martedì 29 dicembre 2020

La riscoperta di Dante.


Ora si ripassa Dante anche su Robinson di Repubblica. Dopo tante riserve e polemiche che lo consideravano una lettura inutile, il Poeta della Commedia viene riscoperto. E ciò ciononostante gli anatemi dei politicamente corretti che non cessano di biasimarlo secondo un non ben meditato giudizio critico e storico. Negli Anni Cinquanta del XX secolo quel vate del dopoguerra che volle essere Quasimodo scrisse che ormai Dante poteva essere messo in soffitta con pressoché tutta la tradizione letteraria italiana, perché del tutto inattuale e, per di più, portavoce di un'ideologia, come quella religiosa cristiana, da cui ogni buon spirito moderno, figlio dell'Illuminismo, deve tenersi alla larga. E Dante ancora è stato uno dei bersagli delle voci emerse negli Anni Sessanta, sempre del Novecento, contro la cultura e la tradizione, fino a ridurne quasi a nulla lo spazio nella scuola, e anzi, a condannarne la lettura come inopportuna e addirittura dannosa. Mai affermazioni, dichiarazioni e condanne sono state più cieche e contrarie alla realtà dei fatti e della Storia, quella a cui, con tanta protervia, falsamente e bassamente ideologica, si richiamano i moderni nemici di Dante, che talora fanno capolino anche nella cronaca confusa dei giorni nostri. E pensare che in un passato non troppo remoto uscirono gli atti di convegno tenutosi a Roma nei quali era testimoniata la presenza di tantissimo Dante nella letteratura italiana del Novecento. Non ultimi a rilanciare lo spessore del messaggio dantesco sono stati da noi Maria Corti e Luciano Gargan. Se poi si allarga l'orizzonte dell'indagine alle letterature straniere, allora la possibilità di documentazione diviene ancor più vasta e significativa, soprattutto in ambito anglosassone, con i supremi esempi di Pound e di Eliot. E pure ai giorni nostri, in occasione del settimo centenario della morte del Sommo Poeta, nonostante gli entusiasmi che suscitano in Italia le celebrazioni dantesche, fuori di qui studiosi anglosassoni come John Took partono dalla vita del Poeta per allargarsi ad una più vasta prospettiva storica e culturale che cancella con autorità intellettuale ogni dubbio o remora sulla attualità e grandezza di Dante. Non sorprenda, quindi, che un libro come quello che dedico' tempo fa a Dante il poeta svedese Olof Lagercrantz, dal titolo "Scrivere come Dio. Dall'Inferno al Paradiso", rappresenti tuttora una lettura complessiva e straordinariamente moderna della vitalità della Commedia e dell'opera dantesca. Un esempio questo, inesauribile, di quell'attenzione per la poesia di Dante che i poeti del XX secolo e di quello presente hanno ampiamente dimostrato nell'ambito mondiale. Non si può piu' dunque mettere Dante in soffitta. Nella premessa alla su lettura della Divina Commedia, molto efficacemente e generosamente Lagercrantz parla della propria passione di lettore del poema, che finisce per sentirsi come l'oggetto di tutta una serie di sollecitazioni sempre nuove e sempre più profonde e vere a opera della poesia dantesca, che, a ogni passo nel testo, rivela se stessa sempre meglio a chi sappia affidarsi a essa con piena disponibilità. E tutto questo accade perché Dante ha dato voce a un'esperienza fondamentale di ogni uomo, che è quella del dialogo, in vita, con le ombre  dei morti; la loro presenza, come dice il poeta svedese, "è una parte essenziale della nostra vita", l'ha fatto esistere davanti al lettore, ne ha mostrato la sorte eterna, ciò la realtà di colpa o di virtù, ha affidato loro rivelazioni decisive intorno al destino dell'uomo, alla sua storia, alle ragioni e alle modalità della sua esistenza terrena.
Lagercrantz, insomma, coglie molto bene la ragione di fondo della presenza di Dante, aldilà di tutti i frettolosi e superficiali rifiuti, nella cultura contemporanea: il suo libro risale al 1964, ma nulla è cambiato da allora, anzi le ragioni che il poeta svedese propone per il suo lungo studio dantesco hanno, forse, nel frattempo accresciuto la loro validità. In tempi di crisi, che sono anche tempi di mediocrità, dove ciò che è frivolo e transeunte o, addirittura, non esiste ottiene attenzione e provoca  discorsi e opere insulse ed inutili, la Commedia costituisce il luogo della più ampia e profonda indagine e rappresentazione della vita umana sulla terra, del suo destino, del significato di ciò che fa, pensa e crede, ben oltre le stesse idee religiose che Dante esprime nel poema, a cui soltanto gli stolti possono fermarsi per trarne motivo di grette condanne ( o anche esaltazioni ideologiche irrealistiche). L'autore scandinavo muove dall'osservazione che, nella Commedia, sono compresenti il pellegrino chebattraversa i tre regni dell'oltretomba cristiano e il poeta che scrive, sul filo della memoria, le vicende della sua visione e del suo viaggio, e la approfondisce con risultati particolarmente felici. Assai opportuno ciò che Lagercrantz dice sull'immedesimazione - sia nella pietà, sia nella durata e, persino, nella crudeltà- del pellegrino Dante con particolari situazioni e dannati dell'inferno. Lo scrittore svedese lo spiega come frutto di un'esperienza, tutta limitata al solo ambito della dannazione, e quindi sottoposta ancora a quelle stesse passioni che hanno condotto i dannati stessi alla pena. Ma dove Lagercrantz tocca con particolare efficacia i problemi di fondo del poema dantesco è là dove esamina il rapporto fra la Commedia e la Bibbia nel intenzioni di Dante, cioè quando rivede da una angolatura nuova, il poema come rivelazione dal punto di vista di Dio intorno alla vita e alla storia dell'uomo, e indica anche in questo, indipendentemente dalla fede del lettore, il fascino e l'autorità della poesia di Dante. In questa prospettiva l'analisi di Lagercrantz appare come una proposta complessiva di interpretazione o, meglio, come una guida generale e, assai originale ed attenta, della Divina Commedia.
Casalino Pierluigi 

giovedì 24 dicembre 2020

Ricordare Dante nel settimo centenario della sua morte.

L'anno di Dante, il 2021, settimo centenario della morte, inizia, celebrato con solennità ed entusiasmo prima fuori d'Italia che non dentro i confini del Bel Paese. Dante è il primo grande scrittore dell'Occidente a legare la sua poesia a ciò che ha vissuto, a fare poesia del suo intenso vissuto personale, dei suoi sogni, delle sue idee, dei suoi sentimenti, dei suoi fallimenti. La visione d'insieme che ne ricaviamo è quella di una vita onnicomprensiva, all'insegna delle tre idee fondamentali del Sommo Poeta: amore, essere e intelletto. Si tratta della declinazione di quella trasparenza finale che segna Dante, ricca di potenzialità. E la trasparenza di Dante si fonda sull'idea dominante del suo pensiero e della sua opera, cioe' la meta finale di ogni suo sforzo spirituale che è Dio. Amore e intelligenza d'amore sono le preoccupazioni principali di Dante, e tali resteranno per sempre. Se al Dante guittoniano, ne segue uno cavalcantiano, e poi guinizzelliano fino all'emergere del Dante dantesco della Vita Nova, il libro, vale a dire, nell'interpretazione del quale hanno spazio la fenomenologia e la metafisica dell'Autore.  La Vita Nova comprende, infatti, in un solo moto della mente e dell'immaginazione, le sue preoccupazioni principali, sfida le interpretazioni rapide e semplici, perché ciascuna di tali interpretazioni è insita nell'altra ed è a sua volta presa dall'altra. Da un lato abbiamo infatti l'aspetto affettivo filosofico del libro, l'amore che rappresenta per Dante la Vita Nova non meno che per quello della Divina Commedia un principio o presenza dell'essere e del divenire propriamente umano  Dall'altro lato c'è invece l'aspetto estetico letterario, dove l'amore al centro dell'essere di Dante coglie i suoi primi grandi frutti filosofici e poetici e la stessa Vita Nova finisce per essere una Divina Commedia in piccolo. Negli anni di mezzo di Dante sta poi il Convivio, trattato in cui il Poeta si presenta come esegeta e commentatore di sé stesso e che conserva l'impulso della Metafisica di Aristotele, avendo per argomento il secondo amore di Dante, la filosofia come amore della sapienza, soprattutto nella mente divina, anzi in quanto costitutiva della mente divina. Il secondo amore di Dante inteso in questo modo crea dell'amante qualcosa di simile al senso per il quale il suo essere nel mondo si trova dappertutto e in nessun luogo, e dà forma a un ordine di esistenza che onora i parametri abituali della coscienza, ma allo stesso tempo li trascende in nome e per conto di qualcosa che in toto è più sublime. 
Casalino Pierluigi 

domenica 20 dicembre 2020

La Révolution d'Octobre et Poutine.

Malgré la création, tardive, en décembre 2016, d'un comité d'organisation des commémorations de la Révolution d'Octobre, le pouvoir russe actuel n'est pas à l'aise. Ces révolutions incarnent tout ce que le régime de Poutine abhorre: une soulèvement contre le pouvoir légitime, une stabilisation et une prospérité ( c'est que l'on présente la Russie de Nicolas II) sacrifiées au nom de prétendues libertés; l'unité patriotique et l'effort militaire de toute une nation compris par l'action subversives d'une poignée d'intellectuels fanatiques (les bolcheviks); un État en faillite; un pays éclaté, divisé, déchiré par une guerre civile et des sécessions de minorités nationales. Voici ce qu'ont entrainé les révolutions de 1917. Avant Staline n'entreprenne la reconstruction du grand Etat russe. Après la catastrophe de 1917, la Russie a connu une seconde catastrophe, celle de 1991, selon Poutine.Avant que la Russie ne retrouve une nouvelle fois, sa grandeur, grâce à la nouvelle union entre le régime actuel et son peuple, fondée sur les valeurs de la Russie éternelle, au nombre desquelles l'orthodoxie n'est pas la moins importante.
Casalino Pierluigi 

martedì 8 dicembre 2020

La cultura dantesca.



Dante non era solo un poeta e scrittore, non possedeva cioè soltanto una cultura di tipo umanistico, ma anche scientifico e filosofico. Il rapporto tra la numerologia, tra la scelta non casuale del ricorrere di alcuni numeri, e la Divina Commedia è evidente in tutta l’opera, sia a livello strutturale che narrativo. L’attenzione di Dante per le corrispondenze numeriche mostra la sua conoscenza della filosofia antica (soprattutto di Plotino e Pitagora), ma anche della religione, della Bibbia, dei filosofi arabi ed ebraici del Medioevo e, probabilmente, anche della Cabala. Ogni numero ha infatti un significato e quelli che ricorrono più spesso nell’opera dantesca sono questi:
1 è l’origine di tutte le cose; rappresenta la perfezione e l’assoluto, la divinità. Simbolo del monoteismo è espressione della completezza, del Dio Creatore.
3 rimanda alla Trinità Cristiana, alla perfezione e alla conoscenza.
7 è il numero della perfezione umana. Ha molti significati legati alla sfera religiosa: 7 giorni della settimana, che sono i 7 giorni della creazione raccontati nella Genesi; 7 è però anche il numero dei peccati capitali. Infine l’antico sistema solare era composto da 7 pianeti.
9 è il quadrato di 3, rappresenta il cambiamento e l’invenzione.
10 simbolo della totalità della realtà rappresentata; da un punto di vista religioso richiama il numero dei comandamenti che Dio affida a Mosè sul monte Sinai. Dante sceglie in numero 3 per costruire la sua opera; esso ritorna infatti in molti aspetti. A livello strutturale l’opera è formata da 100 canti, suddivisi in 3 cantiche secondo uno schema: 1+33+33+33, dove il primo canto svolge il ruolo di introduzione. Per quanto riguarda la forma metrica il poeta sceglie la terzina di endecasillabi a rima incatenata. A livello della storia invece, Dante attraversa 3 differenti regni: Inferno, Purgatorio e Paradiso; nel suo viaggio è accompagnato da 3 diverse guide: Virgilio, che rappresenta la ragione, Beatrice, simbolo della grazia e infine San Bernardo, emblema dell’ardore mistico. L’Inferno è diviso in 9 cerchi; qui Dante incontra 3 fiere e attraversa 3 fiumi (Acheronte, Stige, Flegetonte). Anche Lucifero non ha una sola faccia, ma ben 3. Si arriva al Purgatorio, alla cui porta sia accede dopo 3 scalini di diverso colore. Questo regno è formato da 7 cornici, che rappresentano proprio i 7 peccati capitali, ma aggiungendo l’Antipurgatorio e il Paradiso Terrestre si arriva a 9 zone. Infine il Paradiso è composto da 9 cieli mobili, a cui se ne aggiunge un decimo immateriale e immobile. Le anime sono divise in tutti i regni in 3 gruppi. Nell’Inferno si trovano gli incontinenti, i violenti e i fraudolenti; nel Purgatorio le anime sono divise fra coloro che indirizzarono il loro amore su un oggetto sbagliato, quelli che furono poco solleciti al bene e quelli che amarono troppo i beni mondani; nel Paradiso i beati sono divisi fra gli spiriti che furono dediti alla ricerca della gloria terrena, gli spiriti attivi e gli spiriti contemplativi.
Anche nella figura divina non può non ricorrere il numero 3. Quando Dante, al termine di una preghiera, riesce a vedere Dio, lo descrive come una grande luce di 3 cerchi concentrici aventi 3 colori diversi (bianco, rosso e verde).
Casalino Pierluigi 


 




Il fascino ed enigma di Dante.


 

Dopo più di 700 anni il fascino della Divina Commedia e di Dante è ancora intatto. Il monumentale e incantevole divin poema non smette mai di stupire per la sua attualità e per i suoi aspetti enigmatici. Uno di questi è sicuramente la numerologia, cara a Dante, che nella Commedia vede il suo tripudio − sembra il caso di dirlo − di perfezione. D’altronde il Divin Poeta il suo amore per i misteri non lo ha mai nascosto. Basti ricordare la famosissima terzina del IX canto dell’Inferno: O voi ch’avete li ’ntelletti sani,/ mirate la dottrina che s’asconde/ sotto ’l velame de li versi strani. Le 3 cantiche della Divina Commedia sono formate da 33 canti (l’Inferno ne ha 34, ma il primo è visto dagli studiosi come introduttivo, quindi 33+1) la somma dei quali dà 99, multiplo di 3, il più noto dei numeri sacri. E sommando il primo canto si arriva a 100, numero considerato “perfetto”. 
Ogni canto a sua volta è diviso in terzine in uno schema metrico innovato proprio di Dante, in cui le rima ABA BCB CDC DED E, a parte le prime e le ultime, contengono 3 rime. Per capire quanto sia monumentale l’opera basti pensare che in totale è formata da 14.233 versi (Inferno: 4720; Purgatorio: 4755; Paradiso: 4758). Il canto più corto è formato da 115 endecasillabi, il più lungo di 160 versi. Inoltre, il 3 non è l’unico numero presente per il suo simbolismo, ma fanno capolino il 10, e anche il 7, altro numero che ha affinità sacre (i 7 giorni della creazione ecc). Nella Commedia, per esempio, le cantiche tra loro sono connesse numericamente e si trovano alcuni parallelismi. Tra i più noti i canti VI sono quelli a tema politico: nell’Inferno riferimenti a Firenze, nel Purgatorio all’Italia e nel Paradiso il riferimento più universale all’Impero. A conferma della connessione delle cantiche tra loro è ben noto che tutte si chiudono con la parola “stelle”. Perché questi giochi numerici? Probabilmente per una questione di “ordine”. Dal momento che il poema ha una struttura “architettonica” ben precisa, la presenza numerica doveva far parte di un corpo di costruzione altrettanto preciso. Anzi, era proprio questo che la rendeva precisa nella sua simmetria e nell’equilibrio sia numerico che delle forme per armonizzarsi al tutto.  In estrema sintesi − mi si lasci passare la volgarizzazione − non è altro che un valzer di numeri. Questi giochi numerici non sono solo presente nella Divina Commedia, ma sono presente un po’ in tutte le opere di Dante. Il caso forse più evidente è Vita Nova, che già dal titolo ci indica a quale numero pensare, numero “amico” di Beatrice: il nove. In questo libello poetico Dante ci racconta il primo incontro con Beatrice avvenuto all’età di nove anni, è diviso in sezioni novenarie (il prima e il dopo la morte di Beatrice composte ciclicamente da canzoni, sonetti e ymaginatione), la parola nove si ripeterà nove volte. Il secondo incontro con Beatrice ricorrerà ben nove anni dopo il primo, e allo scritto 19 quello che in cui si capisce che Beatrice non è più, Dante ci narra del legame tra il numero e la donna amata e ora compianta. “E secondo l’usanza nostra, ella si partio in quello anno della nostra inditione, cioè degli anni Domini, in cui lo perfecto numero nove volte era compito in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue delli cristiani del terzodecimo centinaio”. Il Sommo Poeta − come abbiamo già visto − era ben conscio dell’attrattiva di tali intrighi e delle difficoltà di comprensione, tant’è che nelle Rime (LXXIX, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete) ci canta: Canzone, io credo che saranno radi/ color che tua ragione intendan bene,/ tanto la parli faticosa e forte.  Saran pure radi quelli che comprendono, ma sono in tanti che ne subiscono ancora.
Casalino Pierluigi 




domenica 6 dicembre 2020

Numero e parola nel poema dantesco. La poesia matematica nella Divina Commedia.




Al “poema sacro – al quale ha posto mano e cielo e terra” ha collaborato la matematica. Nel lessico lirico di Dante i numeri compenetrano il  dettato poetico. A partire da Beatrice e dal numero nove.
La scelta del nove per Beatrice riveste un significato teologico. Nove è il quadrato di tre che è simbolo della Trinità. Grazie al nove il legame fra Beatrice e Cristo, figlio di Dio, a lui unito con lo Spirito Santo, è verificato da Dante nella propria esistenza. Dante dice il numero nove “amico” di Beatrice. Il primo incontro con lei avviene a nove anni. Il secondo nove anni dopo. Il nove coincide col giorno della  morte di lei secondo i calendari occidentale e arabo. Una possibile  ragione di tali coincidenze è che “questo numero fue amico di lei per dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s’aveano insieme.” Ma – Dante prosegue  –  “più sottilmente pensando [..] questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così”: “Lo numero del tre è la radice del nove, però che sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per sè medesimo del nove, e lo fattore per sè medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade.”
Vita nova, XXIX, 3. L’amore per Beatrice è amore vissuto grazie alla creazione divina del numero. Creazione che mediante la matematica suggerisce all’essere umano di sublimare l’amore terreno nell’indiarsi. Tramite Beatrice fra matematica e poesia c’è un continuo innamoramento. Entrambe sono in simbiosi con l’assoluto. Esiste un rapporto di identità fra Dio e il numero. Dio è il numero. L’Uno, che crea con la parola: “In principio Dio creò il cielo e la terra.  La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: ‘Sia la luce!’. E la luce fu.”(Genesi, 1-3).
Dio, l’Uno,  è anche il Verbo:
“Verbum caro factum est” (Giovanni, I, 14). Fra lettere alfabetiche e numeri c’è un’arcana corrispondenza. Nella tradizione numerologica di ascendenza biblica dalla gematria (alfabeto ebraico) e dalla isopsefia (alfabeto greco) si passa all’aritmomanzia (alfabeto latino).
Un noto esempio di aritmomanzia in Dante: verrà un tempo “nel quale un cinquecento diece e cinque, –   messo di Dio, anciderà la fuia – con  quel gigante che con lei delinque” (Purgatorio, XXXIII, 42-45). L’aquila, simbolo del potere imperiale,  ha lasciato le penne sul carro della Chiesa. Questa è divenuta un mostro. Vicino è il tempo in cui un 515, alla latina un DXV, traslitterato in DVX, ucciderà la meretrice e il gigante suo complice nel delitto.La meretrice è la Chiesa corrotta. Il gigante suo complice può essere il re di Francia. Il dux sarebbe l’imperatore Arrigo VII. Con l’identità del gigante e del dux si sono cimentate generazioni di dantisti. Ma l’enigmatica profezia è restata finora indecifrata.Dante avrà tenuto presente l’Apocalisse (XIII, 18), “dove col numero 666 è designato Nerone, per la ragione che si ha 666, se si scrive in lettere ebraiche Neron Cesar e si sommano i numeri rappresentati da queste lettere”.Con ciò siamo ancora nel campo della numerologia. C’è chi esaspera la numerologia in crittografia.La crittografia di  Thomas E. Hart parte dalla numerologia. Numerologicamente la Commedia è meditazione trinitaria. Il Tre riconduce all’Uno. I canti sono in terzine. La terzina finale di ciascun canto è seguita da un ultimo verso. Il numero di canti di ciascuna cantica è trentatré più uno per l’Inferno, trentatré per il Purgatorio, trentatré per il Paradiso. Novantanove più uno. Dante preventivò matematicamente l’estensione del poema. Lo ribadisce con una delle sue apostrofi al lettore:
“S’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere i’ pur cantere’ in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio,
ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren dell’arte”
Purgatorio, XXXIII, 136-141
Fin qui la strutturazione matematica nei suoi elementi numerologici è di comune dominio. Hart comincia col riconoscere che Dante nel comporre si atteneva a ben definiti principii. Omologia, proporzionalità, funzionamento di omologia e proporzionalità in diversi contesti, precisione, consistenza. Su questo siamo d’accordo. In  questa ricerca però Hart eccede. Ipotizza un imperativo estetico per noi aleatorio. Ritiene che Dante con l’intera struttura del poema intendesse approssimarsi al valore di π. Per dimostrare la sua tesi, Hart prende in  esame un’unità tematica. Gli ultimi ventidue versi del Paradiso.
Sette terzine per tre più uno (verso finale al culmine dell’intera opera). A suo parere, quest’unità tematica sarebbe stata composta ancor prima del primo verso dell’Inferno. Successivamente Dante l’avrebbe replicata nell’opera intera. Strutturata crittograficamente. Struttura quantitativa definita da Hart “sintassi disposizionale dell’architettura del poema”. Struttura a mosaico che sarebbe stata suggerita al sommo poeta dai mosaici di Ravenna. Tuttavia la suggestione dei mosaici ravennati resta una mera congettura. Hart sa bene che la sua ipotesi, benché esposta insieme con una serie di tavole numeriche elaborate nell’arco di diversi anni, lascia perplessi molti dantisti:“Many Dantisti, accustomed to a more ‘trivial’, less ‘quadrivial’ post-Romantic aestetichs, will probably not find them immediately congenial, and may therefore have difficulty understanding why Dante would believe they contribute essentially to the beauty of his poem?”
Dopo di che Hart sfida a dimostrare il contrario.Sennonché non può sfuggirci l’arbitrarietà del principio. Tuttavia bisogna guardarsi dal “rischio, proprio della logica separata di ogni ricerca strutturalmente formalistica, di trovare nel suo stesso espletarsi la ragion d’essere e di privilegiare la superfetazione dei dati”.
Non v’è dubbio che Dante nel comporre il poema ricorse al quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia) oltre che al trivio (grammatica, dialettica, retorica). Però il dinamismo compositivo non si concilia con  uno schema geometrico predefinito fino all’esasperazione. Si segnala che il dibattito su Hart dopo diversi decenni è ancora in corso. Si sono interessati della questione matematici come Franco Conti (1943-2003) e Edoardo Vesentini (1928-2020), già Presidente dell’Accademia dei Lincei. Vesentini ritiene plausibile che Dante conoscesse la Costante di Archimede.  Per Conti l’ipotesi di Hart “è tutta da dimostrare, ma non è così campata in aria”.Il dantista Ignazio Baldelli, professore all’Università “La Sapienza” di Roma, non esclude, ma nemmeno avalla,  che Dante abbia tenuto presente Archimede. Non  si comprende allora perché Archimede non sia citato nella Commedia. Avrebbe potuto esserlo fra tanti altri dotti  del Limbo: "Euclide geomètra e Tolomeo,Ipocràte, Avicenna e Galieno, Averoìs, che il gran comento feo".  (Inferno, IV, 142-144). Le ricerche crittografiche di Manfred Hardt sottolineano il valore del numero nel Medioevo. Valore simbolico, ontologico, estetico, anagogico. Il numero è verità incorruttibile.  Il numero è sacro. Mediante i numeri, segni di Dio nel creato,  si stabilisce la relazione di Dio con l’artista, che quei segni riconosce ed interpreta. Anche secondo Hardt Dante elaborò in anticipo  la struttura della Commedia come un’architettura di corrispondenze numeriche. Potremmo definirla una cattedrale matematica. Vi sarebbe un “secondo sistema segnico” criptato. Un sistema numerico. Il calcolo avrebbe preceduto la scrittura. Hardt, al pari di Hart,  a supporto della sua tesi fornisce una serie di tavole numeriche elaborate nel corso di lunghi  anni. Hardt, al pari di Hart, persuade solo fino a un certo punto. Ipotizza che Dante abbia proiettato talune corrispondenze numeriche oltre la fine dell’opera. Ciò dimostra che vuol costringere a forza il testo entro il suo schema pregiudiziale.
L’assurdità dell’ipotesi è dimostrata da una incredibile forzatura.
Dante indica per tre volte un futuro liberatore con diversi appellativi:  il Veltro (Inferno, I, 101), un DVX = 515  (Purgatorio, XXXIII,  43), un novenne  (Paradiso, XVII, 80). Dante, secondo Hardt, nel Veltro, nel DVX, nel novenne identificherebbe se stesso. Inoltre Cacciaguida col 515 si riferisce a una personalità che quell’anno compie nove anni. Dante colloca la sua avventura nell’aldilà “nel mezzo del cammin di nostra vita”. A   trentacinque anni. Il matematico Giuseppe Palamà cita in proposito una terzina:
Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
Inferno, XXI, 112-114
“ove alla base vi è […] il seguente calcoletto: 33  anni e 3 mesi + 9  mesi + 1266 anni = 1300 anni,
in cui 33 anni e 3 mesi è l’età che, come si credette nel Medio Evo, Gesù ebbe nel momento della sua morte, 9 sono i mesi intercorsi fra la sua concezione e la nascita ed il risultato 1300 è l’anno nel quale […] Dante iniziò il suo viaggio […]”
Sul segreto nascosto
Nel poema è presente la numerologia. Ma immaginare un segreto crittografico nascosto nella Commedia contrasta con lo scopo che Dante si era proposto:
“removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis” 
(Epistola a Cangrande della Scala)
Scopo che un significato destinato a restare recondito avrebbe reso vano. Tant’è vero che in alcune apostrofi del poema, Dante incita i  suoi lettori provvisti di adatta dottrina ad uno sforzo di comprensione:
"O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani". (Inferno, IX,  61-63)

"Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,
che ‘l velo ora è ben tanto sottile,
certo che ‘l trapassar dentro è leggero. (Purgatorio, VIII, 19-21)"

Che un autore esorti i lettori a non continuare la lettura della sua opera è fatto singolare.
Ma è proprio quello che a un certo punto Dante fa.  I lettori più sprovveduti dovranno restare alle soglie del Paradiso.  Solo i pochi nutriti di adeguato sapere  potranno addentrarvisi col poeta:
"Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale. (Paradiso, II, 10-15)". Ciò sembra contraddire il proposito di condurre tutti i viventi dalla “miseria” alla “felicità”.
Ma contraddizione non v’è. Chi non ha un sapere adeguato ha comunque  percorso col poeta nella seconda cantica il regno della purificazione. Per questo diverrà più desideroso di accedere dal Purgatorio al Paradiso. La necessaria lezione etico-religiosa per meritare la grazia divina gli è stata impartita. In più gli è stato fornito uno stimolo ad accrescere il suo sapere. Accresciutolo, potrà addentrarsi nell’ultima cantica.Volendo ammettere per assurdo che un segreto crittografico si celi nel poema, esso resterebbe ininfluente. Né a Dante poteva sfuggire la superfluità di un segreto del genere. La presenza della matematica nella Commedia è una presenza trasparente. L’Uno (Dio), il Tre (Trinità) e il Tre (virtù teologali), il Quattro (virtù cardinali), il Sette (peccati capitali), il Nove (quadrato del Tre), il Dodici  (apostoli), il Ventiquattro (spiriti sapienti) sono per i lettori l’aritmetica spirituale che li orienta esaustivamente  verso la salvezza. Tecnica compositiva di Dante
Alla luce del rapporto fra matematica e poesia, numero e parola, una lettura del poema quale fu quella di Benedetto Croce si rivela aberrante.   Il filosofo scindeva arbitrariamente struttura e poesia. Riduceva la tecnica poetica di Dante a un’intermittente intuizione-espressione. Il dinamismo dell’intera opera nel suo farsi  veniva ignorato. Così l’ininterrotta tensione che  tiene avvinto il lettore, quella che Mario Luzi definisce energia incoativa, restava inavvertita. Non solo. Nella riduttiva visione crociana Dante veniva sradicato di fatto dal suo Medioevo.
Il sociologo Lucien Goldmann col suo strutturalismo genetico contribuisce a suggerire una corretta lettura. Dobbiamo accostarci a Dante uomo del suo tempo, esponente della civiltà medioevale, di quel dato tipo di società. In questa prospettiva l’apporto dei matematici alla critica letteraria è fondamentale. L’andamento compositivo di Dante si basa sul calcolo matematico. Senza illuminare questo calcolo, non si può comprendere nemmeno la musicalità della Commedia:
“Per che sapere si conviene che ‘rima’ si può doppiamente considerare, cioè largamente e strettamente: stretta[mente], s’intende pur per quella concordanza che ne l’ultima e penultima sillaba far si suole; quando largamente, s’intende per tutto quel parlare che ‘n numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade…” (Convivio, IV, II, 12). L’ascesa alla trascendenza è un’ascesa numerologica.
Alla fine l’itinerarium mentis in Deum, concepito da  Bonaventura di Bagnoregio sulla scorta di Agostino di Ippona,  si risolve per Dante nell’Uno, principio primo, generatore della scienza dei numeri.
È indubbio che nella composizione del poema il ricorso alle arti del quadrivio sia stato fondamentale. Tuttavia la qualità semantica dei versi non è compatibile con una loro collocazione forzata all’interno di una struttura elaborata del tutto a priori. Bisogna immaginare che la struttura sia stata elaborata in parte a priori  e in parte in itinere. E che i calcoli siano stati effettuati nella maniera più semplice possibile. Addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione per l’aritmetica.  Linee retta e curva, triangolo, quadrato, rettangolo, cerchio per la geometria.  Questi in ipotesi gli  strumenti adoperati.  Con i numeri di base della tradizione numerologica Dante poteva procedere nel comporre calcolando liberamente di volta in volta. Così nel suo imperativo estetico potevano conciliarsi dinamicamente quantità (struttura) e qualità (poesia). Non separate e scisse, ma sinergicamente operanti. Dante definisce la poesia “fictio rethorica musicaque poita” (De vulgari eloquentia, II IV 3).
Matematicamente si supera la confusione babelica: la  lingua volgare “più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime” (Convivio, I XIII 6). Alla  bellezza poetica concorre “lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici” (Convivio, II XI 9). Sintassi verbale e sintassi matematica si compenetrano.
Non è  male riconoscere “la complessa struttura razionale e matematica dell’Arte della fuga di Bach nel poema”. Horia-Roman Patapievici è perentorio nell’affermare che “la lettura del poema dantesco” va effettuata “attraverso il preciso sguardo e la specifica valutazione quantitativa dei matematici e mediante gli strumenti di analisi spaziale dello studioso di geometria”.  Non a caso sono dei matematici come Mark Peterson e Robert Osserman a sostenere che l’universo di Dante “non è euclideo”, ma “è precisamente un’ipersfera”. Circa la matematica in poesia
 In diversi passi del poema Dante ricorre a similitudini tratte dalle discipline del quadrivio. Tradizionalmente i dantisti di area umanistica hanno rivolto l’attenzione alle sole discipline del trivio. Ma la genesi della Commedia non può essere compresa se non si tiene conto del quadrivio.
Uno dei passi da considerare è il seguente:
“Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara” (Purgatorio, VI, 1-3). “Zara” deriva forse dall’arabo zahr, “dado”. I due termini risuonano in “azzardo”.  Nel Medioevo questo gioco  era molto popolare. Si gettavano a turno tre dadi. Restando celati i numeri sottostanti, bisognava indovinare e dire la loro somma. Questa era nell’intervallo fra 3 e 18. Dante ne  trae spunto per una movimentata scena. Gli spiriti negligenti gli si affollano intorno. A lui, che ritornerà sulla Terra, chiedono preghiere di suffragio dei vivi, per ridurre il tempo della loro permanenza nell’Antipurgatorio. Il tumultuoso affollarsi, simile a quello che incalzava il vincitore nel suo allontanarsi,  risalta nel contrasto con la figura isolata di “colui che perde” della terzina iniziale.Lo sconfitto si trova alle prese col calcolo delle probabilità.
L’intesa è sempre più intensa fra matematica e poesia
È nel Paradiso che l’intesa fra matematica e poesia diventa sempre più intensa. Non c’è da stupirsene. Ci si va avvicinando all’Uno.L’ascesa di Beatrice e Dante al cielo avviene nella stagione primaverile, la più propizia, quando il sole sorge da quel punto “che quattro cerchi giugne con tre croci”. Zodiaco, equatore, coluro equinoziale, orizzonte sono i quattro cerchi (virtù cardinali); i primi tre, intersecandosi con l’orizzonte, formano le tre croci (virtù teologali)  (Paradiso, 37-42). Il Paradiso è il regno del cerchio, perché “lo cerchio è perfettissima figura” (Convivio, II, XIII, 26-27).Nel Cielo del Sole Dante con Beatrice vede più splendori “far di noi centro e di sé far corona”, ove corona equivale a circonferenza  (Paradiso, X, 64-66). Sono dodici spiriti sapienti in forma di “ardenti soli” (verso 76), che girano per tre volte intorno a Dante e Beatrice (verso 77). Poi San Tommaso d’Aquino presenta se stesso e gli altri spiriti. Fra questi l’ottavo è Boezio, autore, oltre che del De consolatione philosophiae, anche del De institutione aritmetica, “anima santa” che rende manifesto il “mondo fallace” (versi 121-129). Come un orologio dal tintinnio così dolce che innamora, la corona di spiriti sapienti, detta ora “gloriosa rota”, si muove circolarmente, cantando in coro con una dolcezza che dà eterna gioia  (Paradiso, X, 139-148). Gli spiriti sapienti riprendono a girare, fermandosi quando ciascuno è tornato nel “punto del cerchio in che avanti s’era”  (Paradiso, XI, 13-15).
San Tommaso ha concluso il suo discorso. Il moto circolare riprende. Prima ancora che sia concluso, la circonferenza viene racchiusa in un’altra che si accorda al suo movimento e al suo canto celestiale. Canto che supera tanto in armonia la musica terrena quanto il raggio incidente è più   splendente del raggio riflesso. Le due circonferenze di spiriti sapienti sono simili a “due archi paralleli e concolori” dell’arcobaleno, che fa presagire il mai più ripetersi del diluvio universale  (Paradiso, XII, 1-21).
Una delle “luci nove” della nuova circonferenza di altri dodici spiriti sapienti, San Bonaventura da Bagnoregio, parla a Dante, che a quelle parole  si volge così repentinamente come l’ago calamitato della bussola verso il nord magnetico (Paradiso, XII, 28-30).
Dopo che San Bonaventura ha concluso il suo discorso, le due circonferenze si volgono in giro l’una in senso opposto all’altra. Dante esorta il lettore a immaginare  che così girino ventiquattro stelle, sette dell’Orsa maggiore,  due dell’Orsa minore e altre quindici, disposte in modo da formare due costellazioni concentriche di dodici e dodici ciascuna.  Il canto degli spiriti sapienti è un inno alla Trinità (Paradiso,  XIII, 1-27).
San Tommaso risolve il secondo di due dubbi di Dante.
Gli spiega che Salomone fu il più sapiente fra gli uomini, ma rispetto al sapere di Adamo e di Cristo non fu il più sapiente. Non chiese di sapere di teologia, di dialettica, di filosofia naturale, di geometria. Chiese soltanto quel sapere necessario ai re per ben governare.
Nel passo seguente notiamo in particolare i versi 101-102, dove si  dice della sapienza del geometra, capace di “chiarire, se in un semicerchio, preso il diametro come lato, si possa iscrivere un triangolo che non abbia un angolo retto” (Scartazzini-Vandelli):
"Non ho parlato sì, che tu non posse
ben veder ch’el fu re, che chiese senno
acciò che re sufficïente fosse;
non per sapere il numero in che enno
li motor di qua sù, o se necesse
con contingente mai necesse fenno;
non si est dare primum motum esse,
o se del mezzo cerchio far si puote
trïangol sì ch’un retto non avesse". (Paradiso, XIII, 94-102). Gli spiriti delle due corone cantano per tre volte la Trinità con una melodia che ricompenserebbe giustamente ogni merito:
Quell’ uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive,
tre volte era cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,
ch’ad ogne merto saria giusto muno.  (Paradiso, XIV, 28-33). Simile a stelle apparse di prima sera, non chiaramente distinte, sopraggiunge una terza corona di spiriti che circoscrive le altre due (Paradiso, XIV, 70-75). Siamo ora nel Cielo di Marte. Simile alla Via Lattea, sulla cui natura sono incerti i più dotti, appare a Dante una croce greca (nella quale lampeggia Cristo), formata dalle linee lungo le quali si congiungono i quadranti (quattro quarti), cioè due diametri che si intersecano nel centro ad angolo retto, sicché i quattro bracci della croce sono i raggi del cerchio: "come distinta da minori e maggi lumi biancheggia tra ‘ poli del mondo Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi; sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo". (Paradiso, XIV, 97-102). Il trisavolo Cacciaguida legge nel pensiero di Dante: questi crede che il suo pensiero sia letto dall’antenato in Dio,  “quel ch’è primo”, così come “dall’un” derivano “il cinque e ‘l sei” (Paradiso, XV, 55-57).
Desideroso di conoscere la sua futura sorte, Dante chiede di svelargliela a Cacciaguida, che la vede in Dio con evidenza assoluta,  “come veggion le terren menti – non  capere in trïangol due ottusi” (Paradiso, XVII, 13-27). Nel Cielo di Giove
Siamo nel Cielo di Giove. Le anime beate formano delle lettere  cantando e poi si fermano, affinché Dante se le imprima nella mente: Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
‘DILIGITE IUSTITIAM‘, primai
fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto;
‘QUI IUDICATIS TERRAM‘, fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto.
(Paradiso, XVIII, 88-96). Nel Cielo Nono o Primo Mobile
Siamo nel Cielo Nono o Primo Mobile. Beatrice spiega a Dante che il Primo Mobile cinge tutti gli altri ed è cinto a sua volta dall’Empireo, ove è Dio che è il solo a comprenderlo. Il Primo Mobile imprime il suo moto a tutti gli altri cieli con misura così precisa come quella del prodotto 2 x 5 = 10: Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che ‘l cinge  solamente intende.
Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto; (Paradiso, XXVII).Dante riesce a far avventurare il lettore verso l’infinito. Vede rispecchiarsi nei “belli occhi” di Beatrice, definita “quella che ‘mparadisa la mia mente”, l’immagine di un punto, e si volge per sincerarsi della realtà dell’immagine riflessa  nel cielo che continua il suo giro. Il punto “per sua indivisibilitate è immensurabile” (Convivio, II, XIII, 27). Quel punto, luminoso al punto di abbagliare lo sguardo, costringendo a chiudere gli occhi, è Dio. La stella che sulla terra appare più piccola apparirebbe grande come la luna, se posta accanto a quel punto:

E com’ io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s’adocchi,
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca. (Paradiso, XVIII, 13-21)

I cerchi di fuoco delle nove gerarchie angeliche (Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini) girano intorno a quel punto tanto più velocemente e tanto più splendenti quanto più sono ad esso vicini.
"Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che ‘l dipigne
quando ‘l vapor che ‘l porta più è spesso,
distante intorno al punto un cerchio d’igne
si girava sì ratto, ch’avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne;
e questo era d’un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che ‘l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.
Così l’ottavo e ‘l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch’era
in numero distante  più da l’uno;
e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s’invera. (Paradiso, XXVIII, 22-39)
Beatrice spiega a Dante che il moto dei cieli angelici  è più o meno veloce in ragione della virtù e non della materiale estensione di ciascuno. Dopo di che i cerchi sfavillano come ferro arroventato e incandescente. Le scintille sono intelligenze angeliche che continuano a ruotare nei rispettivi  cerchi ardenti. Il loro numero è impossibile da calcolare. Si allontana  all’infinito. Il neologismo dantesco “inmillarsi”
 Dante si richiama a una tradizione religiosa dall’Apocalisse a Tommaso d’Aquino, che diceva innumerevoli gli angeli. Sollecita perciò il lettore a concentrarsi in un calcolo mentale. Pensare al “doppiar de li scacchi”. Avvertire l’enormità di quel numero. Inoltrarsi e smarrirsi nello sterminato territorio metafisico della progressione geometrica: "E poi che le parole sue restaro, non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.
L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ‘l numero loro
più che ‘l doppiar de li scacchi s’inmilla. (Paradiso, XXVIII, 88-93)
Dante ha coniato il verbo “s’inmilla” nel senso di “si inoltra nelle mani.

Il “doppiar de li scacchi” vuol significare “la somma dei primi 64 termini della progressione geometrica dei doppi a cominciare dall’unità”.

Nei commenti è ricordata la leggenda di Sissa Nassir, inventore del gioco degli scacchi.
Per la sua invenzione si attendeva dal re di Persia  una ricompensa pari appunto al “doppiar de li scacchi”.

Impossibilitato a soddisfare l’esorbitante richiesta, il re tagliò corto. Lo fece decapitare.

Beatrice illustra a Dante la creazione degli angeli e la sedizione degli angeli ribelli, che avvenne in meno tempo di quel che si impieghi per numerare dall’uno al venti:

Né giugneriesi, numerando, al venti
sì tosto, come de li angeli parte
turbò il suggetto d’i vostri alimenti.(Paradiso, XXIX, 49-51)

Il numero degli angeli è così grande che l’essere umano non sa concepirlo.
Nel numerarli, il loro numero continua a restare incalcolabile, come rivela il profeta Daniele:

Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ‘n sue migliaia
determinato numero si cela. (Paradiso, XXIX, 130-135)

Il verso “determinato numero si cela” va inteso nel senso che un numero determinato è destinato a restare per sempre nascosto.

Il mistero della Trinità nell’Empireo
Nell’Empireo la luce divina forma un cerchio la cui circonferenza è infinitamente maggiore di quella del sole:

E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.(Paradiso, XXX, 103-105)

Dante giunge a contemplare il mistero della Trinità:

“Nella profonda e chiara sussistenza
dell’alto lume parvemi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un dall’altro  come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quindi e quindi igualmente si spiri”.  (Paradiso, XXXIII, 115-120)

La similitudine del geometra
È la similitudine più citata. Dante volge lo sguardo alla “luce eterna”:

“Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
dagli occhi miei alquanto circumspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta della nostra effige;
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ‘l geometra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder volea come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
Ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne”. (Paradiso, XXXIII, 127-141). Il verbo  “misurar” (verso 134) ci fa venire in mente il De mensura circuli di Archimede. Dante,  benché non vi sia prova che conoscesse proprio quell’opera. argomenta che il cerchio è impossibile a “misurare” perché impossibile a “quadrare”: “La Geometria si muove intra due repugnanti a essa, sì come ‘l punto e lo cerchio – e dico ‘cerchio’ largamente ogni ritondo, o corpo o superficie -; chè, sì come dice Euclide, lo punto è principio di quella, e, secondo che dice, lo cerchio è perfettissima figura in quella, che conviene però avere ragione di fine. Sì che tra ‘l punto e lo cerchio sì come tra principio e fine si muove la Geometria, e questi due a la sua certezza repugnano; che lo punto per la sua indivisibilità è immensurabile, e lo cerchio per lo suo arco è impossibile a quadrare perfettamente, e però è impossibile a misurare a punto.” (Convivio, II, XIII, 26-27). E altrove Dante usa il solo termine “quadratura”: “Geometria circuli quadraturam ignorat: non tamen de ipsa litigat” (Monarchia, III, III, 2). Bruno D’Amore osserva in proposito:
 “La cosa curiosa è che a nessun docente di Lettere della scuola superiore, e a nessuno studente in prossimità di maturità, venga in mente che, mentre nelle ore di Lettere si commentano questi versi in tal modo, nelle ore di Matematica il cerchio, dalla quinta elementare in  poi, si sa quadrare, e come!”La cosa curiosa è che Bruno D’Amore dà per risolto con ogni precisione il problema.
Torniamo al geometra dantesco, che non ritrova il principio della misura del cerchio. Trovarlo con riga e compasso è impossibile.  Il prefisso ri- di “ritrova” indica il ritornare più e più volte alla ricerca di quel principio. Il verbo “indige” suggerisce lo scoramento per esserne privo. Raffigura la frustrazione per tale mancanza. Sentiamo che nessun poeta avrebbe potuto creare un’immagine più appropriata. Vi si nota una straordinaria capacità di immedesimarsi nell’estrema tensione intellettiva del geometra. E di suscitare nel lettore il senso di quel supremo sforzo razionale. Con “tal era io” Dante si dice simile al geometra per una analoga impossibilità.  È di fronte al mistero trinitario. Non riesce a vedere in qual modo l’immagine di Cristo si unisca col cerchio e vi trovi il suo luogo, cioè “come possono formare un tutto l’umana natura, finita, e la divina, infinita, in Cristo” (Scartazzini-Vandelli). Viene in mente l’uomo vitruviano.
In genere si trascura il nesso “Qual è ‘l geometra… –  tal era io  … ”. Ci si sofferma più sulla difficoltà del geometra che su quella di Dante.  A ben riflettere, può venire in mente la seguente interpretazione. Dante non riesce a capire come la figura umana di Cristo si adatti alla circonferenza. Analogamente il geometra si chiede come i lati di un quadrato inscritto nel cerchio possano espandersi fino a coincidere con la curvatura della circonferenza. Il geometra non riuscirà nel suo intento. Dante ci riesce grazie all’illuminazione divina. Quindi Dante ha voluto contrapporre il “pensando” alla “mente … percossa da un fulgore”. È l’intuizione che gli consente ciò che il ragionamento non può.  Differenza ben nota ai matematici, perché da loro vissuta. Dante, oltre che poeta teologo, è poeta della scienza. Vittorio Russo pone una domanda: “Perché la modernità non è stata in grado di esprimere un poeta della scienza come Dante?” Piero Boitani risponde che la modernità non ha elaborato le categorie mentali adatte. Categorie che nel Medioevo erano disponibili. Ereditate dal patrimonio scientifico dell’antichità classica. Patrimonio ripensato alla luce della teologia. Successivamente il rapporto fra teologia e scienza è andato divaricandosi. Tant’è vero che oggi c’è chi cerca di ricomporlo. Un percorso linguistico numerologico potrebbe essere ripreso grazie alla matematica. Scienza dei numeri, scienza regina. Scienza che regge il cosmo. Forse un nuovo poeta della scienza lo sarà un matematico. Senza la matematica, dunque, Dante non avrebbe potuto scrivere la Commedia.
Casalino Pierluigi 

sabato 28 novembre 2020

Il diritto ereditario in Marocco alla difficile prova di una moderna riforma.



Il Marocco vuole cambiare la normativa sull’eredità, introducendo una nuova legge successoria, basata sulla parità uomo-donna (proposta di legge16 agosto 2018).Da tempo, in Marocco, donne comuni ed intellettuali stanno manifestando per cambiare la legge sull’eredità per parificare quella concessa alle donne con quella garantita agli uomini dalla Mudawana o Codice di Statuto Personale Marocchino, il diritto di famiglia. Esso è stato riformato nell’ottobre del 2003 dall’attuale, illuminato re, Mohammed VI, e approvato nel 2004 del Parlamento del Paese nordafricano, giustamente salutato anche dall’Occidente come uno dei diritti di famiglia più avanzati del mondo arabo, che perciò ha scatenato le ire degli integralisti islamici. Tuttavia ci sono alcuni punti che vanno modificati per portarli al passo con la modernità, tra i quali appunto quello sull’eredità, il cosiddetto ta’sib, che favorisce gli uomini rispetto alle donne. Esse infatti ereditano soltanto la metà dei beni e soltanto nel migliore dei casi: accade che non ereditino nulla, soprattutto nelle aree rurali del Paese. Nel marzo 2018 cento intellettuali marocchini (come professori universitari, avvocati, teologi, medici, giornalisti e scrittori) hanno firmato una petizione per cambiare tale situazione. Quindici dei sottoscrittori hanno redatto L’héritage des femmes (“L’eredità della donna”), una pubblicazione accademica che accompagna la petizione, spiegando la loro posizione in favore della donna e che il ta’sib non dovrebbe più essere applicato in una società marocchina che sta cambiando. Stanno cambiando le famiglie e il fatto che le donne ereditino la metà rispetto agli uomini come previsto dalla shar’ia, la legge islamica, non dovrebbe essere più contemplato.
Nel testo si legge che oggi le donne marocchine svolgono un ruolo cruciale nella famiglia, come nella piena responsabilità dell’educazione dei figli e nel sostegno economico e di altro genere ai loro mariti. Attualmente oltre un terzo delle famiglie, in Marocco, sono guidate da donne: loro sono i capi famiglia o da loro dipendono gran parte delle entrate familiari. In una famiglia marocchina su cinque le donne non sono aiutate in alcun modo da “lontani parenti maschi”, anche loro finora avvantaggiati nel diritto ereditario. Moha Ennahi, professore di Linguistica, Genere e Studi Culturali all’Università Sidi Mohammed Ben Abdellah di Taza e uno dei firmatari della petizione, spiega sul giornale accademico online The Conversation che il ta’sib decreta: “Le donne orfane che non hanno un fratello devono condividere l’eredità con il parente maschio più vicino al defunto … anche se sconosciuto e [non ha mai fatto parte della famiglia]”. Da qui la richiesta dell’abrogazione del ta’sib “come è stato fatto di recente da alcune altre società musulmane”. Negli anni scorsi, per esempio, lo stesso passo è stato compiuto dalla Tunisia, da sempre all’avanguardia per i diritti della donna nel mondo arabo. La Costituzione marocchina è stata modificata nel 2011 per garantire una maggiore parità di diritti alle donne, ma situazione sull’eredità è rimasta invariata a causa dell’insistenza degli integralisti islamici, che come sempre strumentalizzano il Corano secondo la loro ideologia misogina. Nouzha Skalli, ex ministra marocchina dei diritti delle donne e paladina di questi nota anche all’estero, ha reso noto in un’intervista rilasciata nel 2017 che “Non appena abbiamo pronunciato la parola ‘eredità’, siamo stati accusati di blasfemia” dai religiosi. Lo stesso Partito della Giustizia e dello Sviluppo, legato ai Fratelli Musulmani e guidato dall’ex primo ministro Abdelillah Benkirane, ha definito una “manovra irresponsabile” e una “flagrante violazione” della Costituzione marocchina. Moha Ennahi cita il predicatore Mohamed Abdelouahab Rafiki come “una delle poche voci liberali religiose in materia”. Quest’ultimo ha affermato che la questione dovrebbe essere aperta all’ ijtihad, l’interpretazione dei testi religiosi islamici utilizzata e sempre invocata dagli intellettuali musulmani illuminati. In particolare, per quanto riguarda il tema dell’eredità, Rafiki ha dichiarato che esso deve essere affrontato coerentemente con l’evoluzione della società marocchina. Si tratta di un'affermazione, in realtà, che recupera un'intuizione egalitaria dell'antico filosofo arabo andaluso Ibn Rushd (l'Averroe' dei Latini), che visse ed operò in Marocco, lasciandovi un patrimonio di cultura e di apertura intellettuale ancora oggi insuperata nell'attuale società marocchina(rinvio in proposito ad un mio intervento sull'argomento a suo tempo pubblicato da Asino Rosso).Essa rimane tuttavia prevalentemente conservatrice. Da un’indagine nazionale condotta dalla commissione di pianificazione del Paese nel 2016 è emerge che l’87% dei cittadini marocchini, uomini e donne, sono contrari all’uguaglianza di genere in eredità per motivi religiosi, ma il problema dev’essere affrontato in maniera oggettiva ed in base ai diritti umani. Le donne rimangono una delle categorie sociali più svantaggiate in Marocco. Alcune, lasciate sole quando muore il padre o il marito, sono costrette a prostituirsi e si trovano in balia della violenza maschile. Come può il Paese progredire davvero in una simile situazione? Un Paese che, peraltro, il 70% degli abitanti dichiara di voler lasciare.
Casalino Pierluigi 

lunedì 23 novembre 2020

Come Dante apprese dall'Islam le mappe dell'aldilà.

Leggi sul web tutti i miei articoli, libri ed ebook su Dante e l'Islam.
Casalino Pierluigi, scrittore e studioso ligure di Imperia, nato a Laigueglia il 29 giugno 1949.

domenica 22 novembre 2020

Il tributo arabo all'universalismo politico di Dante



Platone scrive nella Repubblica che "uno stato nasce perché ciascuno di noi non basta a se stesso, ma ha molti bisogni....così per in certo bisogno ci si vale dell'aiuto di uno, per un altro quello di un altro: il gran numero di questi bisogni fa riunire in un'unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di stato." E' poi, naturalmente, principio aristotelico che l'uomo sia per natura "animale politico". In proposito il filosofo arabo al-Fa^ra^bi ripete che "non è possibile (all'uomo) pervenire alla (perfezione), isolandosi (infira^d) e trascurando la cooperazione (mu'a^winah) con i suoi numerosissimi simili" e aggiunge, traducendo Aristotele, che "l'animale umano si chiama anche animale sociale (yusamma^ al-hayawa^n al-insa^ni^ wa al-hayawa^n al madani^). E' qui stimolante considerare la posizione dantesca, relativa al rapporto società-felicita', letta in un'ottica aristotelica-araba. Dante mostra di avere molto a cuore il benessere sociale e, aristotelicamente, lo finalizza alla felicità. E' una posizione che lo avvicina agli arabi, che ne fa l'erede- soprattutto, è vero, attraverso Averroe'-, di problematiche che al-Fa^ra^bi per primo contribuì ad elaborare. Il fine dell'uomo è la felicità, filosofica e spirituale; il compimento dell'umanità consiste nella realizzazione della potenzialità intellettiva, cioè nella piena attuazione dell'intelletto possibile. Ciò si realizza solo grazie alla partecipazione dei singoli alla società. Potremmo intessere una tela di citazioni, ma sono soprattutto la Monarchia e il Convivio a darci la chiave dell'interpretazione dantesca. Dante è chiaramente vicino all'averroismo, sostenendo che "è evidente che il termine ultimo della potenza dell'intera umanità è la potenza o virtù intellettiva" (Dante 1989,I,3:9). Tuttavia, "il genere umano è assolutamente simile a Dio quando è assolutamente uno (...).E allora il genere umano è assolutamente uno, quando è tutto unito in uno: e questo non può essere se non quando soggiace interamente sotto un unico principe. Ciò giustifica, naturalmente, la necessità della vita sociale e il suo ordinamento specifico sotto la monarchia; e il saggio ordinamento terreno, sempre secondo Dante, è lo specchio di quello superno, poiché "l'ordinamento di questo mondo segue quello insito nelle sfere celesti". Del resto, nel compiuto esplicarsi della propria attività umana, l'uomo si fa simile agli angeli. Si tratta, dunque, di una tipica concezione "greco-araba", e ,in particolare, al farabiana, una concezione che non può non cogliere nel rapporto tra il sopra e il sotto il disegno di un'unica armonia. Anche nel Convivio, Dante si rivela profondamente imbevuto di prospettive arabe, pur spesso celando le sue fonti, come quando riecheggiano sia al-Fa^ra^bi che Ibn Rushd (l'Averroe' dei Latini), sostiene che "l'umana natura non per una beatitudine abbia, ma due, sì come quella de la vita civile, e quella contemplativa" (Dante 1993, II, 4:98). Il sapere è causa della della perfezione, e il sapere "è l'unica perfezione nostra, sì come dice lo Filosofo nel sesto dell'Etica, quando dice che 'l vero è lo bene de lo intelletto". Così come tutte le virtù formative provengono dalla virtù celestiale, la felicità provienevdall'influsso della struttura intellettuale: " S'elli avviene che, per la puritade dell'anima ricevente, la intellettuale virtude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina boutade in lei multiplica,  sì come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi si multiplica, ne l'anima di questa intelligenza secondo che ricevere puote, E' questo è quel seme di felicitade del quale al presente si parla". Di fatto, "l'anima umana....con la nobilitate  de la potenza ultima, cioè ragione, participa de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia". E' "l'amoroso uso di sapienza, il quale massimamente è in Dio", ma che può divenire strumento di quell'infinito desiderio  della scienza che, a sua volta, è veicolo della perfezione umana" (misurata)in questa vita a quella scienza che qui avere si può". Le considerazioni dantesche su un unico principe non vanno, peraltro, troppo disgiunte da quelle di al-Fa^ra^bi, se pur nella diversa sfera culturale e religiosa. Il termine che al-Fa^ra^bi usa per stato è ummah, il che indica la difficoltà per un musulmano di concepire un'entità statale in senso astratto, indipendentemente dall'appartenenza ad un gruppo umano, il cui vincolo associativo è primariamente dato dalla religione e dalla cultura. Per indicare, più rigorosamente, la religione, al-Fa^ra^bi usa il vocabolo millah, ma ummah possiede un significato più onnicomprensivo e pregnante.In effetti nell'Islam le entità statali riconosciute come universalmente valide, quali il califfato, sono sempre state sovranazionali e nel pensiero politico islamico non esiste l'idea moderna (occidentale) della nazione coincidente con uno stato territoriale. Al-Fa^ra^bi sostiene che la città (madi^nah) è la forma minima di società perfetta? Non sembra. L'assunto di al-Fa^ra^bi è che gli uomini hanno bisogno di vivere associati insieme al fine di attingere il loro stato migliore, ossia che la massima perfezione o felicità sia possibile solo in una città o in una nazione eccellente. Piuttosto, la città eccellente è presentata come unica, poiché è l'unica forma di associazione politica che si pone la vera felicità come proprio specifico fine immediato. Se è vero che in Dante la sfera temporale differisce da quella religiosa, è pur vero che l'universalismo politico di Dante deve molto al pensiero arabo.
Casalino Pierluigi 

i confini geografici e storici dell'Italia.

 
Quali sono i veri confini dell’Italia? Un elenco dei confini "naturali" del Belpase: Nizza, Venezia Giulia, Dalmazia, Svizzera, Malta e Corsica.


NIZZARDO

Lo spartiacque alpino a nord del monte Pelat (che si trova in Francia, a sud ovest del Colle della Maddalena) è determinato dai geografi in maniera univoca. Invece, a sud di esso, taluni dividono la Regione geografica italiana da quella francese per una linea che lascia alla Francia il bacino del fiume Varo e all’Italia quella del Roja, ponendo i limiti della costa ligure al paesino della Turbia, vicino Monaco; i più invece fanno ricomprendere nell’Italia anche tutto il bacino del Varo, includendo nell’Italia geografica anche la città di Nizza. Il confine geografico quindi sarebbe molto prossimo a quello storico della Contea di Nizza, territorio appartenuto agli stati italiani dal Medioevo fino al 24 marzo 1860, quando fu ceduto da Camillo Benso conte Cavour alla Francia di Napoleone III in seguito al Trattato di Torino.

Fino ad allora, Nizza (denominata “Nizza Marittima” per la vicinanza alle Alpi Marittime, oppure “Nizza di Provenza” per la parlata franco-provenzale della città) era una provincia del Regno di Sardegna come Torino, Alessandria, Cuneo, ecc., sotto la sovranità dei Savoia. Il territorio della Contea includeva anche l’odierna provincia di Imperia (allora Porto Maurizio) e aveva tre distretti: Nizza Marittima, Sanremo e Porto Maurizio. In essa vi era il piccolo stato di Monaco, governato da secoli dalla nobile famiglia ligure Grimaldi, il quale fino al 1848 comprendeva anche le cittadine di Mentone e Roccabruna.

Nella cartina del tempi si può vedere la differenza tra il confine occidentale della Contea di Nizza con lo spartiacque geografico; alcuni paesi geograficamente italiani ma già politicamente francesi, come ad esempio Mas, erano già stati savoiardi fino al 1713, anno in cui i confini tra i due stati furono leggermente ritoccati.

Stilare una descrizione etnico-linguistica della zona non è semplice; fino al 1860 non vi sono mai stati censimenti che distinguessero tra francesi ed italiani, anche perché la lingua francofona di questa zona non era il francese ma il franco-provenzale. Ad ogni modo, da testimonianze e documenti dell’epoca si evince che nei paesi ad est della Turbia (compresa Monaco) il dialetto era ligure; nelle vallate interne la parlata locale, andando da est ad ovest, digradava dal ligure al franco-provenzale; Tenda e Briga Marittima, nella val Roja, avevano un dialetto particolarissimo che ancor oggi sopravvive, vicino al ligure, ma non di tipo francese; la parlata della città di Nizza era franco-provenzale con influssi liguri. In ogni caso, l’italiano non era certo considerato una lingua “straniera”, dal momento che i documenti ufficiali erano scritti, tranne qualche breve parentesi come quella napoleonica, in italiano. Nizza Marittima ha dato i natali a tanti italiani famosi, primo fra tutti Giuseppe Garibaldi.

Il limite costiero della Contea di Nizza era il fiume Varo; il Ponte San Lorenzo sulla via Aurelia, tra Nizza Marittima e Antibo (o Antibes in francese) univa il Regno di Sardegna alla Francia. Il mar Ligure stesso veniva chiamato tale fino a Nizza; a torto oggi i geografi considerano “mar Ligure” solo le acque ad est della costa di Ventimiglia: sono cambiati i confini politici, ma non certo quelli geografici. Anche la denominazione “Costa azzurra” è molto politica e poco geografica, in quanto la si fa partire dalla dogana dei Balzi Rossi (tra Ventimiglia e Mentone) fino a Provenza inoltrata.

Nel 1860 la Contea fu ceduta alla Francia per assicurarsi la neutralità di quest’ultima nelle operazioni di conquista del Sud. E’ ipotizzabile che il governo francese non avesse nessun interesse a mantenere le caratteristiche italiane in una regione appena acquisita da uno stato in via di formazione il quale, con gli anni, avrebbe potuto rivendicare il territorio appena ceduto. Certa è l’intensa opera di francesizzazione che venne effettuata negli anni successivi, e che ebbe effetto soprattutto nella città di Nizza Marittima, da allora divenuta ufficialmente “Nice”, e solo “Nizza” per gli italiani, ritraducendo la nuova toponomastica francese. Fu favorita una progressiva diffusione della lingua francese a danno di quella italiana: ad esempio vennero chiuse tutte le pubblicazioni dei giornali italiani (come "La voce di Nizza"); furono cambiati persino molti cognomi degli autoctoni ("Bianchi" => "Leblanc"; "Del Ponte" => "Dupont" ecc.). L’italianità di Nizza è andata scomparendo a mano a mano: negli anni trenta nel centro storico si parlava – accanto al dialetto – ancora italiano, ora invece il francese predomina nella città e nella regione; l’italiano comunque resta la seconda lingua del capoluogo. Cultura autoctona è rimasta maggiormente nei paesi dell’interno oltre che a Mentone e nello stato di Monaco, dove l’inflessione dialettale è tuttora di tipo ligure. Interessante inoltre è vedere che una buona fetta di cognomi dei residenti nel nizzardo è italiano: ad esempio si trova "Giorgi" e "Delrivo" a Poggetto Tenieri, "Baldacci" e "Paolini" a Guglielmi, "Rosso", "Andreoli" e "Ceccarini" alla Turbia ecc.

Nel 1947, in seguito al Trattato di Parigi, furono ceduti alla Francia il comune di Tenda e parte dei comuni di Briga Marittima, Valdieri e Olivetta San Michele; anche queste zone furono immantinente soggette a francesizzazione. Una certa fetta della popolazione, per aver scelto di non diventare di cittadinanza francese, prese la via dell’esodo.

Altri territori, di estensione limitata ma di grande importanza strategica, furono annessi alla Francia a guerra finita: il passo del Monginevro, la Valle Stretta del monte Tabor (ad ovest di Bardonecchia), il passo del Moncenisio ed una parte del territorio del Piccolo San Bernardo col celebre ospizio (vedi cartine 3 e 4). In queste zone non vi sono paesi, ma tutt’al più gruppi di case; la francesizzazione è avvenuta per lo più nella toponomastica.

Un’altra piccola zona, geograficamente italiana, è politicamente straniera (in questo caso svizzera): quella comprendente i paesi di Sempione e Gondo. In ambedue le località la parlata è tedesca.

Di contro, il Regno di Sardegna ha ceduto in tempi diversi vari territori transalpini piuttosto estesi alla Francia: la valle dell’Ubaja con Barcelonnetta nel 1713 (trattato di Utrecht) e tutta la Savoia nel 1860. Ambedue le regioni sono a parlata franco-provenzale. La valle dell’Ubaia, interamente montuosa, è costituita attualmente da tredici comuni, i più importanti dei quali sono Barcelonnetta e Jausiers. La Savoia invece è la regione di provenienza dei Re d’Italia, i quali a malincuore la cedettero a Napoleone III; fino allora aveva come capoluogo Ciamberì (italianizzazione del franco-provenzale Chambery) ed era costituita dai seguenti circondari (tra parentesi i rispettivi capoluoghi): Savoia propria (Ciamberì), Alta Savoia, Sciablese (Thonon), Fossignì (Bonneville), Genevese (Annecì), Moriana (San Giovanni di Moriana), Tarantasia (Moutier). Dopo il 1860 fu divisa negli attuali dipartimenti di Savoia e Alta Savoia. Nonostante che sia sempre stata a parlata francese, l’italiano era comunque abbastanza conosciuto se tuttora, in qualche paesino interno, vi è qualche anziano che lo parla.

Per completezza è necessario citare la questione del confine politico in prossimità della vetta principale del Monte Bianco la quale, contrariamente a quanto taluni sostengono, non appartiene alla Francia ma è equamente divisa tra i due stati confinanti. Infatti i confini postunitari definiti tra Italia e Francia stabilivano che la linea confinale passasse per la cima del Monte Bianco; da allora non sono mai stati ritoccati da alcun trattato.

SVIZZERA ITALIANA

La Svizzera Italiana comprende tutto il Canton Ticino e la valle Mesolcina del Cantone dei Grigioni; vanno incluse in essa anche le valli Bregaglia e di Poschiavo, fisicamente staccate dalla restante parte. In tali zone si parla quasi esclusivamente l’italiano ed il dialetto è di tipo lombardo. Si ricorda che il Canton Ticino fu ceduto dal Ducato di Milano alla Svizzera nella prima metà del Cinquecento; esso fino alla seconda metà dell’Ottocento faceva parte delle diocesi di Milano e Como. Le comunicazioni a tutt’oggi sono più intense con l’alta Italia che con la restante Svizzera.

Rientrano nei confini geografici d’Italia anche la Val Monastero (Cantone dei Grigioni) ed il passo del Sempione (Cantone Vallese); gli abitanti di questi due lembi di terra sono di parlata rispettivamente ladina e tedesca. Di contro vi sono alcuni piccoli territori appartenenti all’Italia politica ma geograficamente transalpini: la Val di Lei e Livigno.

VENEZIA GIULIA

Altra regione geografica della Penisola Italiana è la Venezia Giulia, che ne determina i limiti orientali. Il confine politico in questa zona si discosta notevolmente da quello naturale: è italiano il piccolo territorio transalpino di Tarvisio, una volta di parlata tedesca (Tarvis); la Repubblica, di contro, non comprende che una piccola porzione della Venezia Giulia. Il confine infatti, anziché seguire lo spartiacque principale delle Alpi, traccia un percorso molto irregolare tagliando in due la città di Gorizia ed escludendo dall’Italia: l’alta valle dell’Isonzo e dei suoi affluenti, il Carso, l’Istria, le valli della Piuca e di Circonio (l’appartenenza di queste valli al territorio della Penisola è controverso), il Quarnaro (con le isole Cherso, Lussino e Veglia) e la costa liburnica con Fiume. Il confine orientale italiano tra le due guerre mondiali includeva invece la quasi totalità della Venezia Giulia e seguiva in massima parte lo spartiacque naturale; rimanevano escluse dal Regno d’Italia: la conca di Circonio, la valle dell’Eneo, la Liburnia da Fiume a Buccari e l’isola di Veglia ed erano ricomprese piccole porzioni transalpine nei pressi di Idria e del monte Nevoso.

Amministrativamente la regione Venezia Giulia era allora suddivisa in quattro province: Trieste, Gorizia, Pola e Fiume. Gli sloveni e i croati costituivano insieme la metà circa della popolazione totale ed erano concentrati per lo più nelle campagne e: nell’alta valle dell’Isonzo, dell’Idria e del Vipacco (Tolmino, Caporetto, Idria, ecc.), nella zona di Postumia Grotte, di Villa del Nevoso e di San Pietro nel Carso, nella Liburnia e nell’Istria interna, zone queste estese ma con bassa densità di popolazione. La dussivisione tra sloveni e croati ricalca press’a poco l’attuale confine di stato tra Slovenia e Croazia. Gli italiani erano soprattutto nelle città e nei paesi maggiori (Trieste, Gorizia, Fiume, Pola, Parenzo, Rovigno d’Istria, Capodistria, Albona ecc.) e nell’Istria occidentale e meridionale. La suddivisione tra italiani e slavi ricalcava fino a Trieste l’odierno confine tra Italia e Slovenia, mentre in Istria la situazione era molto più complessa, tanto che era impossibile definire una linea di demarcazione italiani – slavi. D’altra parte vi erano pochissime zone della Venezia Giulia dove italiani o slavi erano totalmente assenti. Le percentuali degli italiani a Pola e Fiume erano dell’ 80 % circa. Il carattere culturale predominante di buona parte de regione è sempre stato italiano e molti slavi – al contrario degli italiani – erano bilingui. La pulizia etnica operata a partire dal 1943 da Tito e pagata col sangue di 20 mila italiani morti tra foibe e campi di concentramento e la conseguente emigrazione dei 350 mila italiani ha quasi completamente slavizzato la Venezia Giulia, segnando così la morte di una cultura che per secoli aveva caratterizzato la zona. Oggi in Venezia Giulia si contano circa 30 mila italiani, che sperano in future leggi che li proteggano adeguatamente.

DALMAZIA

La Dalmazia è quel territorio della costa adriatica orientale che va dalla baia di Buccari fino alla foce del fiume Boiana ai confini con l’Albania. La Dalmazia non appartiene geograficamente alla Regione italiana, ma costituisce un territorio a sé, geograficamente staccato dalla Jugoslavia interna per mezzo delle Alpi Dinariche e totalmente differente da essa sia per ragioni climatiche che etniche, in quanto gli slavi dalmati hanno usi e costumi molto differenti da quelli dell’interno. La Dalmazia per tutto l’Ottocento e fino agli anni venti del Novecento era composta da una affatto trascurabile minoranza di italiani, che amministravano quasi la metà dei comuni del territorio. Gli italiani erano concentrati soprattutto sulle isole (Arbe, Lissa, Cùrzola, Lèsina, Brazza ed altre) e nelle città costiere in primis Zara (circa il 70 % di italiani negli anni Venti), ma anche Spalato, Traù, Ragusa di Dalmazia, Càttaro ed altre minori. Inoltre, italiana era la cultura dominante di tutta la Dalmazia, in quanto residuo della plurisecolare dominazione della Repubblica di Venezia. I moti irredentisti in Dalmazia furono molto vivi nella seconda metà dell’Ottocento, ma furono spesso soffocati dall’Impero austro-ungarico che temeva la nascente potenza italiana. Il Patto di Londra del 1915 prometteva all’Italia il dominio di parte della Dalmazia, ma tale promessa fu negata al trattato di Versailles per la ferrea opposizione del presidente americano Wilson. Furono annesse all’Italia solo Zara, Làgosta e l’arcipelago di Pelagosa.Tale "vittoria mutilata" ebbe come conseguenza l’esodo della quasi totalità degli italiani dalmati.

La città di Zara fu l’ultima roccaforte dell’italianità della Dalmazia e resistette fino al 1944 quando in seguito a quasi 60 massicci bombardamenti americani i partigiani di Tito entrarono nella città mettendola a ferro e fuoco e uccidendo centinaia di italiani. Ora la Dalmazia è composta nella totalità della popolazione da slavi (croati ed in piccola parte montenegrini e bosniaci). La presenza italiana è ridotta a poco più di trecento unità, dislocate a Zara e a Spalato. Un dialetto di tipo veneto viene parlato da qualche anziano sia a Zara che in alcune isole (Cùrzola, Lèsina).

MALTA

I confini marittimi meridionali d’Italia sono ben definiti considerando come italiane le isole che si ergono dalla zolla della penisola e tunisine quelle facenti parte della piattaforma africana. Pertanto sono italiane:

*Malta e il suo arcipelago
*Linosa
*Pantelleria
*Lampedusa con l’isolotto di Lampione
*le isole Kerkenna
*l’isola posta al largo della Tunisia verso la Sardegna denominata La Galita.

CORSICA

La Corsica ha anch’essa cultura, usi e storia italiani. In epoca medievale fu contesa da Pisa e Genova che, dopo la battaglia della Meloria (1284), ne rimase padrona. L’occupazione genovese è mal ricordata dai corsi, contrariamente a quella di Pisa che ne plasmò il dialetto. Il 1768 è l’anno della perdita della Corsica: la Repubblica di Genova vendette l’isola alla Francia, che da anni ambiva al possesso dell’isola per un maggior controllo del Mediterraneo. Le truppe francesi (giunte a Bastia già dal 1764) sbarcarono nella restante Corsica nel 1769 e piegarono facilmente le resistenza dei corsi guidati da Pasquale Paoli. Insieme alla Corsica divenne francese la toscana isola di Capraia, che però sarà ceduta alla Toscana con la pace di Vienna del 1815. Nell’Ottocento cominciò lentamente il processo di francesizzazione della Corsica, che divenne sempre più inesorabile, tanto che agli inizi del Novecento l’italiano era quasi scomparso. Solo nelle chiese l’uso dell’italiano tardò a sparire: addirittura nel 1969 nelle montagne di Aiaccio un prete predicava ancora in italiano. Una ripresa dell’italianità della Corsica si manifestò tra le due guerre mondiali ad opera di alcuni intellettuali quali Bertino Poli, Petru Giovacchini, ecc.. Nel 1942 la Corsica fu occupata – ma non annessa – dall’Italia, ma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 tornò nelle mani della Francia. A tutt’oggi nell’isola permangono caratteri italiani: il dialetto della sua parte meridionale è affine al gallurese mentre il corso del nord è una parlata di tipo toscano. Tracce di genovese si riscontrano a Bonifacio, un tempo luogo di prigione di galeotti genovesi. Una curiosità (che forse non tutti sanno): Napoleone nacque ad Aiaccio solamente un anno dopo la cessione della Corsica alla Francia.







venerdì 20 novembre 2020

Ancora su Dante e il suo amore per i numeri.



Chi è dunque il messaggero divino celato sotto il “cinquecento dieci e cinque“ (v. 43) del XXXIII canto del Purgatorio? Si tratta, dato il riferimento al simbolo imperiale dell’aquila, di Enrico (o Arrigo) VII di Lussemburgo (1275-1313), alla guida del Sacro Romano Impero dal 1312?
Che il futuro salvatore della Chiesa sia da identificarsi con lui è una semplice ipotesi, e nemmeno così convincente.Non basta a suffragarla il tentativo di uno studioso, Edward Moore, di far corrispondere il nome Arrico, considerandone il valore gematrico, al numero 515. La gematria (o ghematria) è il sistema numerologico di tradizione cabalistica che consente di associare un numero a ognuna delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico; aleph (A) vale 1, resh (R) vale 200, yod (I) vale 10, a’ayin (O) vale 70, laddove cinque di quelle 22 lettere hanno due diverse forme, e altrettanti valori numerici, se occupano la posizione finale oppure no: kaph (= 20; = 500); mem (= 40; = 600); nun (= 50; = 700); pe (= 80; = 800); tzaddi (= 90; = 900).
Moore, ipotizzando che Dante non sapesse quale numero la cabala abbinasse alla O, ha pensato che il Poeta avrebbe potuto assegnare alla lettera il 4 perché quarta vocale dell’alfabeto latino; la somma da calcolare sarebbe perciò 1 (A) + 200 (R) + 200 (R) + 10 (I) + 100 (C = Q) + 4 (O) (= 515), e la C sarebbe stata fatta corrispondere non a K (kaph), bensì a Q (qoph; valore cabalistico 100), per la prossimità o identità dei valori fonetici di queste due lettere. Una seconda possibilità, contemplata dallo stesso Moore, ha posto alla base del calcolo Arrico VII, immaginando che Dante, conscio dell’assenza delle vocali in ebraico, abbia attribuito alle cinque vocali latine i numeri da 1 a 5 (A =1, E = 2, I = 3, O = 4, U = 5) e considerato nella somma generale il numero 7, corrispondente all’ordinale dell’imperatore tedesco: 1 (A) + 200 (R) + 200 (R) + 3 (I) + 4 (O) + 7 (= 515).
La spiegazione del “cinquecento diece e cinque”, in un canto che attinge all’Apocalisse del celebre 666, il numero della bestia (“Sappi che ‘l vaso che ‘l serpente ruppe, / fu e non è”, vv. 34-35; “Et bestia, quae erat et non est“, Apc., 17, 11), va senz’altro ricercata all’interno della gematria. Bisogna però partire dalla sua applicazione all’alfabeto latino, che assegna 1 ad A, 2 a B, 3 a C, 4 a D, 5 a E, 6 a F, 7 a G, 8 a H, 10 a K, 11 a L, 12 a M, 13 a N, 14 a O, 15 a P, 16 a Q, 17 a R, 18 a S, 19 a T, 21 a Z; non ci sono W, Y, X, mentre I, J e U, V hanno uno stesso valore: rispettivamente 9 e 20. La profezia di Purg. XXXIII, 37-45, ha forti legami con Par. XVIII, 73 sgg. Qui Dante, appena salito al cielo di Giove, descrive il movimento delle luminose anime dei giusti e le lettere che, volando e cantando, disegnano nell’aria; ne appaiono inizialmente 3 (D, I, L), che diventeranno alla fine 35 e comporranno 5 parole: “Diligite iustitiam qui iudicatis terram”. Se fosse allora Dante il “cinquecento diece e cinque”, se fosse lui l’inviato di Dio dell’ultimo canto del Purgatorio? I riscontri non mancherebbero, a partire dalle 5 parole appena riportate.
Non può sfuggire la relazione fra le prime tre lettere (Dil) del versetto di apertura del Libro della Sapienza (“Amate la giustizia, voi che giudicate la terra”), equivalenti ad altrettanti numeri romani (D = 500, I = 1, L = 50), e il “cinquecento diece e cinque” (500 = D; 10 = X; 5 = V): se consideriamo la sola prima cifra (in entrambi i casi 5) del primo e del terzo dei numeri che formano Dil, e la componiamo con l’1 corrispondente alla I, otteniamo 515 (come osservò Vinassa de Regny). Quel “cinque volte sette” fa poi 35, quasi l’età di Dante al momento del viaggio, e le 35 lettere di Diligite iustitiam qui iudicatis terram alludono a due aspetti fondamentali per l’autore della Commedia: l’amore per la giustizia e il suo inappellabile giudizio su buoni, cattivi e penitenti. E non è tutto. Il cielo di Giove, da cui dipende l’esercizio della giustizia in terra, è il sesto del Paradiso, e il numero 6 simboleggia l’ordine e la stessa giustizia. Nel IV canto dell’Inferno Dante si dichiara “sesto fra cotanto senno” (v. 102), attribuendosi l’invidiabile privilegio di potersi considerare ultimo, certo, ma dopo i più grandi poeti classici (Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e, naturalmente, Virgilio). Con riferimento a loro aveva detto, al verso precedente, “sì mi fecer de la loro schiera”. Ed è il cinquecentoquindicesimo verso del poema.
Casalino Pierluigi 





giovedì 19 novembre 2020

Dante e Santa Lucia. La simbologia della luce.



“I’son Lucia / lasciatemi pigliar costui che dorme, sì l’agevolerò per la sua via”. Con queste parole (Purgatorio, IX, 52 ss.) la santa siracusana accoglie dolcemente tra le sue braccia il Sommo Poeta addormentato per trasportalo in volo e deporlo sulla soglia del Purgatorio.
Lucia, la martire venerata in tutta Europa dalla Sicilia alla Scandinavia per i suoi doni che illuminano “la notte più lunga”, è anche colei che salva Dante nella sua divina avventura attraverso le tre dimensioni dell’aldilà, l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Si può ben dire, anzi, che il più grande poema dell’occidente cristiano si regge tutto sulla figura di Lucia, la grazia illuminante, intermediaria tra Maria Vergine e il sommo poeta, perso nella selva oscura del peccato. È lei, nimica di ciascun crudele, il perno di quel disegno provvidenziale che vuole Dante destinato a rigenerare una società non più fondata sulla cupidigia ma sulle grandi virtù. È lei, infatti, a muoversi all’inizio del viaggio del poeta e a sollecitare Beatrice perché salvi il suo amico Dante con l’invio della guida Virgilio.“Beatrice, loda di Dio vera, / ché non soccorri quei che t’amò tanto, / ch’uscì per te de la volgare schiera? / Non odi tu la pieta del suo pianto, / non vedi tu la morte che’l combatte / su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto? / Al mondo non fur mai persone ratte / a far lor pro o a fuggir lor danno, / com’io, dopo cotai parole fatte / venni qua già del mio beato scanno, / fidandomi del tuo parlare onesto, / ch’onora te e quei ch’udito l’hanno” (Inferno, II, vv. 97 ss.)
E Beatrice accorrerà, allora, in suo soccorso così com’ella volse, secondo cioè il dettame della santa.La stessa Lucia che Dante ritroverà in Paradiso nella gloria dell’Empireo, nella candida rosa, all’agognato compimento della sua immane prova: alla sinistra di Maria, che ha il posto di maggior rilievo, siede Adamo di fronte al quale, come gli mostra San Bernardo, “siede Lucia, che mosse la tua donna / quando chinavi, a rovinar, la ciglia” (Paradiso, XXXII, vv. 136-138).
D’altra parte è innegabile che la luce rappresenta il leit-motiv dell’intera Commedia dantesca. ( Avicenna) E Dante aveva per la santa protettrice della vista una venerazione tutta particolare, forse dovuta a una malattia agli occhi di cui il poeta narra nel Convivio (III, IX, 15-16): “E però puote anche la stella parere turbata: e io fui esperto di questo l’anno medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso molto, a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d’alcuno albore ombrate. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo de l’occhio con l’acqua chiara, riuni’ sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono stato de la vista”. Lo stesso Jacopo figlio dell’Alighieri, ricordato per essere stato uno dei primi commentatori della Commedia, annota che dopo avere invocato l’intercessione di Lucia, il poeta aveva da lei ottenuto la guarigione.
Si capisce così la straordinaria suggestione dell’immagine di un Dante unico uomo in carne ed ossa tra tanti spiriti, umanamente “vinto dal sonno”, miracolosamente e amorevolmente sorretto in volo da Santa Lucia dall’antipurgatorio fino alla porta del Purgatorio. Nella misteriosa traversata Dante ha il tempo di sognare, e poiché le visioni facilmente trasmutano in altre, Dante non si avvede di Lucia che lo trasporta, ma sogna di un’aquila che si aggira su un paesaggio rupestre con le ali aperte e lo solleva reggendolo tra gli artigli fino alla regione del fuoco. Ma l’aquila è Lucia, ed è la via della salvezza, come lo è, per Dante, l’impero (di cui l’aquila è il simbolo). Lucia è dunque, nel Purgatorio, più della santa della luce: è la luce della speranza, è la grazia illuminante, è l’immagine dell’aquila di giustizia e dell’aquila imperiale, è il tramite imprescindibile della missione redentrice di cui Dante è destinatario e, grazie al suo poema, portavoce.Ed è nelle sembianze premurose di una tenera madre che William Blake, il geniale poeta pittore e illustratore inglese, la immortala in un suggestivo acquerello (1824-27) in cui la dantesca donna “dagli occhi belli” lo stringe a sé nella salita, fino alla spaccatura della roccia che immette al secondo regno ultraterreno, quello della liberazione del male. Nel chiarore che precede il giorno, nel brillio di qualche stella ancora accesa, Lucia appoggia il piede sulla balza del colle per deporre il poeta un attimo prima del risveglio, seguito a ruota e assistito sempre dal fedele maestro Virgilio. Un’immagine di struggente semplicità, in cui la fluidità delle forme suggerisce l’incorporeità della visione, pur restituendo tutta la terrena umanità di un uomo che abbisogna di essere aiutato e insieme tutta la provvidenziale sollecitudine della santa, che all’uomo fa la grazia dell’illuminazione e della salvezza. Per concludere, Dante identifica Santa Lucia non solo nella allegoria della Grazia illuminante, ma recupera attraverso di lei tutto il discorso complesso della teoria (e simbologia) della luce, ben presente nella Commedia anche per chiara influenza avicenniana. 
Casalino Pierluigi 



domenica 15 novembre 2020

Il ruolo della donna nella filosofia di Averroe'. The position of women in Ibn Rushd (Averroes) by Casalino Pierluigi on Asino Rosso


Pierluigi Casalino: IL RUOLO DELLA DONNA NELLA FILOSOFIA DI IBN RUSHD (AVERROE').
 


L’atteggiamento di Ibn Rushd (l’Averrosè dei Latini) nei confronti dello Stato e della Società del suo tempo emerge soprattutto dalle considerazioni del filosofo arabo andaluso sul ruolo della donna nel contesto storico dell’Islam a lui contemporaneo. Tale posizione assume, del resto,. Un certo interesse, in quanto recepisce le idee di Platone circa l’uguaglianza delle donne, aldilà dei compiti e delle funzioni che la società assegna al sesso femminile. I passaggi rilevanti sull’argomento si trovano nel primo trattato del Commento di Ibn Rushd (Averroè) alla Repubblica di Platone (XXV, 6-10). Occorre citare, al riguardo, i paragrafi 9 e 10, per individuare l’applicazione del pensiero platonico alla sua epoca e alla sua realtà sociale. Vengono sottovalutate le altre qualità delle donne, dal momento che esse vengono poste al servizio dei loro mariti e sono considerate adatte soltanto alla procreazione, all’allattamento, al sostentamento e all’educazione dei figli. Tutto ciò getta in ombra tutte le altre possibili capacità di cui le donne sono dotate, compresa l’attitudine ad esprimere ogni umana virtù, accumunandole ai vegetali. Ne consegue, secondo Ibn Rushd, che le donne sono relegate in una perdurante condizione di ignoranza e di miseria, oltre a non essere impiegate in alcuna attività utile, valendo metà degli uomini, salvo filare e tessere. Una simile concezione si scontra con l’insegnamento e la pratica dell’Islam imperante ed assume un significato del tutto particolare, proprio perché viene promossa da un esponente ortodosso della comunità musulmana, per di più riconosciuto di speciale autorevolezza nel campo della giurisprudenza per incarico del principe dei credenti (al amir al mu’min). Appare chiara, nella circostanza, l’influenza di Platone sul pensiero di Ibn Rushd, che, in termini diametralmente opposti alla morale comune, denuncia i riflessi negativi dell’arretratezza femminile sul buon andamento dell’economia e sull’amministrazione dello Stato. Ancor più sorprendente si rivela la critica del filosofo alla condizione in cui versa la donna nell’Islam contemporaneo, in particolare in ordine allo squilibrio sociale che tale situazione comporta, non solo per le classi più umili. Pur non disponendo di fonti dirette che testimoniano le reazioni suscitate da queste posizioni presso gli oppositori e i nemici di Ibn Rushd, è certo che le controverse ragioni che contribuirono alla sua temporanea caduta in disgrazia, ci furono le accuse mosse contro di lui dai settori ultra-ortodossi sul tema dell’uguaglianza e della dignità dei sessi. Non possiamo non apprezzare, anche per questo motivo, il senso critico di uno dei più grandi geni dell’umanità.
 

Casalino Pierluigi, 18.03.2011.

 

 

                                            THE POSITION OF WOMEN IN IBN RUSHD (AVERROES).

Ibn Rushd’s critical attitude to State and Society of his time is also shown in his outspoken pronouncement on women and their status in contemporary Islam. It is also an interesting application of Plato’s ideas about the equality of women as far as civic duties are concerned. The relevant passages are found in the first treatise of the Commentary (XXV, 6-10). It is for our purpose sufficient to quote paragraphs 9 and 10 – Averroes’ application to his own time and place: ”yet, in these states the ability of women is not known, only because they are being taken for procreation alone therein”. They are therefore placed at the service of their husbands and (relegated) to the position of procreation, for rearing and (breast) feeding. But this undoes their (other) activities. Because women in these states are not being fitted for any of the human virtues it often happens that that they resemble plants. They are a burden upon men in these states is one of the reasons for the poverty of these states. For, they are found in them in twice the number of men while at the same time they do not support any (or: carry on most) of the necessary (essential) activities, except for a few, which the undertake mostly at a time when they are obliged to make up their want of funds, like spinning and weaving. All this is self-evident. This pronouncement runs counter to Islamic teaching and practice and is the more remarkable since it is made by an orthodox member of Muslim community which was ruled by the “amir al- mu’minim”, and moreover by practising lawyer steeped in “fiq”. It is clear that Plato’s ideas must have drawn  Averroes’ attention to the wastage of human labour so detrimental to the State, and led him to advocate a reversal of orthodox Muslim policy. It is the more surprising that this realistic criticism of the position of women in Islam and its bad effected to the economic health of the nation should have gone unnoticed, together with his repeated critical remarks about the contemporary Muslim state as a whole and some of its prominent classes. At any way, no trace can be found in the sources that his enemies and opponents used them against him. Yet it may well be that they allegedly cast doubt upon his orthodoxy, though the sources give different, conflicting reasons for his temporary disgrace.

Casalino Pierluigi, 18.03.2011.


Le fonti della Divina Commedia.






Dante cita assai raramente le proprie fonti e all’inizio del poema Io non Enea, io non San Paulo, Inferno III, 32) si limita ad associare alla propria esperienza soltanto due esempi: la discesa di Enea all’Averno ( ricavate dal VI libro dell’Eneide di Virgilio e da quella della Seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi). Certamente, dal momento che la Commedia è la narrazione di un viaggio nell’Oltretomba, confluiscono in essa diverse tradizioni, che nel complesso costituiscono la base culturale della Divina Commedia stessa: la discesa agli Inferi (catabasi), tema già trattato nell’età classica; e il viaggio inteso come ricerca (que^te) interiore, come quella del Santo Graal, che nel ciclo brètone anima i cavalieri della Tavola Rotonda; le descrizioni dell’Oltretomba presenti nella letteratura religiosa e nelle arti figurative del Duecento, le profezie sul destino ultimo dell’umanità e sulla fine dei tempi, tipiche dei movimenti penitenziali e millenaristici (come quello di Gioacchino da Fiore). Tra gli antecedenti della Commedia vanno ricordati il Sommnium Scipionis di Cicerone, i viaggi nell’Averno narrati nelle Metamorfosi di Ovidio e, soprattutto, l’Apocalisse di San Giovanni. Una forte suggestione era data, senz’altro, anche dal mito di Orfeo (cantato da Virgilio nell’Eneide e in altre sue opere, da Ovidio nelle Metamorfosi, come detto, e da Orazio nell’Ars Poetica), il cantore che, con il suo linguaggio creativo e profetico, si pone come intermediario tra l’umano e il divino. A questo va aggiunta l’influenza religiosa, attraverso alcuni testi apocrifi (in particolare la Visione di San Paolo, anzi le due Apocalisse di San Paolo e di Enoc – di quest’ultimo sia quella ebraica che quella di ambiente cristiano) e le leggende come la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (Jacopo da Varazze) in cui è narrata, fra l’altro, la discesa di Cristo agli Inferi, tema molto popolare nel Medioevo. Assai diffusi, inoltre i racconti di origine irlandese, come la Navigazione di san Brandano e la Leggenda del Purgatorio di San Patrizio, oltre al filone di altre Visioni ultramondane, come quelle di Ansello, di Eynsham e di Tundalo. Tuttora aperto, ma vivo e sicuramente fondato su considerazioni attendibili (Maria Corti, Enzo Cerulli) è il dibattito sulla conoscenza, da parte di Dante, di opere appartenenti alla civiltà musulmana, quali il Liber Scalae (il Libro della Scala o Viaggio Notturno del Profeta Maometto), che racconta dell’ascesa al cielo di Maometto, tradotto dall’arabo in spagnolo e quindi volgarizzato in francese e appunto in latino.  Interessanti anche i riferimenti all’escatologia, alla mistica e alla costruzione ultraterrena ebraica. Più vicini a Dante sono i poemetti in volgare della seconda metà del XIII secolo. Tra questi spiccano il De Ierusalem Coelesti (la Gerusalemme Celeste) e il De Babilonia civitade infernali (la Babilonia infernale) di Giacomino da Verona, il Libro dei vizi e delle virtudi di Bono Giamboni e il Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva. Tutte queste composizioni rivelano somiglianze e analogie più o meno profonde con la Commedia dantesca, che se ne distacca, peraltro, sia per il valore artistico e creativo, che per la vastità dottrinale e per il rigoroso impianto strutturale. Sulle fonti non tradizionali della Divina Commedia, rinvio alle mie precedenti note dedicate alle fonti islamiche ed ebraiche della Commedia.
Casalino Pierluigi 

Il Ponente ligure romano e il ruolo di Giulio Cesare nella Liguria Occidentale.


Quando l'esigenza di contenere popoli non domati venne meno (49 a.C.), subentrò un serio programma socio-economico e culturale. Lo sforzo principale fu quello di assimilare i Liguri occidentali, ed è quindi probabile che lo stanziamento di civili romani da queste parti sia diventato un fatto consistente e incoraggiato dal potere centrale proprio a partire dal 49 a.C.: è noto che scambi costruttivi avvengono meglio con elementi stanziali, quali civili immigrati, che non con individui fluttuanti come i militari. In tal modo si agevolò la diffusione di civili ad elevata romanizzazione in parecchie aree della Liguria di Ponente. La presenza di militari non diminuì mai, ma acquisì un significato diverso per una popolazione indigena, che ormai vedeva lavorare pacificamente antiche proprietà agresti da civili Romani ed Italici, con i quali era più praticabile un rapporto di collaborazione. I fondi stessi, oltre tale funzione acculturante, continuarono a svolgere una funzione strategica di controllo dell'area di Costa Beleni, anzi integravano quella delle rocche militari della Torre dell'Arma e di Campomarzio, che rimasero attive, pur essendovi stati probabilmente ridimensionati i contingenti.In tale ottica era significativa la funzione del fondo Porciano, strutturato secondo alcuni su 2 aree divise dal Tabia Fluvius : quella relativa all'odierna S. Stefano era forse meno vasta ed importante di quella compresa tra l'Armea e l'Argentina, e successivamente nota come "domocolta" di Pozana o Porzana. Fu però il fondo Matutianus ad esercitare verso ponente una operazione di osmosi tra territorio ingauno, cui apparteneva, e quello intemelio; i fondi Pompeianus e Coelianus, disposti all'interno, ad est ed ovest del Tabia , completavano la funzione degli altri nuclei agricoli, integrandoli con la pressione acculturante messa in atto sui "Montani".Nel circondario di Costa Beleni, tra territorio ingauno ed intemelio, si era costituito un ambiente ad elevato tasso di romanizzazione: da un lato era così salvaguardato il controllo su un'area tattica, dall'altro risultava accelerata la civilizzazione di genti notoriamente infide e ribelli, quali gli Intemeli e i Montani.A proposito della maggior parte dei fondi agricoli si è sempre lamentata la scarsezza dei ritrovamenti archeologici, e questo fatto ha maturato delle perplessità sulla loro esistenza, anche perchè nei loro riguardi si è mediamente usata la medievale denominazione di villae.In particolare per Pompeiana la mancanza di tracce d'edilizia romana sembra contraddire l'eventualità ch vi fosse ubicata una villa secondo i caratteri dell'edilizia, ancor poco chiara in verità di simili edifici -aziende: anche se lo studio di una fotografia aerea permette di identificare la peculiarità del sito, spazioso, vicino al mare ed alle sorgenti, parimenti prossimo alle vie di comunicazione e ad un centro di sufficiente importanza come Costa Balena- Beleni, una di quelle peculiarità che da Catone a Columella si ritennero fondamentali per la scelta di un terreno su cui impiantare un'azienda agricola anche di tipo residenziale del ceppo padronale.Pompeiana, come i centri vicini prescindendo dalle attuali lacune di documentazione archeologia, doveva quindi esser stata un "praedium" , cioè un "fundus rusticus" , il cui centro residenziale era la "villa rustica" , ben diversa dalle "villae urbanae" , che, come quelle di Cicerone a Formia e di Plinio il Giovane a Laurento, avevano così splendida conformazione architettonica da poterne vedere tuttora i grandiosi resti.La struttura della "villa rustica" , delineatasi in modo definitivo solo dal I sec. a.C., rispondeva ad esigenze pratiche, essendo destinata alla residenza della "familia rustica" , cioè l'insieme di quanti svolgevano i lavori agrico-pastorali ed a capo dei quali era il "villicus" .Di tali "villae" i ritrovamenti archeologici sono poco evidenti: i contadini abitavano capanne di una sola stanza, che quasi mai si evolsero in struttura più complesse .E' possibile che presto gli antichi proprietari o i loro eredi si fossero trasferiti (agli inizi I sec. d.C.) nei centri della costa ove l'esistenza era più confortevole: Catone, prodigo di consigli per gli agricoltori, invitò i titolari di poderi agricoli di amministrarli attraverso l'opera di un villicus fidato, una sorta di servo amministratore e sovraintendente.
L'argomento è forse irrisolvibile alla luce delle attuali conoscenze; peraltro esistono dei problemi non da poco connessi alla toponomastica dei fondi (specie per il Porcianus, che a seconda delle interpretazioni si può giudicare più o meno esteso di quanto fosse in realtà). A proposito del fundus Pompeianus si può comunque pensare che i suoi assegnatari si fossero trasferiti nei centri di Costa Beleni se non di Albingaunum ed Albintimilium già alla fine del I sec. a.C.: in questa seconda città, in virtù delle epigrafi recuperate dalla necropoli romana, abbiamo testimonianza di nomi di individui della gens Pompeia.La tradizione attribuisce a Pompeo Magno la fondazione della villa, ma si tratta di leggenda senza prove concrete. Pompeo avrebbe infatti dovuto attuare questo progetto agli inizi del 71 a.C., mentre procedeva dalla Spagna, dove aveva sconfitto Sertorio, contro l'esercito servile di Spartaco, ribelle a Roma e incalzato dall'armata di Crasso. L'intervento di Pompeo, come quello di Crasso, venne ordinato tramite un senatus consultum ultinum: la gravità della situazione richiedeva un' azione rapida, senza dispersione di uomini, tantomeno in una regione non ancora coinvolta dalla sommossa servile come la Liguria.In linea teorica Pompeiana avrebbe potuto prendere corpo e nome da Pompeo Strabone, padre del precedente: fu questi che avviò le trasformazioni della Gallia Cisalpina, attraverso la concessione dello Jus Latii e d'altri benefici. In Piemonte le città di Alba Pompeia e Laus Pompeia presero il nome proprio da questo benefattore; si trattava, però , di località di importanza strategica, commerciale e demografica. Pompeiana antica presentava invece il suffisso -ana o -anus , sempre in funzione attributiva del termine villa o locus : per quanto si ricava dai più antichi documenti disponibili. Tali suffissi sono esclusivi di toponimi prediali, servivano cioè a nominare, dalla gente o famiglia proprietaria, poderi agricoli, anche vasti ma sempre indegni di essere nominati da qualche illustre personaggio pubblico. In ultima analisi sarebbe più accettabile se Costa Beleni , centro di un certo rilievo, fosse stato nominato Costa Pompeia per celebrare tale glorioso generale di Roma. Non si trascuri, altresì, il fatto che, se si ammettesse per Pompeiana un tale famoso.fondatore, non si giustificherebbero i toponimi abbastanza anonimi delle altre ville, a meno che per l'eventuale Villa di Ceriana, con molta fantasia, non si supponga un intervento di M. Celio Rufo, corrispondente di Cicerone; tenendo poi conto che i toponimi si originarono simultaneamente, si dovrebbe ipotizzare che parecchie celebrità di Roma, quasi nello stesso tempo, si fossero adoperate per popolare il territorio del Tabia con ville di proprietà, gestite da loro seguaci: evento che pare difficile da accettare visto pure il ruolo ancora marginale che la Liguria aveva nel giudizio dei Romani.
La villa Pompeiana (o fundus Pompeianus ) non ebbe alcun illustre fondatore; l'identificazione di questo con Pompeo Magno o Strabone avvenne in quanto di frequente gli studiosi del passato per spiegare un toponimo ricorrevano ad un eponimo (cioè ad un fondatore che avrebbe dato il suo nome al luogo) quasi sempre illustre, ricavato sulla scia delle favole e della mitologia, come nel caso di Romolo per Roma o, più modestamente, dell'eroe antiromano Intemelio per Ventimiglia. Pare più credibile, invece, che il fondo Pompeiano, con i limitrofi, sia stato costituito nel corso od alla fine della contesa tra Cesare e Pompeo; il primo in particolare godette di appoggi in Liguria e nella Cisalpina, dove reclutò armati e largheggiò nella concessione della cittadinanza romana.Tuttavia in queste zone non gli mancarono focolai di opposizione pompeiana, e questo si verificò proprio nella delicata area intemelia, prossima a Costa Beleni ed all'insicura Gallia Transalpina.Anche per questo Cesare, mentre da un lato con la Lex Julia municipalis sanciva le strutture amministrative dei centri maggiori, dall'altro proponeva distribuzioni di terre ai suoi veterani, specie con prole numerosa.In cambio della concessione della cittadinanza romana gli sarebbe stato semplice confiscare territori agli Ingauni per poi distribuirli ai suoi legionari, che, divenuti agricoltori, avrebbero popolato le zone rurali presso Costa Beleni ed avrebbero svolto a suo vantaggio la citata funzione strategica, economica ed acculturante: ed in tal caso la realizzazione dei fondi rustici sarebbe da datare entro un periodo compreso tra il 46 e il 44 avanti Cristo. Una certa complessità di queste riflessioni, la celerità degli avvenimenti che coinvolsero Cesare, il poco tempo che avrebbe comunque avuto per occuparsi della realtà socio-economica del Ponente di Liguria, rendono l'ipotesi, per quanto suggestiva e credibile, non sufficientemente fondata.
Casalino Pierluigi