘eredità’, siamo stati accusati di blasfemia” dai religiosi. Lo stesso Partito della Giustizia e dello Sviluppo, legato ai Fratelli Musulmani e guidato dall’ex primo ministro Abdelillah Benkirane, ha definito una “manovra irresponsabile” e una “flagrante violazione” della Costituzione marocchina. Moha Ennahi cita il predicatore Mohamed Abdelouahab Rafiki come “una delle poche voci liberali religiose in materia”. Quest’ultimo ha affermato che la questione dovrebbe essere aperta all’ ijtihad, l’interpretazione dei testi religiosi islamici utilizzata e sempre invocata dagli intellettuali musulmani illuminati. In particolare, per quanto riguarda il tema dell’eredità, Rafiki ha dichiarato che esso deve essere affrontato coerentemente con l’evoluzione della società marocchina. Si tratta di un'affermazione, in realtà, che recupera un'intuizione egalitaria dell'antico filosofo arabo andaluso Ibn Rushd (l'Averroe' dei Latini), che visse ed operò in Marocco, lasciandovi un patrimonio di cultura e di apertura intellettuale ancora oggi insuperata nell'attuale società marocchina(rinvio in proposito ad un mio intervento sull'argomento a suo tempo pubblicato da Asino Rosso).Essa rimane tuttavia prevalentemente conservatrice. Da un’indagine nazionale condotta dalla commissione di pianificazione del Paese nel 2016 è emerge che l’87% dei cittadini marocchini, uomini e donne, sono contrari all’uguaglianza di genere in eredità per motivi religiosi, ma il problema dev’essere affrontato in maniera oggettiva ed in base ai diritti umani. Le donne rimangono una delle categorie sociali più svantaggiate in Marocco. Alcune, lasciate sole quando muore il padre o il marito, sono costrette a prostituirsi e si trovano in balia della violenza maschile. Come può il Paese progredire davvero in una simile situazione? Un Paese che, peraltro, il 70% degli abitanti dichiara di voler lasciare.
Casalino Pierluigi 

lunedì 23 novembre 2020

Come Dante apprese dall'Islam le mappe dell'aldilà.

Leggi sul web tutti i miei articoli, libri ed ebook su Dante e l'Islam.
Casalino Pierluigi, scrittore e studioso ligure di Imperia, nato a Laigueglia il 29 giugno 1949.

domenica 22 novembre 2020

Il tributo arabo all'universalismo politico di Dante



Platone scrive nella Repubblica che "uno stato nasce perché ciascuno di noi non basta a se stesso, ma ha molti bisogni....così per in certo bisogno ci si vale dell'aiuto di uno, per un altro quello di un altro: il gran numero di questi bisogni fa riunire in un'unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di stato." E' poi, naturalmente, principio aristotelico che l'uomo sia per natura "animale politico". In proposito il filosofo arabo al-Fa^ra^bi ripete che "non è possibile (all'uomo) pervenire alla (perfezione), isolandosi (infira^d) e trascurando la cooperazione (mu'a^winah) con i suoi numerosissimi simili" e aggiunge, traducendo Aristotele, che "l'animale umano si chiama anche animale sociale (yusamma^ al-hayawa^n al-insa^ni^ wa al-hayawa^n al madani^). E' qui stimolante considerare la posizione dantesca, relativa al rapporto società-felicita', letta in un'ottica aristotelica-araba. Dante mostra di avere molto a cuore il benessere sociale e, aristotelicamente, lo finalizza alla felicità. E' una posizione che lo avvicina agli arabi, che ne fa l'erede- soprattutto, è vero, attraverso Averroe'-, di problematiche che al-Fa^ra^bi per primo contribuì ad elaborare. Il fine dell'uomo è la felicità, filosofica e spirituale; il compimento dell'umanità consiste nella realizzazione della potenzialità intellettiva, cioè nella piena attuazione dell'intelletto possibile. Ciò si realizza solo grazie alla partecipazione dei singoli alla società. Potremmo intessere una tela di citazioni, ma sono soprattutto la Monarchia e il Convivio a darci la chiave dell'interpretazione dantesca. Dante è chiaramente vicino all'averroismo, sostenendo che "è evidente che il termine ultimo della potenza dell'intera umanità è la potenza o virtù intellettiva" (Dante 1989,I,3:9). Tuttavia, "il genere umano è assolutamente simile a Dio quando è assolutamente uno (...).E allora il genere umano è assolutamente uno, quando è tutto unito in uno: e questo non può essere se non quando soggiace interamente sotto un unico principe. Ciò giustifica, naturalmente, la necessità della vita sociale e il suo ordinamento specifico sotto la monarchia; e il saggio ordinamento terreno, sempre secondo Dante, è lo specchio di quello superno, poiché "l'ordinamento di questo mondo segue quello insito nelle sfere celesti". Del resto, nel compiuto esplicarsi della propria attività umana, l'uomo si fa simile agli angeli. Si tratta, dunque, di una tipica concezione "greco-araba", e ,in particolare, al farabiana, una concezione che non può non cogliere nel rapporto tra il sopra e il sotto il disegno di un'unica armonia. Anche nel Convivio, Dante si rivela profondamente imbevuto di prospettive arabe, pur spesso celando le sue fonti, come quando riecheggiano sia al-Fa^ra^bi che Ibn Rushd (l'Averroe' dei Latini), sostiene che "l'umana natura non per una beatitudine abbia, ma due, sì come quella de la vita civile, e quella contemplativa" (Dante 1993, II, 4:98). Il sapere è causa della della perfezione, e il sapere "è l'unica perfezione nostra, sì come dice lo Filosofo nel sesto dell'Etica, quando dice che 'l vero è lo bene de lo intelletto". Così come tutte le virtù formative provengono dalla virtù celestiale, la felicità provienevdall'influsso della struttura intellettuale: " S'elli avviene che, per la puritade dell'anima ricevente, la intellettuale virtude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina boutade in lei multiplica,  sì come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi si multiplica, ne l'anima di questa intelligenza secondo che ricevere puote, E' questo è quel seme di felicitade del quale al presente si parla". Di fatto, "l'anima umana....con la nobilitate  de la potenza ultima, cioè ragione, participa de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia". E' "l'amoroso uso di sapienza, il quale massimamente è in Dio", ma che può divenire strumento di quell'infinito desiderio  della scienza che, a sua volta, è veicolo della perfezione umana" (misurata)in questa vita a quella scienza che qui avere si può". Le considerazioni dantesche su un unico principe non vanno, peraltro, troppo disgiunte da quelle di al-Fa^ra^bi, se pur nella diversa sfera culturale e religiosa. Il termine che al-Fa^ra^bi usa per stato è ummah, il che indica la difficoltà per un musulmano di concepire un'entità statale in senso astratto, indipendentemente dall'appartenenza ad un gruppo umano, il cui vincolo associativo è primariamente dato dalla religione e dalla cultura. Per indicare, più rigorosamente, la religione, al-Fa^ra^bi usa il vocabolo millah, ma ummah possiede un significato più onnicomprensivo e pregnante.In effetti nell'Islam le entità statali riconosciute come universalmente valide, quali il califfato, sono sempre state sovranazionali e nel pensiero politico islamico non esiste l'idea moderna (occidentale) della nazione coincidente con uno stato territoriale. Al-Fa^ra^bi sostiene che la città (madi^nah) è la forma minima di società perfetta? Non sembra. L'assunto di al-Fa^ra^bi è che gli uomini hanno bisogno di vivere associati insieme al fine di attingere il loro stato migliore, ossia che la massima perfezione o felicità sia possibile solo in una città o in una nazione eccellente. Piuttosto, la città eccellente è presentata come unica, poiché è l'unica forma di associazione politica che si pone la vera felicità come proprio specifico fine immediato. Se è vero che in Dante la sfera temporale differisce da quella religiosa, è pur vero che l'universalismo politico di Dante deve molto al pensiero arabo.
Casalino Pierluigi 

i confini geografici e storici dell'Italia.

 
Quali sono i veri confini dell’Italia? Un elenco dei confini "naturali" del Belpase: Nizza, Venezia Giulia, Dalmazia, Svizzera, Malta e Corsica.


NIZZARDO

Lo spartiacque alpino a nord del monte Pelat (che si trova in Francia, a sud ovest del Colle della Maddalena) è determinato dai geografi in maniera univoca. Invece, a sud di esso, taluni dividono la Regione geografica italiana da quella francese per una linea che lascia alla Francia il bacino del fiume Varo e all’Italia quella del Roja, ponendo i limiti della costa ligure al paesino della Turbia, vicino Monaco; i più invece fanno ricomprendere nell’Italia anche tutto il bacino del Varo, includendo nell’Italia geografica anche la città di Nizza. Il confine geografico quindi sarebbe molto prossimo a quello storico della Contea di Nizza, territorio appartenuto agli stati italiani dal Medioevo fino al 24 marzo 1860, quando fu ceduto da Camillo Benso conte Cavour alla Francia di Napoleone III in seguito al Trattato di Torino.

Fino ad allora, Nizza (denominata “Nizza Marittima” per la vicinanza alle Alpi Marittime, oppure “Nizza di Provenza” per la parlata franco-provenzale della città) era una provincia del Regno di Sardegna come Torino, Alessandria, Cuneo, ecc., sotto la sovranità dei Savoia. Il territorio della Contea includeva anche l’odierna provincia di Imperia (allora Porto Maurizio) e aveva tre distretti: Nizza Marittima, Sanremo e Porto Maurizio. In essa vi era il piccolo stato di Monaco, governato da secoli dalla nobile famiglia ligure Grimaldi, il quale fino al 1848 comprendeva anche le cittadine di Mentone e Roccabruna.

Nella cartina del tempi si può vedere la differenza tra il confine occidentale della Contea di Nizza con lo spartiacque geografico; alcuni paesi geograficamente italiani ma già politicamente francesi, come ad esempio Mas, erano già stati savoiardi fino al 1713, anno in cui i confini tra i due stati furono leggermente ritoccati.

Stilare una descrizione etnico-linguistica della zona non è semplice; fino al 1860 non vi sono mai stati censimenti che distinguessero tra francesi ed italiani, anche perché la lingua francofona di questa zona non era il francese ma il franco-provenzale. Ad ogni modo, da testimonianze e documenti dell’epoca si evince che nei paesi ad est della Turbia (compresa Monaco) il dialetto era ligure; nelle vallate interne la parlata locale, andando da est ad ovest, digradava dal ligure al franco-provenzale; Tenda e Briga Marittima, nella val Roja, avevano un dialetto particolarissimo che ancor oggi sopravvive, vicino al ligure, ma non di tipo francese; la parlata della città di Nizza era franco-provenzale con influssi liguri. In ogni caso, l’italiano non era certo considerato una lingua “straniera”, dal momento che i documenti ufficiali erano scritti, tranne qualche breve parentesi come quella napoleonica, in italiano. Nizza Marittima ha dato i natali a tanti italiani famosi, primo fra tutti Giuseppe Garibaldi.

Il limite costiero della Contea di Nizza era il fiume Varo; il Ponte San Lorenzo sulla via Aurelia, tra Nizza Marittima e Antibo (o Antibes in francese) univa il Regno di Sardegna alla Francia. Il mar Ligure stesso veniva chiamato tale fino a Nizza; a torto oggi i geografi considerano “mar Ligure” solo le acque ad est della costa di Ventimiglia: sono cambiati i confini politici, ma non certo quelli geografici. Anche la denominazione “Costa azzurra” è molto politica e poco geografica, in quanto la si fa partire dalla dogana dei Balzi Rossi (tra Ventimiglia e Mentone) fino a Provenza inoltrata.

Nel 1860 la Contea fu ceduta alla Francia per assicurarsi la neutralità di quest’ultima nelle operazioni di conquista del Sud. E’ ipotizzabile che il governo francese non avesse nessun interesse a mantenere le caratteristiche italiane in una regione appena acquisita da uno stato in via di formazione il quale, con gli anni, avrebbe potuto rivendicare il territorio appena ceduto. Certa è l’intensa opera di francesizzazione che venne effettuata negli anni successivi, e che ebbe effetto soprattutto nella città di Nizza Marittima, da allora divenuta ufficialmente “Nice”, e solo “Nizza” per gli italiani, ritraducendo la nuova toponomastica francese. Fu favorita una progressiva diffusione della lingua francese a danno di quella italiana: ad esempio vennero chiuse tutte le pubblicazioni dei giornali italiani (come "La voce di Nizza"); furono cambiati persino molti cognomi degli autoctoni ("Bianchi" => "Leblanc"; "Del Ponte" => "Dupont" ecc.). L’italianità di Nizza è andata scomparendo a mano a mano: negli anni trenta nel centro storico si parlava – accanto al dialetto – ancora italiano, ora invece il francese predomina nella città e nella regione; l’italiano comunque resta la seconda lingua del capoluogo. Cultura autoctona è rimasta maggiormente nei paesi dell’interno oltre che a Mentone e nello stato di Monaco, dove l’inflessione dialettale è tuttora di tipo ligure. Interessante inoltre è vedere che una buona fetta di cognomi dei residenti nel nizzardo è italiano: ad esempio si trova "Giorgi" e "Delrivo" a Poggetto Tenieri, "Baldacci" e "Paolini" a Guglielmi, "Rosso", "Andreoli" e "Ceccarini" alla Turbia ecc.

Nel 1947, in seguito al Trattato di Parigi, furono ceduti alla Francia il comune di Tenda e parte dei comuni di Briga Marittima, Valdieri e Olivetta San Michele; anche queste zone furono immantinente soggette a francesizzazione. Una certa fetta della popolazione, per aver scelto di non diventare di cittadinanza francese, prese la via dell’esodo.

Altri territori, di estensione limitata ma di grande importanza strategica, furono annessi alla Francia a guerra finita: il passo del Monginevro, la Valle Stretta del monte Tabor (ad ovest di Bardonecchia), il passo del Moncenisio ed una parte del territorio del Piccolo San Bernardo col celebre ospizio (vedi cartine 3 e 4). In queste zone non vi sono paesi, ma tutt’al più gruppi di case; la francesizzazione è avvenuta per lo più nella toponomastica.

Un’altra piccola zona, geograficamente italiana, è politicamente straniera (in questo caso svizzera): quella comprendente i paesi di Sempione e Gondo. In ambedue le località la parlata è tedesca.

Di contro, il Regno di Sardegna ha ceduto in tempi diversi vari territori transalpini piuttosto estesi alla Francia: la valle dell’Ubaja con Barcelonnetta nel 1713 (trattato di Utrecht) e tutta la Savoia nel 1860. Ambedue le regioni sono a parlata franco-provenzale. La valle dell’Ubaia, interamente montuosa, è costituita attualmente da tredici comuni, i più importanti dei quali sono Barcelonnetta e Jausiers. La Savoia invece è la regione di provenienza dei Re d’Italia, i quali a malincuore la cedettero a Napoleone III; fino allora aveva come capoluogo Ciamberì (italianizzazione del franco-provenzale Chambery) ed era costituita dai seguenti circondari (tra parentesi i rispettivi capoluoghi): Savoia propria (Ciamberì), Alta Savoia, Sciablese (Thonon), Fossignì (Bonneville), Genevese (Annecì), Moriana (San Giovanni di Moriana), Tarantasia (Moutier). Dopo il 1860 fu divisa negli attuali dipartimenti di Savoia e Alta Savoia. Nonostante che sia sempre stata a parlata francese, l’italiano era comunque abbastanza conosciuto se tuttora, in qualche paesino interno, vi è qualche anziano che lo parla.

Per completezza è necessario citare la questione del confine politico in prossimità della vetta principale del Monte Bianco la quale, contrariamente a quanto taluni sostengono, non appartiene alla Francia ma è equamente divisa tra i due stati confinanti. Infatti i confini postunitari definiti tra Italia e Francia stabilivano che la linea confinale passasse per la cima del Monte Bianco; da allora non sono mai stati ritoccati da alcun trattato.

SVIZZERA ITALIANA

La Svizzera Italiana comprende tutto il Canton Ticino e la valle Mesolcina del Cantone dei Grigioni; vanno incluse in essa anche le valli Bregaglia e di Poschiavo, fisicamente staccate dalla restante parte. In tali zone si parla quasi esclusivamente l’italiano ed il dialetto è di tipo lombardo. Si ricorda che il Canton Ticino fu ceduto dal Ducato di Milano alla Svizzera nella prima metà del Cinquecento; esso fino alla seconda metà dell’Ottocento faceva parte delle diocesi di Milano e Como. Le comunicazioni a tutt’oggi sono più intense con l’alta Italia che con la restante Svizzera.

Rientrano nei confini geografici d’Italia anche la Val Monastero (Cantone dei Grigioni) ed il passo del Sempione (Cantone Vallese); gli abitanti di questi due lembi di terra sono di parlata rispettivamente ladina e tedesca. Di contro vi sono alcuni piccoli territori appartenenti all’Italia politica ma geograficamente transalpini: la Val di Lei e Livigno.

VENEZIA GIULIA

Altra regione geografica della Penisola Italiana è la Venezia Giulia, che ne determina i limiti orientali. Il confine politico in questa zona si discosta notevolmente da quello naturale: è italiano il piccolo territorio transalpino di Tarvisio, una volta di parlata tedesca (Tarvis); la Repubblica, di contro, non comprende che una piccola porzione della Venezia Giulia. Il confine infatti, anziché seguire lo spartiacque principale delle Alpi, traccia un percorso molto irregolare tagliando in due la città di Gorizia ed escludendo dall’Italia: l’alta valle dell’Isonzo e dei suoi affluenti, il Carso, l’Istria, le valli della Piuca e di Circonio (l’appartenenza di queste valli al territorio della Penisola è controverso), il Quarnaro (con le isole Cherso, Lussino e Veglia) e la costa liburnica con Fiume. Il confine orientale italiano tra le due guerre mondiali includeva invece la quasi totalità della Venezia Giulia e seguiva in massima parte lo spartiacque naturale; rimanevano escluse dal Regno d’Italia: la conca di Circonio, la valle dell’Eneo, la Liburnia da Fiume a Buccari e l’isola di Veglia ed erano ricomprese piccole porzioni transalpine nei pressi di Idria e del monte Nevoso.

Amministrativamente la regione Venezia Giulia era allora suddivisa in quattro province: Trieste, Gorizia, Pola e Fiume. Gli sloveni e i croati costituivano insieme la metà circa della popolazione totale ed erano concentrati per lo più nelle campagne e: nell’alta valle dell’Isonzo, dell’Idria e del Vipacco (Tolmino, Caporetto, Idria, ecc.), nella zona di Postumia Grotte, di Villa del Nevoso e di San Pietro nel Carso, nella Liburnia e nell’Istria interna, zone queste estese ma con bassa densità di popolazione. La dussivisione tra sloveni e croati ricalca press’a poco l’attuale confine di stato tra Slovenia e Croazia. Gli italiani erano soprattutto nelle città e nei paesi maggiori (Trieste, Gorizia, Fiume, Pola, Parenzo, Rovigno d’Istria, Capodistria, Albona ecc.) e nell’Istria occidentale e meridionale. La suddivisione tra italiani e slavi ricalcava fino a Trieste l’odierno confine tra Italia e Slovenia, mentre in Istria la situazione era molto più complessa, tanto che era impossibile definire una linea di demarcazione italiani – slavi. D’altra parte vi erano pochissime zone della Venezia Giulia dove italiani o slavi erano totalmente assenti. Le percentuali degli italiani a Pola e Fiume erano dell’ 80 % circa. Il carattere culturale predominante di buona parte de regione è sempre stato italiano e molti slavi – al contrario degli italiani – erano bilingui. La pulizia etnica operata a partire dal 1943 da Tito e pagata col sangue di 20 mila italiani morti tra foibe e campi di concentramento e la conseguente emigrazione dei 350 mila italiani ha quasi completamente slavizzato la Venezia Giulia, segnando così la morte di una cultura che per secoli aveva caratterizzato la zona. Oggi in Venezia Giulia si contano circa 30 mila italiani, che sperano in future leggi che li proteggano adeguatamente.

DALMAZIA

La Dalmazia è quel territorio della costa adriatica orientale che va dalla baia di Buccari fino alla foce del fiume Boiana ai confini con l’Albania. La Dalmazia non appartiene geograficamente alla Regione italiana, ma costituisce un territorio a sé, geograficamente staccato dalla Jugoslavia interna per mezzo delle Alpi Dinariche e totalmente differente da essa sia per ragioni climatiche che etniche, in quanto gli slavi dalmati hanno usi e costumi molto differenti da quelli dell’interno. La Dalmazia per tutto l’Ottocento e fino agli anni venti del Novecento era composta da una affatto trascurabile minoranza di italiani, che amministravano quasi la metà dei comuni del territorio. Gli italiani erano concentrati soprattutto sulle isole (Arbe, Lissa, Cùrzola, Lèsina, Brazza ed altre) e nelle città costiere in primis Zara (circa il 70 % di italiani negli anni Venti), ma anche Spalato, Traù, Ragusa di Dalmazia, Càttaro ed altre minori. Inoltre, italiana era la cultura dominante di tutta la Dalmazia, in quanto residuo della plurisecolare dominazione della Repubblica di Venezia. I moti irredentisti in Dalmazia furono molto vivi nella seconda metà dell’Ottocento, ma furono spesso soffocati dall’Impero austro-ungarico che temeva la nascente potenza italiana. Il Patto di Londra del 1915 prometteva all’Italia il dominio di parte della Dalmazia, ma tale promessa fu negata al trattato di Versailles per la ferrea opposizione del presidente americano Wilson. Furono annesse all’Italia solo Zara, Làgosta e l’arcipelago di Pelagosa.Tale "vittoria mutilata" ebbe come conseguenza l’esodo della quasi totalità degli italiani dalmati.

La città di Zara fu l’ultima roccaforte dell’italianità della Dalmazia e resistette fino al 1944 quando in seguito a quasi 60 massicci bombardamenti americani i partigiani di Tito entrarono nella città mettendola a ferro e fuoco e uccidendo centinaia di italiani. Ora la Dalmazia è composta nella totalità della popolazione da slavi (croati ed in piccola parte montenegrini e bosniaci). La presenza italiana è ridotta a poco più di trecento unità, dislocate a Zara e a Spalato. Un dialetto di tipo veneto viene parlato da qualche anziano sia a Zara che in alcune isole (Cùrzola, Lèsina).

MALTA

I confini marittimi meridionali d’Italia sono ben definiti considerando come italiane le isole che si ergono dalla zolla della penisola e tunisine quelle facenti parte della piattaforma africana. Pertanto sono italiane:

*Malta e il suo arcipelago
*Linosa
*Pantelleria
*Lampedusa con l’isolotto di Lampione
*le isole Kerkenna
*l’isola posta al largo della Tunisia verso la Sardegna denominata La Galita.

CORSICA

La Corsica ha anch’essa cultura, usi e storia italiani. In epoca medievale fu contesa da Pisa e Genova che, dopo la battaglia della Meloria (1284), ne rimase padrona. L’occupazione genovese è mal ricordata dai corsi, contrariamente a quella di Pisa che ne plasmò il dialetto. Il 1768 è l’anno della perdita della Corsica: la Repubblica di Genova vendette l’isola alla Francia, che da anni ambiva al possesso dell’isola per un maggior controllo del Mediterraneo. Le truppe francesi (giunte a Bastia già dal 1764) sbarcarono nella restante Corsica nel 1769 e piegarono facilmente le resistenza dei corsi guidati da Pasquale Paoli. Insieme alla Corsica divenne francese la toscana isola di Capraia, che però sarà ceduta alla Toscana con la pace di Vienna del 1815. Nell’Ottocento cominciò lentamente il processo di francesizzazione della Corsica, che divenne sempre più inesorabile, tanto che agli inizi del Novecento l’italiano era quasi scomparso. Solo nelle chiese l’uso dell’italiano tardò a sparire: addirittura nel 1969 nelle montagne di Aiaccio un prete predicava ancora in italiano. Una ripresa dell’italianità della Corsica si manifestò tra le due guerre mondiali ad opera di alcuni intellettuali quali Bertino Poli, Petru Giovacchini, ecc.. Nel 1942 la Corsica fu occupata – ma non annessa – dall’Italia, ma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 tornò nelle mani della Francia. A tutt’oggi nell’isola permangono caratteri italiani: il dialetto della sua parte meridionale è affine al gallurese mentre il corso del nord è una parlata di tipo toscano. Tracce di genovese si riscontrano a Bonifacio, un tempo luogo di prigione di galeotti genovesi. Una curiosità (che forse non tutti sanno): Napoleone nacque ad Aiaccio solamente un anno dopo la cessione della Corsica alla Francia.







venerdì 20 novembre 2020

Ancora su Dante e il suo amore per i numeri.



Chi è dunque il messaggero divino celato sotto il “cinquecento dieci e cinque“ (v. 43) del XXXIII canto del Purgatorio? Si tratta, dato il riferimento al simbolo imperiale dell’aquila, di Enrico (o Arrigo) VII di Lussemburgo (1275-1313), alla guida del Sacro Romano Impero dal 1312?
Che il futuro salvatore della Chiesa sia da identificarsi con lui è una semplice ipotesi, e nemmeno così convincente.Non basta a suffragarla il tentativo di uno studioso, Edward Moore, di far corrispondere il nome Arrico, considerandone il valore gematrico, al numero 515. La gematria (o ghematria) è il sistema numerologico di tradizione cabalistica che consente di associare un numero a ognuna delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico; aleph (A) vale 1, resh (R) vale 200, yod (I) vale 10, a’ayin (O) vale 70, laddove cinque di quelle 22 lettere hanno due diverse forme, e altrettanti valori numerici, se occupano la posizione finale oppure no: kaph (= 20; = 500); mem (= 40; = 600); nun (= 50; = 700); pe (= 80; = 800); tzaddi (= 90; = 900).
Moore, ipotizzando che Dante non sapesse quale numero la cabala abbinasse alla O, ha pensato che il Poeta avrebbe potuto assegnare alla lettera il 4 perché quarta vocale dell’alfabeto latino; la somma da calcolare sarebbe perciò 1 (A) + 200 (R) + 200 (R) + 10 (I) + 100 (C = Q) + 4 (O) (= 515), e la C sarebbe stata fatta corrispondere non a K (kaph), bensì a Q (qoph; valore cabalistico 100), per la prossimità o identità dei valori fonetici di queste due lettere. Una seconda possibilità, contemplata dallo stesso Moore, ha posto alla base del calcolo Arrico VII, immaginando che Dante, conscio dell’assenza delle vocali in ebraico, abbia attribuito alle cinque vocali latine i numeri da 1 a 5 (A =1, E = 2, I = 3, O = 4, U = 5) e considerato nella somma generale il numero 7, corrispondente all’ordinale dell’imperatore tedesco: 1 (A) + 200 (R) + 200 (R) + 3 (I) + 4 (O) + 7 (= 515).
La spiegazione del “cinquecento diece e cinque”, in un canto che attinge all’Apocalisse del celebre 666, il numero della bestia (“Sappi che ‘l vaso che ‘l serpente ruppe, / fu e non è”, vv. 34-35; “Et bestia, quae erat et non est“, Apc., 17, 11), va senz’altro ricercata all’interno della gematria. Bisogna però partire dalla sua applicazione all’alfabeto latino, che assegna 1 ad A, 2 a B, 3 a C, 4 a D, 5 a E, 6 a F, 7 a G, 8 a H, 10 a K, 11 a L, 12 a M, 13 a N, 14 a O, 15 a P, 16 a Q, 17 a R, 18 a S, 19 a T, 21 a Z; non ci sono W, Y, X, mentre I, J e U, V hanno uno stesso valore: rispettivamente 9 e 20. La profezia di Purg. XXXIII, 37-45, ha forti legami con Par. XVIII, 73 sgg. Qui Dante, appena salito al cielo di Giove, descrive il movimento delle luminose anime dei giusti e le lettere che, volando e cantando, disegnano nell’aria; ne appaiono inizialmente 3 (D, I, L), che diventeranno alla fine 35 e comporranno 5 parole: “Diligite iustitiam qui iudicatis terram”. Se fosse allora Dante il “cinquecento diece e cinque”, se fosse lui l’inviato di Dio dell’ultimo canto del Purgatorio? I riscontri non mancherebbero, a partire dalle 5 parole appena riportate.
Non può sfuggire la relazione fra le prime tre lettere (Dil) del versetto di apertura del Libro della Sapienza (“Amate la giustizia, voi che giudicate la terra”), equivalenti ad altrettanti numeri romani (D = 500, I = 1, L = 50), e il “cinquecento diece e cinque” (500 = D; 10 = X; 5 = V): se consideriamo la sola prima cifra (in entrambi i casi 5) del primo e del terzo dei numeri che formano Dil, e la componiamo con l’1 corrispondente alla I, otteniamo 515 (come osservò Vinassa de Regny). Quel “cinque volte sette” fa poi 35, quasi l’età di Dante al momento del viaggio, e le 35 lettere di Diligite iustitiam qui iudicatis terram alludono a due aspetti fondamentali per l’autore della Commedia: l’amore per la giustizia e il suo inappellabile giudizio su buoni, cattivi e penitenti. E non è tutto. Il cielo di Giove, da cui dipende l’esercizio della giustizia in terra, è il sesto del Paradiso, e il numero 6 simboleggia l’ordine e la stessa giustizia. Nel IV canto dell’Inferno Dante si dichiara “sesto fra cotanto senno” (v. 102), attribuendosi l’invidiabile privilegio di potersi considerare ultimo, certo, ma dopo i più grandi poeti classici (Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e, naturalmente, Virgilio). Con riferimento a loro aveva detto, al verso precedente, “sì mi fecer de la loro schiera”. Ed è il cinquecentoquindicesimo verso del poema.
Casalino Pierluigi 





giovedì 19 novembre 2020

Dante e Santa Lucia. La simbologia della luce.



“I’son Lucia / lasciatemi pigliar costui che dorme, sì l’agevolerò per la sua via”. Con queste parole (Purgatorio, IX, 52 ss.) la santa siracusana accoglie dolcemente tra le sue braccia il Sommo Poeta addormentato per trasportalo in volo e deporlo sulla soglia del Purgatorio.
Lucia, la martire venerata in tutta Europa dalla Sicilia alla Scandinavia per i suoi doni che illuminano “la notte più lunga”, è anche colei che salva Dante nella sua divina avventura attraverso le tre dimensioni dell’aldilà, l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Si può ben dire, anzi, che il più grande poema dell’occidente cristiano si regge tutto sulla figura di Lucia, la grazia illuminante, intermediaria tra Maria Vergine e il sommo poeta, perso nella selva oscura del peccato. È lei, nimica di ciascun crudele, il perno di quel disegno provvidenziale che vuole Dante destinato a rigenerare una società non più fondata sulla cupidigia ma sulle grandi virtù. È lei, infatti, a muoversi all’inizio del viaggio del poeta e a sollecitare Beatrice perché salvi il suo amico Dante con l’invio della guida Virgilio.“Beatrice, loda di Dio vera, / ché non soccorri quei che t’amò tanto, / ch’uscì per te de la volgare schiera? / Non odi tu la pieta del suo pianto, / non vedi tu la morte che’l combatte / su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto? / Al mondo non fur mai persone ratte / a far lor pro o a fuggir lor danno, / com’io, dopo cotai parole fatte / venni qua già del mio beato scanno, / fidandomi del tuo parlare onesto, / ch’onora te e quei ch’udito l’hanno” (Inferno, II, vv. 97 ss.)
E Beatrice accorrerà, allora, in suo soccorso così com’ella volse, secondo cioè il dettame della santa.La stessa Lucia che Dante ritroverà in Paradiso nella gloria dell’Empireo, nella candida rosa, all’agognato compimento della sua immane prova: alla sinistra di Maria, che ha il posto di maggior rilievo, siede Adamo di fronte al quale, come gli mostra San Bernardo, “siede Lucia, che mosse la tua donna / quando chinavi, a rovinar, la ciglia” (Paradiso, XXXII, vv. 136-138).
D’altra parte è innegabile che la luce rappresenta il leit-motiv dell’intera Commedia dantesca. ( Avicenna) E Dante aveva per la santa protettrice della vista una venerazione tutta particolare, forse dovuta a una malattia agli occhi di cui il poeta narra nel Convivio (III, IX, 15-16): “E però puote anche la stella parere turbata: e io fui esperto di questo l’anno medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso molto, a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d’alcuno albore ombrate. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo de l’occhio con l’acqua chiara, riuni’ sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono stato de la vista”. Lo stesso Jacopo figlio dell’Alighieri, ricordato per essere stato uno dei primi commentatori della Commedia, annota che dopo avere invocato l’intercessione di Lucia, il poeta aveva da lei ottenuto la guarigione.
Si capisce così la straordinaria suggestione dell’immagine di un Dante unico uomo in carne ed ossa tra tanti spiriti, umanamente “vinto dal sonno”, miracolosamente e amorevolmente sorretto in volo da Santa Lucia dall’antipurgatorio fino alla porta del Purgatorio. Nella misteriosa traversata Dante ha il tempo di sognare, e poiché le visioni facilmente trasmutano in altre, Dante non si avvede di Lucia che lo trasporta, ma sogna di un’aquila che si aggira su un paesaggio rupestre con le ali aperte e lo solleva reggendolo tra gli artigli fino alla regione del fuoco. Ma l’aquila è Lucia, ed è la via della salvezza, come lo è, per Dante, l’impero (di cui l’aquila è il simbolo). Lucia è dunque, nel Purgatorio, più della santa della luce: è la luce della speranza, è la grazia illuminante, è l’immagine dell’aquila di giustizia e dell’aquila imperiale, è il tramite imprescindibile della missione redentrice di cui Dante è destinatario e, grazie al suo poema, portavoce.Ed è nelle sembianze premurose di una tenera madre che William Blake, il geniale poeta pittore e illustratore inglese, la immortala in un suggestivo acquerello (1824-27) in cui la dantesca donna “dagli occhi belli” lo stringe a sé nella salita, fino alla spaccatura della roccia che immette al secondo regno ultraterreno, quello della liberazione del male. Nel chiarore che precede il giorno, nel brillio di qualche stella ancora accesa, Lucia appoggia il piede sulla balza del colle per deporre il poeta un attimo prima del risveglio, seguito a ruota e assistito sempre dal fedele maestro Virgilio. Un’immagine di struggente semplicità, in cui la fluidità delle forme suggerisce l’incorporeità della visione, pur restituendo tutta la terrena umanità di un uomo che abbisogna di essere aiutato e insieme tutta la provvidenziale sollecitudine della santa, che all’uomo fa la grazia dell’illuminazione e della salvezza. Per concludere, Dante identifica Santa Lucia non solo nella allegoria della Grazia illuminante, ma recupera attraverso di lei tutto il discorso complesso della teoria (e simbologia) della luce, ben presente nella Commedia anche per chiara influenza avicenniana. 
Casalino Pierluigi 



domenica 15 novembre 2020

Il ruolo della donna nella filosofia di Averroe'. The position of women in Ibn Rushd (Averroes) by Casalino Pierluigi on Asino Rosso


Pierluigi Casalino: IL RUOLO DELLA DONNA NELLA FILOSOFIA DI IBN RUSHD (AVERROE').
 


L’atteggiamento di Ibn Rushd (l’Averrosè dei Latini) nei confronti dello Stato e della Società del suo tempo emerge soprattutto dalle considerazioni del filosofo arabo andaluso sul ruolo della donna nel contesto storico dell’Islam a lui contemporaneo. Tale posizione assume, del resto,. Un certo interesse, in quanto recepisce le idee di Platone circa l’uguaglianza delle donne, aldilà dei compiti e delle funzioni che la società assegna al sesso femminile. I passaggi rilevanti sull’argomento si trovano nel primo trattato del Commento di Ibn Rushd (Averroè) alla Repubblica di Platone (XXV, 6-10). Occorre citare, al riguardo, i paragrafi 9 e 10, per individuare l’applicazione del pensiero platonico alla sua epoca e alla sua realtà sociale. Vengono sottovalutate le altre qualità delle donne, dal momento che esse vengono poste al servizio dei loro mariti e sono considerate adatte soltanto alla procreazione, all’allattamento, al sostentamento e all’educazione dei figli. Tutto ciò getta in ombra tutte le altre possibili capacità di cui le donne sono dotate, compresa l’attitudine ad esprimere ogni umana virtù, accumunandole ai vegetali. Ne consegue, secondo Ibn Rushd, che le donne sono relegate in una perdurante condizione di ignoranza e di miseria, oltre a non essere impiegate in alcuna attività utile, valendo metà degli uomini, salvo filare e tessere. Una simile concezione si scontra con l’insegnamento e la pratica dell’Islam imperante ed assume un significato del tutto particolare, proprio perché viene promossa da un esponente ortodosso della comunità musulmana, per di più riconosciuto di speciale autorevolezza nel campo della giurisprudenza per incarico del principe dei credenti (al amir al mu’min). Appare chiara, nella circostanza, l’influenza di Platone sul pensiero di Ibn Rushd, che, in termini diametralmente opposti alla morale comune, denuncia i riflessi negativi dell’arretratezza femminile sul buon andamento dell’economia e sull’amministrazione dello Stato. Ancor più sorprendente si rivela la critica del filosofo alla condizione in cui versa la donna nell’Islam contemporaneo, in particolare in ordine allo squilibrio sociale che tale situazione comporta, non solo per le classi più umili. Pur non disponendo di fonti dirette che testimoniano le reazioni suscitate da queste posizioni presso gli oppositori e i nemici di Ibn Rushd, è certo che le controverse ragioni che contribuirono alla sua temporanea caduta in disgrazia, ci furono le accuse mosse contro di lui dai settori ultra-ortodossi sul tema dell’uguaglianza e della dignità dei sessi. Non possiamo non apprezzare, anche per questo motivo, il senso critico di uno dei più grandi geni dell’umanità.
 

Casalino Pierluigi, 18.03.2011.

 

 

                                            THE POSITION OF WOMEN IN IBN RUSHD (AVERROES).

Ibn Rushd’s critical attitude to State and Society of his time is also shown in his outspoken pronouncement on women and their status in contemporary Islam. It is also an interesting application of Plato’s ideas about the equality of women as far as civic duties are concerned. The relevant passages are found in the first treatise of the Commentary (XXV, 6-10). It is for our purpose sufficient to quote paragraphs 9 and 10 – Averroes’ application to his own time and place: ”yet, in these states the ability of women is not known, only because they are being taken for procreation alone therein”. They are therefore placed at the service of their husbands and (relegated) to the position of procreation, for rearing and (breast) feeding. But this undoes their (other) activities. Because women in these states are not being fitted for any of the human virtues it often happens that that they resemble plants. They are a burden upon men in these states is one of the reasons for the poverty of these states. For, they are found in them in twice the number of men while at the same time they do not support any (or: carry on most) of the necessary (essential) activities, except for a few, which the undertake mostly at a time when they are obliged to make up their want of funds, like spinning and weaving. All this is self-evident. This pronouncement runs counter to Islamic teaching and practice and is the more remarkable since it is made by an orthodox member of Muslim community which was ruled by the “amir al- mu’minim”, and moreover by practising lawyer steeped in “fiq”. It is clear that Plato’s ideas must have drawn  Averroes’ attention to the wastage of human labour so detrimental to the State, and led him to advocate a reversal of orthodox Muslim policy. It is the more surprising that this realistic criticism of the position of women in Islam and its bad effected to the economic health of the nation should have gone unnoticed, together with his repeated critical remarks about the contemporary Muslim state as a whole and some of its prominent classes. At any way, no trace can be found in the sources that his enemies and opponents used them against him. Yet it may well be that they allegedly cast doubt upon his orthodoxy, though the sources give different, conflicting reasons for his temporary disgrace.

Casalino Pierluigi, 18.03.2011.


Le fonti della Divina Commedia.






Dante cita assai raramente le proprie fonti e all’inizio del poema Io non Enea, io non San Paulo, Inferno III, 32) si limita ad associare alla propria esperienza soltanto due esempi: la discesa di Enea all’Averno ( ricavate dal VI libro dell’Eneide di Virgilio e da quella della Seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi). Certamente, dal momento che la Commedia è la narrazione di un viaggio nell’Oltretomba, confluiscono in essa diverse tradizioni, che nel complesso costituiscono la base culturale della Divina Commedia stessa: la discesa agli Inferi (catabasi), tema già trattato nell’età classica; e il viaggio inteso come ricerca (que^te) interiore, come quella del Santo Graal, che nel ciclo brètone anima i cavalieri della Tavola Rotonda; le descrizioni dell’Oltretomba presenti nella letteratura religiosa e nelle arti figurative del Duecento, le profezie sul destino ultimo dell’umanità e sulla fine dei tempi, tipiche dei movimenti penitenziali e millenaristici (come quello di Gioacchino da Fiore). Tra gli antecedenti della Commedia vanno ricordati il Sommnium Scipionis di Cicerone, i viaggi nell’Averno narrati nelle Metamorfosi di Ovidio e, soprattutto, l’Apocalisse di San Giovanni. Una forte suggestione era data, senz’altro, anche dal mito di Orfeo (cantato da Virgilio nell’Eneide e in altre sue opere, da Ovidio nelle Metamorfosi, come detto, e da Orazio nell’Ars Poetica), il cantore che, con il suo linguaggio creativo e profetico, si pone come intermediario tra l’umano e il divino. A questo va aggiunta l’influenza religiosa, attraverso alcuni testi apocrifi (in particolare la Visione di San Paolo, anzi le due Apocalisse di San Paolo e di Enoc – di quest’ultimo sia quella ebraica che quella di ambiente cristiano) e le leggende come la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (Jacopo da Varazze) in cui è narrata, fra l’altro, la discesa di Cristo agli Inferi, tema molto popolare nel Medioevo. Assai diffusi, inoltre i racconti di origine irlandese, come la Navigazione di san Brandano e la Leggenda del Purgatorio di San Patrizio, oltre al filone di altre Visioni ultramondane, come quelle di Ansello, di Eynsham e di Tundalo. Tuttora aperto, ma vivo e sicuramente fondato su considerazioni attendibili (Maria Corti, Enzo Cerulli) è il dibattito sulla conoscenza, da parte di Dante, di opere appartenenti alla civiltà musulmana, quali il Liber Scalae (il Libro della Scala o Viaggio Notturno del Profeta Maometto), che racconta dell’ascesa al cielo di Maometto, tradotto dall’arabo in spagnolo e quindi volgarizzato in francese e appunto in latino.  Interessanti anche i riferimenti all’escatologia, alla mistica e alla costruzione ultraterrena ebraica. Più vicini a Dante sono i poemetti in volgare della seconda metà del XIII secolo. Tra questi spiccano il De Ierusalem Coelesti (la Gerusalemme Celeste) e il De Babilonia civitade infernali (la Babilonia infernale) di Giacomino da Verona, il Libro dei vizi e delle virtudi di Bono Giamboni e il Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva. Tutte queste composizioni rivelano somiglianze e analogie più o meno profonde con la Commedia dantesca, che se ne distacca, peraltro, sia per il valore artistico e creativo, che per la vastità dottrinale e per il rigoroso impianto strutturale. Sulle fonti non tradizionali della Divina Commedia, rinvio alle mie precedenti note dedicate alle fonti islamiche ed ebraiche della Commedia.
Casalino Pierluigi 

Il Ponente ligure romano e il ruolo di Giulio Cesare nella Liguria Occidentale.


Quando l'esigenza di contenere popoli non domati venne meno (49 a.C.), subentrò un serio programma socio-economico e culturale. Lo sforzo principale fu quello di assimilare i Liguri occidentali, ed è quindi probabile che lo stanziamento di civili romani da queste parti sia diventato un fatto consistente e incoraggiato dal potere centrale proprio a partire dal 49 a.C.: è noto che scambi costruttivi avvengono meglio con elementi stanziali, quali civili immigrati, che non con individui fluttuanti come i militari. In tal modo si agevolò la diffusione di civili ad elevata romanizzazione in parecchie aree della Liguria di Ponente. La presenza di militari non diminuì mai, ma acquisì un significato diverso per una popolazione indigena, che ormai vedeva lavorare pacificamente antiche proprietà agresti da civili Romani ed Italici, con i quali era più praticabile un rapporto di collaborazione. I fondi stessi, oltre tale funzione acculturante, continuarono a svolgere una funzione strategica di controllo dell'area di Costa Beleni, anzi integravano quella delle rocche militari della Torre dell'Arma e di Campomarzio, che rimasero attive, pur essendovi stati probabilmente ridimensionati i contingenti.In tale ottica era significativa la funzione del fondo Porciano, strutturato secondo alcuni su 2 aree divise dal Tabia Fluvius : quella relativa all'odierna S. Stefano era forse meno vasta ed importante di quella compresa tra l'Armea e l'Argentina, e successivamente nota come "domocolta" di Pozana o Porzana. Fu però il fondo Matutianus ad esercitare verso ponente una operazione di osmosi tra territorio ingauno, cui apparteneva, e quello intemelio; i fondi Pompeianus e Coelianus, disposti all'interno, ad est ed ovest del Tabia , completavano la funzione degli altri nuclei agricoli, integrandoli con la pressione acculturante messa in atto sui "Montani".Nel circondario di Costa Beleni, tra territorio ingauno ed intemelio, si era costituito un ambiente ad elevato tasso di romanizzazione: da un lato era così salvaguardato il controllo su un'area tattica, dall'altro risultava accelerata la civilizzazione di genti notoriamente infide e ribelli, quali gli Intemeli e i Montani.A proposito della maggior parte dei fondi agricoli si è sempre lamentata la scarsezza dei ritrovamenti archeologici, e questo fatto ha maturato delle perplessità sulla loro esistenza, anche perchè nei loro riguardi si è mediamente usata la medievale denominazione di villae.In particolare per Pompeiana la mancanza di tracce d'edilizia romana sembra contraddire l'eventualità ch vi fosse ubicata una villa secondo i caratteri dell'edilizia, ancor poco chiara in verità di simili edifici -aziende: anche se lo studio di una fotografia aerea permette di identificare la peculiarità del sito, spazioso, vicino al mare ed alle sorgenti, parimenti prossimo alle vie di comunicazione e ad un centro di sufficiente importanza come Costa Balena- Beleni, una di quelle peculiarità che da Catone a Columella si ritennero fondamentali per la scelta di un terreno su cui impiantare un'azienda agricola anche di tipo residenziale del ceppo padronale.Pompeiana, come i centri vicini prescindendo dalle attuali lacune di documentazione archeologia, doveva quindi esser stata un "praedium" , cioè un "fundus rusticus" , il cui centro residenziale era la "villa rustica" , ben diversa dalle "villae urbanae" , che, come quelle di Cicerone a Formia e di Plinio il Giovane a Laurento, avevano così splendida conformazione architettonica da poterne vedere tuttora i grandiosi resti.La struttura della "villa rustica" , delineatasi in modo definitivo solo dal I sec. a.C., rispondeva ad esigenze pratiche, essendo destinata alla residenza della "familia rustica" , cioè l'insieme di quanti svolgevano i lavori agrico-pastorali ed a capo dei quali era il "villicus" .Di tali "villae" i ritrovamenti archeologici sono poco evidenti: i contadini abitavano capanne di una sola stanza, che quasi mai si evolsero in struttura più complesse .E' possibile che presto gli antichi proprietari o i loro eredi si fossero trasferiti (agli inizi I sec. d.C.) nei centri della costa ove l'esistenza era più confortevole: Catone, prodigo di consigli per gli agricoltori, invitò i titolari di poderi agricoli di amministrarli attraverso l'opera di un villicus fidato, una sorta di servo amministratore e sovraintendente.
L'argomento è forse irrisolvibile alla luce delle attuali conoscenze; peraltro esistono dei problemi non da poco connessi alla toponomastica dei fondi (specie per il Porcianus, che a seconda delle interpretazioni si può giudicare più o meno esteso di quanto fosse in realtà). A proposito del fundus Pompeianus si può comunque pensare che i suoi assegnatari si fossero trasferiti nei centri di Costa Beleni se non di Albingaunum ed Albintimilium già alla fine del I sec. a.C.: in questa seconda città, in virtù delle epigrafi recuperate dalla necropoli romana, abbiamo testimonianza di nomi di individui della gens Pompeia.La tradizione attribuisce a Pompeo Magno la fondazione della villa, ma si tratta di leggenda senza prove concrete. Pompeo avrebbe infatti dovuto attuare questo progetto agli inizi del 71 a.C., mentre procedeva dalla Spagna, dove aveva sconfitto Sertorio, contro l'esercito servile di Spartaco, ribelle a Roma e incalzato dall'armata di Crasso. L'intervento di Pompeo, come quello di Crasso, venne ordinato tramite un senatus consultum ultinum: la gravità della situazione richiedeva un' azione rapida, senza dispersione di uomini, tantomeno in una regione non ancora coinvolta dalla sommossa servile come la Liguria.In linea teorica Pompeiana avrebbe potuto prendere corpo e nome da Pompeo Strabone, padre del precedente: fu questi che avviò le trasformazioni della Gallia Cisalpina, attraverso la concessione dello Jus Latii e d'altri benefici. In Piemonte le città di Alba Pompeia e Laus Pompeia presero il nome proprio da questo benefattore; si trattava, però , di località di importanza strategica, commerciale e demografica. Pompeiana antica presentava invece il suffisso -ana o -anus , sempre in funzione attributiva del termine villa o locus : per quanto si ricava dai più antichi documenti disponibili. Tali suffissi sono esclusivi di toponimi prediali, servivano cioè a nominare, dalla gente o famiglia proprietaria, poderi agricoli, anche vasti ma sempre indegni di essere nominati da qualche illustre personaggio pubblico. In ultima analisi sarebbe più accettabile se Costa Beleni , centro di un certo rilievo, fosse stato nominato Costa Pompeia per celebrare tale glorioso generale di Roma. Non si trascuri, altresì, il fatto che, se si ammettesse per Pompeiana un tale famoso.fondatore, non si giustificherebbero i toponimi abbastanza anonimi delle altre ville, a meno che per l'eventuale Villa di Ceriana, con molta fantasia, non si supponga un intervento di M. Celio Rufo, corrispondente di Cicerone; tenendo poi conto che i toponimi si originarono simultaneamente, si dovrebbe ipotizzare che parecchie celebrità di Roma, quasi nello stesso tempo, si fossero adoperate per popolare il territorio del Tabia con ville di proprietà, gestite da loro seguaci: evento che pare difficile da accettare visto pure il ruolo ancora marginale che la Liguria aveva nel giudizio dei Romani.
La villa Pompeiana (o fundus Pompeianus ) non ebbe alcun illustre fondatore; l'identificazione di questo con Pompeo Magno o Strabone avvenne in quanto di frequente gli studiosi del passato per spiegare un toponimo ricorrevano ad un eponimo (cioè ad un fondatore che avrebbe dato il suo nome al luogo) quasi sempre illustre, ricavato sulla scia delle favole e della mitologia, come nel caso di Romolo per Roma o, più modestamente, dell'eroe antiromano Intemelio per Ventimiglia. Pare più credibile, invece, che il fondo Pompeiano, con i limitrofi, sia stato costituito nel corso od alla fine della contesa tra Cesare e Pompeo; il primo in particolare godette di appoggi in Liguria e nella Cisalpina, dove reclutò armati e largheggiò nella concessione della cittadinanza romana.Tuttavia in queste zone non gli mancarono focolai di opposizione pompeiana, e questo si verificò proprio nella delicata area intemelia, prossima a Costa Beleni ed all'insicura Gallia Transalpina.Anche per questo Cesare, mentre da un lato con la Lex Julia municipalis sanciva le strutture amministrative dei centri maggiori, dall'altro proponeva distribuzioni di terre ai suoi veterani, specie con prole numerosa.In cambio della concessione della cittadinanza romana gli sarebbe stato semplice confiscare territori agli Ingauni per poi distribuirli ai suoi legionari, che, divenuti agricoltori, avrebbero popolato le zone rurali presso Costa Beleni ed avrebbero svolto a suo vantaggio la citata funzione strategica, economica ed acculturante: ed in tal caso la realizzazione dei fondi rustici sarebbe da datare entro un periodo compreso tra il 46 e il 44 avanti Cristo. Una certa complessità di queste riflessioni, la celerità degli avvenimenti che coinvolsero Cesare, il poco tempo che avrebbe comunque avuto per occuparsi della realtà socio-economica del Ponente di Liguria, rendono l'ipotesi, per quanto suggestiva e credibile, non sufficientemente fondata.
Casalino Pierluigi 

sabato 14 novembre 2020

Quando la stupidità e l'errore deformano anche la mente di chi la produce e la riceve.

Il risultato di questo continuo diffondersi di stupidità, prima o poi si fa sentire. Le sciocchezze e le volgarità lentamente prendono la mente e l'anima e ci trasformano in peggio. Dobbiamo, quindi, non sottovalutare l'effetto negativo e la forza insita alle sciocchezze, un disastro che ha una sua energia devastante  che si estende e si ramigifica e non dobbiamo illuderci di esserne immuni e vaccinati.
Casalino Pierluigi 

venerdì 13 novembre 2020

Cos'è la Divina Commedia. Continuità nelle opere di Dante.


Ogni opera di Dante è un mondo a sé, un microcosmo, che vive di luce propria nel macrocosmo dantesco. Ogni opera ha la sua legge costruttiva che si impone al suo stesso autore, e ciò anche a proposito di aggiunte, che il Sommo Poeta avrà effettuato come tutti gli autori di questo mondo. Esiste, peraltro, un continuum nello sviluppo di un artista, che lo stesso Dante ci ricorda, su cui attira la nostra attenzione proprio quando pone in stretto rapporto la Vita Nuova e il Convivio; analogamente si può dire per la Divina Commedia, che trova collegamenti con le altre opere dantesche. La grandezza di Dante poggia dunque non solo sulla ricezione nelle sue opere di molte fonti, pur nella geniale sua rielaborazione, ma anche e soprattutto sulla sua capacità di tenere unita la sua produzione, attraverso una straordinaria messa in opera di temi e di spunti che rendono originale la rappresentazione della sua sterminata fenomenologia creativa e riflessiva.Il fascino della Commedia di Dante, ancora oggi, è tuttavia preponderante rispetto alle altre opere dantesche. Ma è questa solo il capolavoro della lingua italiana, o anche altro come abbiamo detto in altra occasione? Il mondo della Divina Commedia, ancora oggi, a 700 anni di distanza, ci parla e ci suggerisce nuovi spunti di riflessione, laici o religiosi che siano.Il perché del titolo Divina Commedia. La Divina Commedia: poema allegorico e non solo. E l'ho ricordato anche in precedenti occasioni. Un poema che nasconde al suo interno particolarità che pochi conoscono, se non gli addetti ai lavori. Un poema che continua a parlarci tutt’oggi, che è oggetto e fonte di studio per molti professionisti. Partiamo dal titolo: secondo il primo manoscritto ritrovato, il suo vero titolo è semplicemente “Commedia”; l’aggiunta dell’appellativo “Divina” (terminologia con la quale la conosciamo oggi) è stato dato da Giovanni Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante, donandole così quel tono alto e religioso che l’opera stessa ha. Il numero 3. Un viaggio in 100 canti, diviso in 3 cantiche, le strofe sono terzine, ogni cantica ha 99 canti (più il primo dell’Inferno a mò di introduzione), dove ha visitato i 3 regni dell’aldilà Il numero 3: il trino, la Trinità, la Trilogia, il tre ed i suoi multipli. Tutto ciò che ha a che fare con il numero della perfezione, è la base della struttura della Commedia. Questo ci fa anche assaggiare l’idea che, il sommo Poeta, abbia avuto non solo la fortuna del viaggio nei tre regni dell’aldila, ma anche di una probabile illuminazione divina. Un viaggio, o meglio ancora un Itinerarium mentis in Deum: partire dal punto più basso e profondo della terra, quale l’inferno, e piano piano risalirvi, fino alla visione della Trinità, della luce immensa di Dio. I tre regni: nel centro della terra Lucifero, in linea retta al punto diametralmente opposto Dio. L’onnipotente che ha scaraventato il male assoluto, l’angelo ribelle nelle viscere della terra, provocando così l’incavo infernale, al cui polo opposto è comparsa la montagna del Purgatorio. Ma perché Dante si smarrisce nella selva oscura a un certo punto della sua vita? C’è chi dice che lui sia arrivato ad un punto cruciale della sua vita in cui necessità di fare un po’ i conti con se stesso, chi parla di uno smarrimento interiore che lo porterà a perdersi in questa selva (metafora dello stato di angoscia di un uomo), dove incontrerà le tre fiere, segno di tre dei 7 vizi capitali che più angustiano l’animo umano: lussuria, superbia ed cupidigia. Un luogo oscuro, dove solo una luce può salvarlo…quello della coscienza e della conoscenza: Virgilio, poeta latino, simbolo di momentanea ripresa ma di necessità di intraprendere questo viaggio: “Andremo in un luogo dove sentirai orrende grida, in luoghi dove essere penitenti è bello poiché si aspetta la gloria delle beati genti, sino all’arrivo della luce più grande che tu possa conoscere”.Le anime incontrate da Dante. In questo suo viaggio, perché Dante incontrerà tutte le anime ma parlerà solo con alcune di loro? Dall’inferno al purgatorio, Dante chiede, conosce, parla con Virgilio e con le anime dannate o penitenti. A loro cerca di domandare e capire perché sono lì e dalla risposta di alcune, capire anche il rimorso, il risentimento, la conoscenza del proprio peccato anche nei confronti di Dio. Solo alcune vogliono parlare direttamente con lui…perché forse, nel disegno divino di chi ha voluto che Dante compisse questo viaggio, così era scritto.La profezia dell’avvento di Lutero. Alcune caratteristiche della Commedia sono anche di preannuncio ad eventi che avverranno molti scoli dopo. Secondo alcuni studiosi (circostanza peraltro assai opinabile), l’incontro che nella selva oscura Dante ha con una delle tre fiere (il Veltro, simbolo di una rivoluzione probabilmente voluta da Dio) è vista come l’annuncio della venuta di Martin Lutero. Anagrammando, infatti, il nome VELTRO, ne esce fuori proprio LVTERO (con la U latina).La visione di Dio. Dio: l’immenso, l’assoluto, tanto che Dante lo nomina solo 3 volte all’interno dell’opera. Ancora una volta il ritorno del numero perfetto. Ma non finisce qui. Dante sa bene che, da mortale quale ancora è, non potrà mai vedere e godere della luce di Dio come i santi del paradiso, ma, nonostante tutto, si piega alla richiesta di preghiera alla Vergine. Una richiesta accolta, data la compassione e la purezza d’animo del poeta: Dante è invaso da questa luce accecante che riuscirà a vedere solo per qualche istante, prima di svenire sotto il peso della grandezza di Dio.Il purgatorio: una montagna nata dallo scaraventare Lucifero nel centro della terra. La montagna dei penitenti che Dante, con l’aiuto di Virgilio sale e percorre, quasi a remissione di tutti i suoi peccati. Ma è anche il luogo dove, secondo il racconto fatto da qualche veggente (e anche questa è affermazione piuttosto acrobatica ed opinabile), “Dante sia stato lì per oltre 700 anni, prima di raggiungere la beata gloria del cielo”.La Commedia di Dante: un viaggio letterario, mistico, di attesa…che ha tutte le caratteristiche dell’appellativo “Divina”. Ma anche e soprattutto il diario di un uomo che ha fatto esperienza della vita, delle sue sfide e del suo eterno e drammatico messaggio di conquista e di salvezza.
Casalino Pierluigi 

giovedì 12 novembre 2020

Dante Mistico.



“Oltre la spera che più larga gira” arriva il sospiro d’amore di Dante per la gentile e onesta Beatrice, che ormai si trova beata nel celeste empireo. Ma l’amore di Dante per la sua donna prima di diventare amore spirituale attraversa due fasi. Nella prima fase abbiamo un’ amore cortese, il poeta è innamorato di una Beatrice il cui saluto lo risolleva interiormente e spiritualmente. Dante nel suo poetare nasconde il nome della sua amata, ma ciò suscita le chiacchiere della gente, che portano Beatrice a togliere il saluto all’innamorato .
Nella seconda fase abbiamo inizialmente un Dante disperato, poiché l’unica sua fonte di beatitudine gli è stata strappata via, ma successivamente il poeta capisce che la felicità non si trova nel saluto della donna ma nel lodare interiormente l’amata. Nella terza è ultima fase Beatrice è morta, ma neanche la morte ferma l’amore di Dante per Beatrice, anzi l’ardore aumenta e da passione bassa e terrena diventa sentimento puro e celeste. L’amore per l’amata, ormai beata in paradiso, innalza l’anima di Dante fino alla contemplazione di Dio, la donna diventa ponte fra il poeta e il Creatore.
L’amore di Dante per Beatrice è un esperienza mistica, che riprende le tre fasi dell’amore verso Dio descritte da San Bonaventura.Secondo il Santo la prima fase è l’amore verso Dio attraverso la lode delle cose create, la seconda fase è amare Dio per il piacere di amarlo, la terza fase è l’amore mistico che trasporta l’anima sopra ogni cosa fino al raggiungimento di Dio.Il pensiero di San Bonaventura si basa sulla filosofia di Sant'Agostino, che considerava l’amore di Dio per gli uomini come assoluto, libero e infinito.
“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Giovanni 3:16).
Casalino Pierluigi 




Dante e la mistica ebraica.


Nell'ambito del nuovo indirizzo dell'ermeneutica dantesca, che sottolinea la necessità di uno studio approfondito che chiarisca i nessi con altre tradizioni simboliche ed esegetiche, alcune ricerche  evidenziano il sostrato, di base neoplatonica, attivo come sforzo di auto-comprensione intellettuale, comune alla mistica ebraica e a quella cristiana. Partendo da un esame dello stilnuovo come un processo mirante a ricontestualizzare i topoi neoplatonici di stampo sapienziale della lirica occitanica e siciliana, per rinnovarli ed aprirli in una direzione mistica che sfrutta la qabbalah ebraica come deposito di tecniche utili per il raggiungimento dell'estasi, il lavoro propone una lettura in cui, più che un maturarsi progressivo del pensiero dantesco, le diverse opere rappresentano gli stadi successivi dell'iter mistico che il poeta intende esemplificare: la salita al primo gradino della scala mistica con la Vita Nuova, che, frutto di una riorganizzazione matura da parte del poeta dei propri componimenti giovanili, si pone come illustrazione delle tecniche impiegate per ascendere alle altezze di un'estasi intravista ma poi sfuggita, poiché il mistico non si è ancora adeguatamente preparato ad un contatto più duraturo; la stasi, che permette, con il Convivio, di tratteggiare l'importanza di un temporaneo percorso alternativo volto, sotto l'egida della Sapienza, ad acquistare tutte quelle doti che sole potranno porre il mistico in grado di rafforzare il proprio io interiore; e la finale ascesa al gradino più alto con la Commedia, dove il mistico guadagna l'accesso alle massime altezze metafisiche consentite all'uomo, acquistando, come dono particolare della Grazia divina, facoltà profetiche. Questo studio, che usa le teorie della qabbalah ebraica come chiave per l'apertura del livello anagogico, si presenta come un punto di riferimento essenziale a chiunque si occupi di questioni di esegesi del testo dantesco, contribuendo ad aprire nuovi orizzonti interpretativi anche agli studiosi della civiltà cortese e del dibattito ermeneutico in epoca medievale. Un discorso che si estende, come già fatto presente in altre precedenti occasioni da chi scrive, alla stessa influenza della escatologia islamica sulla Divina Commedia e che recupera tutti gli studi incentrati sulle fonti della Commedia.
Casalino Pierluigi.

L'esperienza mistica di Dante nella Divina Commedia.


 

Dante facendo raccontare la sua avventura ad Ulisse, crea in lui una sorta di doppio. Entrambi, in effetti, vanno verso il Purgatorio, che però raggiungono attraverso cammini opposti: se il poeta fiorentino vi giunge mediante una ascensione etico - spirituale, l'eroe greco si affida ad un desiderio insaziabile di conoscenza. Circostanza, peraltro, adombrata dallo stesso Dante, se pur non apertamente manifestata. Inoltre al cammino ascendente di Dante si oppone il cammino in "orizzontale" di Ulisse, che procede ignorando volutamente gli dei, tanto quelli pagani (come si capisce dall'attraversamento delle colonne d'Ercole e dal furto della statua di Atena) tanto quello cristiano che ovviamente non conosce. C'è quindi una netta opposizione fra la concezione del mondo spirituale legata a Dante e quella pratica legata ad un avventuriero quale è Ulisse. In questo tuttavia si nasconde lo stesso Dante almeno nella sua vecchia parte di peccatore. Nella Divina Commedia Dante si figura, infatti, e si riconosce predestinato da Dio a un viaggio mistico.
Enea “il pio eroe di Virgilio” fu chiamato a dare fondamento all’impero Romano e a portare nel mondo la civiltà; San Paolo fu eletto a diffondere nel mondo la verità cristiana; Ulisse fu costretto ad essere sempre in movimento superando i confini di spazi proibiti proprio come Dante, ma mentre Ulisse fu destinato al naufragio Dante può visitare i regni oltremondani perché è assistito dalla grazia divina.
Dante si sente scelto per salvare il mondo dal baratro di corruzione in cui è caduto.
Davanti a lui c’è lo spettacolo turpe di tanti errori e fallimenti,  …l’imperatore ha dimenticato la sua funzione più importante di garantire ai sudditi giustizia e pace…, la Chiesa ha smarrito il senso della propria missione spirituale.
Il pellegrinaggio nell’oltretomba in cui viene analizzato il male, la corruzione orrenda del mondo, il cammino per cui, attraverso l’espiazione, si giunge alla gloria del paradiso, vuole comunque essere il viaggio di una redenzione individuale e insieme di un riscatto universale: di una rigenerazione che attraverso il destino del poeta si trasmetta a tutta l’umanità. 
Casalino Pierluigi 

                         

                  

 

  

I TRE REGNI OLTREMONDANI NEL VIAGGIO MISTICO DI DANTE.

                

     

               

 

 

 

                                                                           

 

 

 

 

 

 

 

                          
           
                             L’ INFERNO
 

L’immaginario del viaggio oltremondano si compie in sette giorni a cominciare dall’8 Aprile o 25 Marzo del 1300: Dante aveva allora 35 anni ed era al punto centrale della vita. La sera si smarrisce e si ritrova in una selva (allegoricamente il peccato):

vi era giunto come dominato da un sonno (in cui è da vedere l’intorpidimento della coscienza) avendo smarrito la dritta via.

A questo punto si ridesta e vede con angoscia e sofferenza lo stato di peccato e di imminente rovina in cui si ritrovava; vorrebbe uscirne e pervenirne al colle ma ne viene impedito da tre fiere, una lonza(l’incontinenza), un leone(la violenza), una lupa(la cupidigia). Il colle simbolo della salvezza gli sembra irraggiungibile.

Il suo destino sarebbe quello del peccatore eternamente schiavo delle tre fondamentali tendenze peccaminose

se non lo soccorresse il poeta latino Virgilio (simbolo della scienza umana): costui lo libererà dalle fiere e lo guiderà attraverso l’inferno e il purgatorio per consegnarlo alla guida di Beatrice (la scienza divina).

Il viaggio a cui lo sollecita Virgilio è una metafora del viaggio che la coscienza deviata deve fare all’interno di se stessa per riedificare la propria volontà di bene, per riconquistare la libertà dal peccato.

    

L’inferno è il primo dei tre mondi ultraterreni da attraversare, un abisso sotterraneo, la cui apertura è da Dante collocata vicino a Gerusalemme, centro geografico e religioso del mondo emerso, ha la forma di un cono rovesciato: si sprofonda fino al centro della terra dove è piantato in tutta la sua spaventosa mole Lucifero.

Dante divide l’inferno in antinferno, alto inferno e basso inferno: sul piano morale tre sono i peccati dominanti (l’incontinenza, la violenza e la malizia).

Via via che si discende aumenta la gravità del peccato e quindi anche la pena, il sistema penale obbedisce alla legge del contrappasso (patire il contrario di ciò che si è fatto).

L’antinferno compreso tra la porta di ingresso e il fiume Acheronte è assegnato alle anime dei vili, di coloro che rifiutarono le scelte morali e si relegarono ai margini del mondo. L’inferno vero e proprio comincia con il Limbo, sede di coloro che morirono senza battesimo; nei cerchi che seguono sono puniti i lussuriosi, i golosi, gli avari e i prodighi, gli iracondi.

Il basso inferno comincia con il sesto cerchio degli eretici, il settimo cerchio dell’inferno è diviso in tre gironi(violenti contro il prossimo, violenti contro se, violenti contro Dio). Nell’ottavo cerchio sono puniti i fraudolenti, nel nono i traditori, in fondo è Lucifero che strazia Giuda e Bruto e Cassio, i traditori delle due fondamentali istituzioni su cui si regge la società, la Chiesa e l’Impero.

       

Fissati nell’eternità con la loro contraddittoria personalità quale si manifestò in terra, i peccatori sono uomini che vivono in forme esasperate e disperate, in una loro condizione di esseri degradati dal peccato: da ciò la loro collera, la loro impotenza e la loro consapevolezza che non potranno mai ottenere la libertà.

E in presenza di tanti peccatori, alcuni dei quali di grande personalità, il protagonista del viaggio come viene riedificandosi all’interno della coscienza per la chiarezza con cui prende visione degli affetti devastanti del peccato così

partecipa alla vicenda di un umanità degradata che a volte richiede severità di giudizio, altre volte induce a profonde riflessioni.

                                                                             

      

 

                                                                              

 

 

 

 

 

 
 
 
                     IL  PURGATORIO
 

Dal cono rovesciato che come voragine si aprì per l’orrore di dover accogliere dentro di sé Lucifero, la terra che ne emerse si collocò nell’emisfero australe in forma di isola e come altissima montagna in mezzo all’oceano.

Il purgatorio è dunque un isola che dalla base ampia si configura  come una montagna altissima, i cui fianchi si dispongono come una serie di terrazzi, in basso nell’Antipurgatorio la montagna si colloca nella stessa atmosfera che avvolge la terra: da quel punto fino in cima la montagna si libra nell’etere cosmico ed è del tutto libera da ogni perturbazione atmosferica (terremoti, pioggia, venti).

Anche per questa parte Dante utilizza il criterio della tripartizione: la montagna si divide in antipurgatorio, purgatorio e paradiso terrestre.

  

Dieci le parti dell’inferno(antinferno e nove cerchi), dieci le parti del Purgatorio(due zone dell’antipurgatorio,sette gironi, paradiso terrestre). Mentre nell’inferno si scende per gradini, nel purgatorio si sale per gironi; verso il centro della terra tende l’inferno, il mondo del buio, verso l’alto il Purgatorio. Nel Purgatorio si colloca il sentimento di amore come un sentire di nostra libera scelta.

    

     

Tutte le creature amano, gli uomini non peccano perché amano, il peccato nasce da un amore eccessivo, scorretto, mal finalizzato.

Si può amare e sbagliare l’oggetto dell’amore e quindi si desidera il male del prossimo e si commettono peccati di superbia, invidia, ira; oppure si amano i beni terreni ma con dismisura ed allora si commettono peccati di avarizia, di gola, di lussuria.

Tutto il viaggio attraverso la montagna vuole proporre all’attenzione degli uomini le vie di accesso all’ordinamento voluto dalla divinità

cui si congiunge come elemento indispensabile la conquista della libertà dal peccato attraverso la purificazione.

L’anima del purgatorio è stata perdonata da Dio, ma deve purificare l’impurità dell’anima che ne fu cagione.

Il nuovo percorso del viaggio dantesco, dopo la discesa nel regno del male è dunque un percorso di lenta e travagliata 

 

          

  

                                                                             

 

                                                              

 

 

 

 

 

 

 

 
 
                        IL  PARADISO
 

In cima al monte fa spettacolo la foresta leggiadra del paradiso terrestre: qui Dante incontra Beatrice che d’ora innanzi gli sarà da guida.

Il paradiso è pura luce, Dante gli dà figura di nove sfere concentriche, incorruttibili e cristalline, nelle quali sono incastonate come pietre preziose i pianeti.

    

La luce si fa tanto più intensa quanto più si ci avvicina a Dio.

Dante incontra anime che si dispongono in una scala gerarchica, la quale rappresenta il loro maggiore o minore grado di perfezione, ma non indica, in nessun modo, una differenza anche minima di felicità.

Le anime dei beati dimorano infatti al di là dei nove cieli, intorno a Dio, nell’Empireo, che comprende tutti gli spazi.

Il viaggio in Paradiso è scandito da

successive illuminazioni: il poeta capisce di essere salito a un cielo più alto dall'intensificarsi della luminosità.

Dio stesso appare come pura luce e gli ultimi versi della Cantica parlano di una Grazia specialissima che Dio concede a Dante per consentirgli di comprendere il mistero

dell'Incarnazione.

La mistica rosa, che contiene i beati, sfolgora di luce, Dio appare come punto geometrico immateriale ma luminoso, gli angeli hanno il viso raggiante e le ali d'oro.

In contrasto con il buio e il linguaggio blasfemo e violento dell'inferno, i cieli paradisiaci si contraddistinguono per lo sfolgorio della luce e per l'armonia delle note dei canti intonati dai beati.

Casalino Pierluigi 


             

       

 

   

                                                                            

                            

 

 

 

    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La parte in ombra della democrazia



 
  

Diceva Alexis de Tocqueville che uno dei pericoli più grandi della democrazia è quello proveniente da chi la ama in eccesso. Si tratta di una parte nascosta di questa concezione della vita associata e dello Stato. Il modo morboso di abbracciare la democrazia ha generato sempre mostri. Tale considerazione fu già formulata da Platone, a dire il vero, nella sua celebre opera ”La Repubblica”. Un testo grandioso, che attrae ancora oggi per la profondità delle analisi del potere. Un legame invisibile riunisce, del resto, tutti coloro che sono stati stregati dall’antico filosofo greco.  L’aspetto centrale di questo libro è il movimento di spersonalizzazione progressiva del desiderio del bene, che molto rapidamente trascende la ricerca soggettiva del governante per assimilarsi al desiderio che il sensibile prova per l’intellegibile. Nel testo platonico per eccellenza sono rappresentate tutte le questioni più profonde della filosofia politica e persino di quella più ampia della visione morale. Di fronte alla rottura aristotelica del pensiero platonico, attraverso l’introduzione del concetto di immaginazione, Platone ritorna, in ogni caso, sulla scena etica. La preoccupazione platonica di definire le condizioni sulle quali fondare i giudizi morali sopravvive alla speculazione dello Stagirita. Si domanda Platone, dunque, se la legittimità del potere dipenda dal sapere o dal consenso degli uomini. L’esercizio del potere non può affrancarsi dal desiderio dei beni umani (la ricchezza, i legami privati, l’amore della gloria)? La ragione è sufficiente per governare gli uomini? Le passioni non sono anch’esse presenti in tale processo? Le leggi possono sostituirsi al sapere del governante come fonte suprema di legittimità? Il male politico della rivalità tra gli uomini è inevitabile? La Repubblica non ha lo splendore di altri testi platonici, come ”Fedra”, ad esempio, dove la potenza d’evocazione del mondo intellegibile è senza pari Ma l’esposizione de ”La Repubblica” persegue con rigore spietato e, per certi versi, disperato un ideale politico integralmente basato sulla conoscenza e il sapere. Nulla di più moderno nel contesto della riflessione sulla democrazia, aldilà del tempo. Per farsi eleggere, per raccogliere il consenso e rafforzarlo, una volta eletto, il governante cerca di piacere al popolo, identificandosi con esso. Tutto ciò per uniformarsi ai desideri stessi del popolo, anche quando l’azione politica richiede di prendere le distanze dall’opinione pubblica. Non sempre, infatti, seguire ed assecondare gli istinti degli uomini corrisponde al loro autentico interesse. Un’operazione di marketing in molti casi non da buoni frutti. E’ in una democrazia egalitaria che occorre conferire al potere politico una forma di distacco e di trascendenza: paradossalmente in questo tipo di democrazia, però, è più difficile da costruire uno spazio adeguato per l’esercizio del potere, dal momento che così si genera un processo contro-corrente allo stesso spirito di fondo della democrazia. Da qui, per concludere, si originano quelle parti d’ombra più segrete, anche le più imprevedibili, della democrazia, come ai giorni nostri abbiamo bene presenti.
Casalino Pierluigi 

Un padre del pensiero moderno.



 
    UN PADRE DEL PENSIERO MODERNO.

Abu’-Walid Muhammad ibn Rushd, Averroès per il mondo latino ed occidentale, nasce a Cordova, nell’Andalusia araba, nel 1126 e muore a Marrakech nel 1198, dopo aver conosciuto la disgrazia e l’esilio. Figlio e nipote di qa^di (giudice in materie civili e religiose) della Grande Moschea, restituita parzialmente nel 1974 al culto islamico, giurista e medico, è soprattutto filosofo. In particolare è noto come straordinario interprete e commentatore di Aristotele. Al pari di altri suoi grandi conterranei, come Ibn Maimun, il pensatore ebreo Ibn Maimun, il Maimondide dei latini, ibn Rushd passa alla posterità, esercitando un’influenza considerevole sulla storia della filosofia e della civiltà europea. ”Commentator” è il soprannome latino di tale gigante del pensiero arabo, mentre Aristotele è definito il filosofo per eccellenza. Berbero di origine, formatosi alla scuola dell’intuizione universale e razionalistica della cultura araba altomedioevale, ibn Rushd si pone come un maestro ineguagliabile di analisi delle categorie della concezione umana. Avversario della cosiddetta ”reazione teologica” dei ”letteralisti” e di al-Ghazali, esponente di primo piano, peraltro, della speculazione mistica sufi, ibn Rushd è il difensore della filosofia in un periodo in cui tale atteggiamento gli costa l’accusa di eresia. Dimostrando che la filosofia è conforme pienamente alla Rivelazione, interpreta il Corano non come depositario di un sapere definitivo, ma come veicolo di un ordine a conoscere, contenente il programma della scienza, a cui applicare i metodi della lettura razionale. Problema ancora oggi aperto in seno alla cultura islamica, con le drammatiche conseguenze, dovute ad un ostinato arroccamento su posizioni integraliste e fanatiche. L’eterna questione di destare la ragione dal suo sonno è al centro della visione di ibn Rushd, dunque. Il Cordovano distingue tra i sapienti che, istruiti dal metodo dimostrativo, propriamente filosofico, la massa, permeabile solo da argomenti oratori e retorici, che si accontenta del senso letterale, e i teologi, che ritiene una classe inutile, dispensatrice di interpretazioni pericolose e dannose, in grado solo di far precipitare la comunità nel settarismo e generare odio e discordia. Ibn Rushd, rappresentante principale, pertanto, della ”transaltio studiorum” (trasferimento dei poteri) al Medio Evo, è soprattutto un grande pensatore dell’unità fondamentale dell’intelletto umano. Sull’eredità di ibn Rushd si possono creare le premesse di un rinnovato dialogo tra due mondi, quello islamico e quello occidentale, nel segno di una ritrovata presa di coscienza di comuni radici ideali. Casalino Pierluigi    


Fonti islamiche della Divina Commedia



 
FONTI ISLAMICHE DELLA COMMEDIA

Leggere la Divina Commedia è vederla aprirsi davanti a noi con la sua struttura cosmica ed escatologica. Il viaggio di Dante verso il recupero della propria dignità, attraverso i pericolosi sentieri del mondo e dell’anima, si snoda nelle tre Cantiche, secondo un modello antico, che trova le sue lontane origini addirittura nella letteratura persiano-avestica. Non è nuovo Dante, dunque, al viaggio ultramondano. Prima di lui c’è traccia di esperienze analoghe. S.Paolo e Virgilio, ma anche Maometto nel ”Miraj”, nel quale l’Arcangelo Gabriele accompagna il Profeta dell’Islam al settimo cielo, dopo aver frequentato tutti i diversi regni dell’ombra. Il ”Dittamondo” del toscano Fazio degli Uberti, rilevato la tradizione, riportata nell’opera andalusa esoterica del viaggio di Maometto nell’aldilà, conosciuta dall’esule fiorentino Brunetto Latini, durante la sua permanenza nella marca cristiana, ai confini con l’Arabismo ispanico. Gli scambi culturali tra Oriente ed Occidente, non estranei alle origini arabe della lirica romanza e agli imitatori di essa in Italia e in Germania, rendevano il mondo di allora più omogeneo di quanto non sembri. Inutile ripercorrere le vicende, segnate dall’incontro e dallo scontro tra le due parti del cielo. Un intreccio di culture e di voci si articola alle radici della Commedia. Ed è logico che così sia. L’universalità di Dante si fonda anche su tale aspetto. L’itinerario iniziatico del Sommo Poeta e gli stessi suoi commentatori individuano piani diversi dell’altro mondo dantesco, quasi in sintonia con la differenziata visione del suo inventore. La continuità tra le prospettive escatologiche e cosmologiche è dato certo. L’arte creativa del regno del sogno e della fantasia, ma anche la rappresentazione dei fini ultimi dell’esistenza dell’uomo, colgono nella speculazione di Dante il vertice della drammaturgia della luce e della conoscenza intuitiva, che alla luce è legata. Il fuoco dell’amore che arde nell’anima è il veicolo della sintesi di tempo e di spazio. Le venature islamiche non sono del tutto lontane da simile sentire. Affinità e paralleli affiorano nella sensibilità poetica del Fiorentino. Formata dall’incommensurabile slancio dell’anima, che costituisce in Dante un ponte tra la scienza, la filosofia e la teologia, nasce, così, l’ansia dell’eterno. Le differenti concezioni della vita indicano nella ricerca di una guida sicura la via meno difficile per raggiungere l’approdo della salvezza. Dante immaginò il viaggio fin dall’adolescenza, ponendosi l’antica questione dell’oscurità e del come uscirne per rivedere la luce. Dante, a tal proposito, è il primo artista ad inventare nel senso compiuto l’immaginazione. Gli stessi riferimenti in apparenza estranei alla sua cultura si metabolizzano in lui, avviando una riflessione di più ampio respiro. La vitalità della mistica islamica, al tempo di Dante, era elevata e inconsciamente viene recepita dalla res publica cristiana, che a sua volta ne era stata antica ispiratrice. Il sale del dialogo, pur nella contrapposizione di civiltà, da sapore alla costruzione di Dante, evidenziandone il carattere sublime del messaggio. Casalino Pierluigi

 

 


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A proposito di danza orientale

Casalino Pierluigi 
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A PROPOSITO DI DANZA ORIENTALE
Pubblicato il 7 luglio 2010 da ennepilibri

 
Sulla danza orientale, nota da noi soprattutto come ”danza del ventre”, ”in poche righe” ospitò qualche anno fa due miei interventi, che ricostruivano il percorso storico di quell’arte singolare. Un momento suggestivo della rappresentazione del movimento del corpo femminile, non limitato certo al contesto geopolitico del mondo arabo-islamico. Un rincorrersi di suoni e di arcana sensualità entrato prepotentemente nell’immaginario collettivo di un mondo sempre più globale. Per chi, come chi scrive, ha frequentazione anche sentimentale con la sensibilità della donna araba e con la società musulmana, con le sue luci e con le sue ombre, ringrazia Francesca Paglieri per questo suo prezioso contributo alla conoscenza dello spirito profondo della danza orientale. Un felice e sintetico itinerario, quello di Francesca, che coniuga il suo intento narrativo a una capacità interpretativa del fenomeno, lontana da tradizionali e stucchevoli stereotipi. L’autrice coglie, nell’articolo, lo spirito profondo della femminilità araba, spesso più incline all’abilità e alle astuzie della Sherazade che non alla rappresentazione di una civetteria gratuita. In altri termini Francesca Paglieri rivela le ragioni profonde di una realtà, che superano i confini dello spettacolo. Pierluigi Casalino


Origini arabe della mistica tedesca

L’opera di Eckhart è stata a lungo rivendicata come l’espressione più autenticamente tedesca del cattolicesimo medioevale. La teologia protestante di Adolf Von Harnack non ha forse individuato in Eckhart un precursore di Martin Lutero? Il teorico nazista Alfred Rosenberg non ha fatto di Eckhart l’emblema della civiltà germanica? Lo studioso tedesco Kurt Flasch in un recente libro di agile lettura, ma altrettanto ricco di contenuti, dimostra, invece, come il pensiero del maestro del misticismo tedesco affondi le proprie radici in qualcosa di ben più ampio dell’ambiente culturale della sola Germania medioevale. Il cosmopolitismo dell’opera di Eckhart, sostiene Flasch in ”Da Averroè al Maestro Eckhart, le radici arabe della mistica tedesca”, smentisce ogni approccio nazionalistico dei suoi precedenti commentatori, spesso più interessati a strumentalizzarne la figura, che a studiarne il messaggio universale. L’autore, risale, nella sua riflessione, il percorso culturale complesso del teologo, pervenendo ai contributi fondamentali di Averroè (Ibn Rushd) e di Ibn Maimun (Maimonide) alla formazione di Eckhart. Gli intellettuali non sono, dunque, una realtà separata, una sorta di angelo che si immerge nell’umanità per effetto della grazia, senza collegamenti e contatti con altre e spesso opposte tradizioni. I commentatori arabi e ebrei di Aristotele sono parte integrante dell’itinerario della conoscenza di Eckhart, secondo lo studio di Flasch, che antiche convinzioni scientifiche in proposito. Lo spirito mistico del pensatore medioevale, pervaso di sentimenti oscuri e sublimi, ha fatto affermare a qualche esegeta maldestro che la lezione di Eckhart sia segnata da tratti fanatici. Ci troviamo di fronte, in verità, ad un progetto duttile ed originale, anzi, per certi versi, antitetico al tomismo. La descrizione delle qualità della facoltà dell’anima di entrare direttamente e spontaneamente in relazione con il divino, senza passare per gerarchie, come si coglie in questo pilastro della storia della filosofia e della teologia, ci rimanda a un Eckhart vicino a un cristianesimo più filosofico e spirituale, che univocamente trascendente. Un cristianesimo, pertanto, quello del grande tedesco, meno ossessionato dalla natura del peccato della creatura, e più fiducioso nelle capacità dell’uomo di seguire la verità e strettamente compatibile con ”le ragioni naturali dei filosofi”. C’è qui tutto il sufismo musulmano e soprattutto si manifesta la grande eredità di Averroè (Ibn Rushd) nell’indicare la duplicità dell’atteggiamento critico del saggio di fronte alle presunte certezze, pur non venendo meno l’assioma divino. In un certo senso nel pensatore tedesco si rivive a pieno lo slancio dell’illuminismo filosofico e teologico dell’intelligenza araba dei secoli d’oro, il cui patrimonio di apertura, di tolleranza e di saggezza si è andato isterilendo nel declino tenebroso della ragione di quell’angolo dell’umanità. A riprova di quanto il seme di quella dottrina dia ancora frutto nella generale coscienza intellettuale, Flasch riporta in auge i testi, quasi sconosciuti, di un altro grande spirito contemporaneo di Eckhart, Dietrich di Friburgo (1250-1310), il quale, forse in modo maggiore, recepisce gli insegnamenti della scuola filosofica araba e ebraica. Torna alla mente, in questo contesto, lo straordinario lascito di Sigieri di Brabante, così caro a San Tommaso d’Aquino, e il cui filo sottile lega anche le concezioni dantesche della visione integrale dell’averroismo. Interessante riandare al riguardo ad un vecchio testo di Ernest Bloch: ”Avicenna (Ibn Sina) e la sinistra aristotelica”. Le polemiche circa le possibili deviazioni eretiche non trovano più il fondamento che avevano in passato, anche alla luce dell’interpretazione autentica delle proposizioni di Eckhart. Nella nuova rappresentazione sinottica delle prospettive culturali si afferma l’invincibile sintesi delle idee, che sta alla base della civiltà.
Casalino Pierluigi 

mercoledì 11 novembre 2020

Avicenna (Ibn Sina^)

Ibn Sina^, che gli scolastici conobbero con il nome di Avicenna, nacque intorno al 980
a Bukhara, dove suo padre era governatore, e si spense ad Hamadan (Persia occidentale), nel 1037, al termine di una vita intensa, sebbene minata dalla salute. Considerato il secondo pilastro del pensiero islamico, dopo il berbero-andaluso Ibn Rushd, l'Averroe' dei Latini, Ibn Sina^ è stato paragonato per la profondità e l'ampiezza della speculazione, a San Tommaso d'Aquino, anche se quest'ultimo subì principalmente l'influenza di Averroe'. Di formazione araba e persiana, Avicenna fu intellettualmente precoce. All'età di 16 anni insegnava medicina, dopo studi condotti da autodidatta. E fu così celebre che i sovrani abassidi lo nominarono medico di corte. Si misurò con un certo successo anche con la poesia. Nominato wizir dell'emiro buwhalide di Hamadan, compose poi più di 400 opere filosofiche e scientifiche in lingua araba e persiana, andate in gran parte perdute. In Occidente la sua fama di medico superò quella del filosofo. La sua opera più importante, "La guarigione", tuttavia, fu di natura eminentemente filosofica. In essa Avicenna coniugo' l'aristotelismo neoplatonico con l'Islam. Un Islam più aperto all'originalità delle interpretazioni teologiche, pur dell'ortodossia, rispetto a quello di altri pensatori arabi e musulmani in genere. La fortuna di Avicenna è legata, peraltro, ad una straordinaria e moderna analisi dell'inconscio e delle ragioni dell'essere.
Casalino Pierluigi.
Pubblicato da Asino Rosso il 7.04.2009.

Continuità nelle opere di Dante.

Ogni opera di Dante è un mondo a sé, un microcosmo, che vive di luce propria nel macrocosmo dantesco. Ogni opera ha la sua legge costruttiva che si impone al suo stesso autore, e ciò anche a proposito di aggiunte, che il Sommo Poeta avrà effettuato come tutti gli autori di questo mondo. Esiste, peraltro, un continuum nello sviluppo di un artista, che lo stesso Dante ci ricorda, su cui attira la nostra attenzione proprio quando pone in stretto rapporto la Vita Nuova e il Convivio; analogamente si può dire per la Divina Commedia, che trova collegamenti con le altre opere dantesche. La grandezza di Dante poggia dunque non solo sulla ricezione nelle sue opere di molte fonti, pur nella geniale sua rielaborazione, ma anche e soprattutto sulla sua capacità di tenere unita la sua produzione, attraverso una straordinaria messa in opera di temi e di spunti che rendono originale la rappresentazione della sua sterminata fenomenologia creativa e riflessiva.
Casalino Pierluigi