Al “poema sacro – al quale ha posto mano e cielo e terra” ha collaborato la matematica. Nel lessico lirico di Dante i numeri compenetrano il dettato poetico. A partire da Beatrice e dal numero nove.
La scelta del nove per Beatrice riveste un significato teologico. Nove è il quadrato di tre che è simbolo della Trinità. Grazie al nove il legame fra Beatrice e Cristo, figlio di Dio, a lui unito con lo Spirito Santo, è verificato da Dante nella propria esistenza. Dante dice il numero nove “amico” di Beatrice. Il primo incontro con lei avviene a nove anni. Il secondo nove anni dopo. Il nove coincide col giorno della morte di lei secondo i calendari occidentale e arabo. Una possibile ragione di tali coincidenze è che “questo numero fue amico di lei per dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s’aveano insieme.” Ma – Dante prosegue – “più sottilmente pensando [..] questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così”: “Lo numero del tre è la radice del nove, però che sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per sè medesimo del nove, e lo fattore per sè medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade.”
Vita nova, XXIX, 3. L’amore per Beatrice è amore vissuto grazie alla creazione divina del numero. Creazione che mediante la matematica suggerisce all’essere umano di sublimare l’amore terreno nell’indiarsi. Tramite Beatrice fra matematica e poesia c’è un continuo innamoramento. Entrambe sono in simbiosi con l’assoluto. Esiste un rapporto di identità fra Dio e il numero. Dio è il numero. L’Uno, che crea con la parola: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: ‘Sia la luce!’. E la luce fu.”(Genesi, 1-3).
Dio, l’Uno, è anche il Verbo:
“Verbum caro factum est” (Giovanni, I, 14). Fra lettere alfabetiche e numeri c’è un’arcana corrispondenza. Nella tradizione numerologica di ascendenza biblica dalla gematria (alfabeto ebraico) e dalla isopsefia (alfabeto greco) si passa all’aritmomanzia (alfabeto latino).
Un noto esempio di aritmomanzia in Dante: verrà un tempo “nel quale un cinquecento diece e cinque, – messo di Dio, anciderà la fuia – con quel gigante che con lei delinque” (Purgatorio, XXXIII, 42-45). L’aquila, simbolo del potere imperiale, ha lasciato le penne sul carro della Chiesa. Questa è divenuta un mostro. Vicino è il tempo in cui un 515, alla latina un DXV, traslitterato in DVX, ucciderà la meretrice e il gigante suo complice nel delitto.La meretrice è la Chiesa corrotta. Il gigante suo complice può essere il re di Francia. Il dux sarebbe l’imperatore Arrigo VII. Con l’identità del gigante e del dux si sono cimentate generazioni di dantisti. Ma l’enigmatica profezia è restata finora indecifrata.Dante avrà tenuto presente l’Apocalisse (XIII, 18), “dove col numero 666 è designato Nerone, per la ragione che si ha 666, se si scrive in lettere ebraiche Neron Cesar e si sommano i numeri rappresentati da queste lettere”.Con ciò siamo ancora nel campo della numerologia. C’è chi esaspera la numerologia in crittografia.La crittografia di Thomas E. Hart parte dalla numerologia. Numerologicamente la Commedia è meditazione trinitaria. Il Tre riconduce all’Uno. I canti sono in terzine. La terzina finale di ciascun canto è seguita da un ultimo verso. Il numero di canti di ciascuna cantica è trentatré più uno per l’Inferno, trentatré per il Purgatorio, trentatré per il Paradiso. Novantanove più uno. Dante preventivò matematicamente l’estensione del poema. Lo ribadisce con una delle sue apostrofi al lettore:
“S’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere i’ pur cantere’ in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio,
ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren dell’arte”
Purgatorio, XXXIII, 136-141
Fin qui la strutturazione matematica nei suoi elementi numerologici è di comune dominio. Hart comincia col riconoscere che Dante nel comporre si atteneva a ben definiti principii. Omologia, proporzionalità, funzionamento di omologia e proporzionalità in diversi contesti, precisione, consistenza. Su questo siamo d’accordo. In questa ricerca però Hart eccede. Ipotizza un imperativo estetico per noi aleatorio. Ritiene che Dante con l’intera struttura del poema intendesse approssimarsi al valore di π. Per dimostrare la sua tesi, Hart prende in esame un’unità tematica. Gli ultimi ventidue versi del Paradiso.
Sette terzine per tre più uno (verso finale al culmine dell’intera opera). A suo parere, quest’unità tematica sarebbe stata composta ancor prima del primo verso dell’Inferno. Successivamente Dante l’avrebbe replicata nell’opera intera. Strutturata crittograficamente. Struttura quantitativa definita da Hart “sintassi disposizionale dell’architettura del poema”. Struttura a mosaico che sarebbe stata suggerita al sommo poeta dai mosaici di Ravenna. Tuttavia la suggestione dei mosaici ravennati resta una mera congettura. Hart sa bene che la sua ipotesi, benché esposta insieme con una serie di tavole numeriche elaborate nell’arco di diversi anni, lascia perplessi molti dantisti:“Many Dantisti, accustomed to a more ‘trivial’, less ‘quadrivial’ post-Romantic aestetichs, will probably not find them immediately congenial, and may therefore have difficulty understanding why Dante would believe they contribute essentially to the beauty of his poem?”
Dopo di che Hart sfida a dimostrare il contrario.Sennonché non può sfuggirci l’arbitrarietà del principio. Tuttavia bisogna guardarsi dal “rischio, proprio della logica separata di ogni ricerca strutturalmente formalistica, di trovare nel suo stesso espletarsi la ragion d’essere e di privilegiare la superfetazione dei dati”.
Non v’è dubbio che Dante nel comporre il poema ricorse al quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia) oltre che al trivio (grammatica, dialettica, retorica). Però il dinamismo compositivo non si concilia con uno schema geometrico predefinito fino all’esasperazione. Si segnala che il dibattito su Hart dopo diversi decenni è ancora in corso. Si sono interessati della questione matematici come Franco Conti (1943-2003) e Edoardo Vesentini (1928-2020), già Presidente dell’Accademia dei Lincei. Vesentini ritiene plausibile che Dante conoscesse la Costante di Archimede. Per Conti l’ipotesi di Hart “è tutta da dimostrare, ma non è così campata in aria”.Il dantista Ignazio Baldelli, professore all’Università “La Sapienza” di Roma, non esclude, ma nemmeno avalla, che Dante abbia tenuto presente Archimede. Non si comprende allora perché Archimede non sia citato nella Commedia. Avrebbe potuto esserlo fra tanti altri dotti del Limbo: "Euclide geomètra e Tolomeo,Ipocràte, Avicenna e Galieno, Averoìs, che il gran comento feo". (Inferno, IV, 142-144). Le ricerche crittografiche di Manfred Hardt sottolineano il valore del numero nel Medioevo. Valore simbolico, ontologico, estetico, anagogico. Il numero è verità incorruttibile. Il numero è sacro. Mediante i numeri, segni di Dio nel creato, si stabilisce la relazione di Dio con l’artista, che quei segni riconosce ed interpreta. Anche secondo Hardt Dante elaborò in anticipo la struttura della Commedia come un’architettura di corrispondenze numeriche. Potremmo definirla una cattedrale matematica. Vi sarebbe un “secondo sistema segnico” criptato. Un sistema numerico. Il calcolo avrebbe preceduto la scrittura. Hardt, al pari di Hart, a supporto della sua tesi fornisce una serie di tavole numeriche elaborate nel corso di lunghi anni. Hardt, al pari di Hart, persuade solo fino a un certo punto. Ipotizza che Dante abbia proiettato talune corrispondenze numeriche oltre la fine dell’opera. Ciò dimostra che vuol costringere a forza il testo entro il suo schema pregiudiziale.
L’assurdità dell’ipotesi è dimostrata da una incredibile forzatura.
Dante indica per tre volte un futuro liberatore con diversi appellativi: il Veltro (Inferno, I, 101), un DVX = 515 (Purgatorio, XXXIII, 43), un novenne (Paradiso, XVII, 80). Dante, secondo Hardt, nel Veltro, nel DVX, nel novenne identificherebbe se stesso. Inoltre Cacciaguida col 515 si riferisce a una personalità che quell’anno compie nove anni. Dante colloca la sua avventura nell’aldilà “nel mezzo del cammin di nostra vita”. A trentacinque anni. Il matematico Giuseppe Palamà cita in proposito una terzina:
Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
Inferno, XXI, 112-114
“ove alla base vi è […] il seguente calcoletto: 33 anni e 3 mesi + 9 mesi + 1266 anni = 1300 anni,
in cui 33 anni e 3 mesi è l’età che, come si credette nel Medio Evo, Gesù ebbe nel momento della sua morte, 9 sono i mesi intercorsi fra la sua concezione e la nascita ed il risultato 1300 è l’anno nel quale […] Dante iniziò il suo viaggio […]”
Sul segreto nascosto
Nel poema è presente la numerologia. Ma immaginare un segreto crittografico nascosto nella Commedia contrasta con lo scopo che Dante si era proposto:
“removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis”
(Epistola a Cangrande della Scala)
Scopo che un significato destinato a restare recondito avrebbe reso vano. Tant’è vero che in alcune apostrofi del poema, Dante incita i suoi lettori provvisti di adatta dottrina ad uno sforzo di comprensione:
"O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani". (Inferno, IX, 61-63)
"Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al vero,
che ‘l velo ora è ben tanto sottile,
certo che ‘l trapassar dentro è leggero. (Purgatorio, VIII, 19-21)"
Che un autore esorti i lettori a non continuare la lettura della sua opera è fatto singolare.
Ma è proprio quello che a un certo punto Dante fa. I lettori più sprovveduti dovranno restare alle soglie del Paradiso. Solo i pochi nutriti di adeguato sapere potranno addentrarvisi col poeta:
"Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale. (Paradiso, II, 10-15)". Ciò sembra contraddire il proposito di condurre tutti i viventi dalla “miseria” alla “felicità”.
Ma contraddizione non v’è. Chi non ha un sapere adeguato ha comunque percorso col poeta nella seconda cantica il regno della purificazione. Per questo diverrà più desideroso di accedere dal Purgatorio al Paradiso. La necessaria lezione etico-religiosa per meritare la grazia divina gli è stata impartita. In più gli è stato fornito uno stimolo ad accrescere il suo sapere. Accresciutolo, potrà addentrarsi nell’ultima cantica.Volendo ammettere per assurdo che un segreto crittografico si celi nel poema, esso resterebbe ininfluente. Né a Dante poteva sfuggire la superfluità di un segreto del genere. La presenza della matematica nella Commedia è una presenza trasparente. L’Uno (Dio), il Tre (Trinità) e il Tre (virtù teologali), il Quattro (virtù cardinali), il Sette (peccati capitali), il Nove (quadrato del Tre), il Dodici (apostoli), il Ventiquattro (spiriti sapienti) sono per i lettori l’aritmetica spirituale che li orienta esaustivamente verso la salvezza. Tecnica compositiva di Dante
Alla luce del rapporto fra matematica e poesia, numero e parola, una lettura del poema quale fu quella di Benedetto Croce si rivela aberrante. Il filosofo scindeva arbitrariamente struttura e poesia. Riduceva la tecnica poetica di Dante a un’intermittente intuizione-espressione. Il dinamismo dell’intera opera nel suo farsi veniva ignorato. Così l’ininterrotta tensione che tiene avvinto il lettore, quella che Mario Luzi definisce energia incoativa, restava inavvertita. Non solo. Nella riduttiva visione crociana Dante veniva sradicato di fatto dal suo Medioevo.
Il sociologo Lucien Goldmann col suo strutturalismo genetico contribuisce a suggerire una corretta lettura. Dobbiamo accostarci a Dante uomo del suo tempo, esponente della civiltà medioevale, di quel dato tipo di società. In questa prospettiva l’apporto dei matematici alla critica letteraria è fondamentale. L’andamento compositivo di Dante si basa sul calcolo matematico. Senza illuminare questo calcolo, non si può comprendere nemmeno la musicalità della Commedia:
“Per che sapere si conviene che ‘rima’ si può doppiamente considerare, cioè largamente e strettamente: stretta[mente], s’intende pur per quella concordanza che ne l’ultima e penultima sillaba far si suole; quando largamente, s’intende per tutto quel parlare che ‘n numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade…” (Convivio, IV, II, 12). L’ascesa alla trascendenza è un’ascesa numerologica.
Alla fine l’itinerarium mentis in Deum, concepito da Bonaventura di Bagnoregio sulla scorta di Agostino di Ippona, si risolve per Dante nell’Uno, principio primo, generatore della scienza dei numeri.
È indubbio che nella composizione del poema il ricorso alle arti del quadrivio sia stato fondamentale. Tuttavia la qualità semantica dei versi non è compatibile con una loro collocazione forzata all’interno di una struttura elaborata del tutto a priori. Bisogna immaginare che la struttura sia stata elaborata in parte a priori e in parte in itinere. E che i calcoli siano stati effettuati nella maniera più semplice possibile. Addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione per l’aritmetica. Linee retta e curva, triangolo, quadrato, rettangolo, cerchio per la geometria. Questi in ipotesi gli strumenti adoperati. Con i numeri di base della tradizione numerologica Dante poteva procedere nel comporre calcolando liberamente di volta in volta. Così nel suo imperativo estetico potevano conciliarsi dinamicamente quantità (struttura) e qualità (poesia). Non separate e scisse, ma sinergicamente operanti. Dante definisce la poesia “fictio rethorica musicaque poita” (De vulgari eloquentia, II IV 3).
Matematicamente si supera la confusione babelica: la lingua volgare “più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime” (Convivio, I XIII 6). Alla bellezza poetica concorre “lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici” (Convivio, II XI 9). Sintassi verbale e sintassi matematica si compenetrano.
Non è male riconoscere “la complessa struttura razionale e matematica dell’Arte della fuga di Bach nel poema”. Horia-Roman Patapievici è perentorio nell’affermare che “la lettura del poema dantesco” va effettuata “attraverso il preciso sguardo e la specifica valutazione quantitativa dei matematici e mediante gli strumenti di analisi spaziale dello studioso di geometria”. Non a caso sono dei matematici come Mark Peterson e Robert Osserman a sostenere che l’universo di Dante “non è euclideo”, ma “è precisamente un’ipersfera”. Circa la matematica in poesia
In diversi passi del poema Dante ricorre a similitudini tratte dalle discipline del quadrivio. Tradizionalmente i dantisti di area umanistica hanno rivolto l’attenzione alle sole discipline del trivio. Ma la genesi della Commedia non può essere compresa se non si tiene conto del quadrivio.
Uno dei passi da considerare è il seguente:
“Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara” (Purgatorio, VI, 1-3). “Zara” deriva forse dall’arabo zahr, “dado”. I due termini risuonano in “azzardo”. Nel Medioevo questo gioco era molto popolare. Si gettavano a turno tre dadi. Restando celati i numeri sottostanti, bisognava indovinare e dire la loro somma. Questa era nell’intervallo fra 3 e 18. Dante ne trae spunto per una movimentata scena. Gli spiriti negligenti gli si affollano intorno. A lui, che ritornerà sulla Terra, chiedono preghiere di suffragio dei vivi, per ridurre il tempo della loro permanenza nell’Antipurgatorio. Il tumultuoso affollarsi, simile a quello che incalzava il vincitore nel suo allontanarsi, risalta nel contrasto con la figura isolata di “colui che perde” della terzina iniziale.Lo sconfitto si trova alle prese col calcolo delle probabilità.
L’intesa è sempre più intensa fra matematica e poesia
È nel Paradiso che l’intesa fra matematica e poesia diventa sempre più intensa. Non c’è da stupirsene. Ci si va avvicinando all’Uno.L’ascesa di Beatrice e Dante al cielo avviene nella stagione primaverile, la più propizia, quando il sole sorge da quel punto “che quattro cerchi giugne con tre croci”. Zodiaco, equatore, coluro equinoziale, orizzonte sono i quattro cerchi (virtù cardinali); i primi tre, intersecandosi con l’orizzonte, formano le tre croci (virtù teologali) (Paradiso, 37-42). Il Paradiso è il regno del cerchio, perché “lo cerchio è perfettissima figura” (Convivio, II, XIII, 26-27).Nel Cielo del Sole Dante con Beatrice vede più splendori “far di noi centro e di sé far corona”, ove corona equivale a circonferenza (Paradiso, X, 64-66). Sono dodici spiriti sapienti in forma di “ardenti soli” (verso 76), che girano per tre volte intorno a Dante e Beatrice (verso 77). Poi San Tommaso d’Aquino presenta se stesso e gli altri spiriti. Fra questi l’ottavo è Boezio, autore, oltre che del De consolatione philosophiae, anche del De institutione aritmetica, “anima santa” che rende manifesto il “mondo fallace” (versi 121-129). Come un orologio dal tintinnio così dolce che innamora, la corona di spiriti sapienti, detta ora “gloriosa rota”, si muove circolarmente, cantando in coro con una dolcezza che dà eterna gioia (Paradiso, X, 139-148). Gli spiriti sapienti riprendono a girare, fermandosi quando ciascuno è tornato nel “punto del cerchio in che avanti s’era” (Paradiso, XI, 13-15).
San Tommaso ha concluso il suo discorso. Il moto circolare riprende. Prima ancora che sia concluso, la circonferenza viene racchiusa in un’altra che si accorda al suo movimento e al suo canto celestiale. Canto che supera tanto in armonia la musica terrena quanto il raggio incidente è più splendente del raggio riflesso. Le due circonferenze di spiriti sapienti sono simili a “due archi paralleli e concolori” dell’arcobaleno, che fa presagire il mai più ripetersi del diluvio universale (Paradiso, XII, 1-21).
Una delle “luci nove” della nuova circonferenza di altri dodici spiriti sapienti, San Bonaventura da Bagnoregio, parla a Dante, che a quelle parole si volge così repentinamente come l’ago calamitato della bussola verso il nord magnetico (Paradiso, XII, 28-30).
Dopo che San Bonaventura ha concluso il suo discorso, le due circonferenze si volgono in giro l’una in senso opposto all’altra. Dante esorta il lettore a immaginare che così girino ventiquattro stelle, sette dell’Orsa maggiore, due dell’Orsa minore e altre quindici, disposte in modo da formare due costellazioni concentriche di dodici e dodici ciascuna. Il canto degli spiriti sapienti è un inno alla Trinità (Paradiso, XIII, 1-27).
San Tommaso risolve il secondo di due dubbi di Dante.
Gli spiega che Salomone fu il più sapiente fra gli uomini, ma rispetto al sapere di Adamo e di Cristo non fu il più sapiente. Non chiese di sapere di teologia, di dialettica, di filosofia naturale, di geometria. Chiese soltanto quel sapere necessario ai re per ben governare.
Nel passo seguente notiamo in particolare i versi 101-102, dove si dice della sapienza del geometra, capace di “chiarire, se in un semicerchio, preso il diametro come lato, si possa iscrivere un triangolo che non abbia un angolo retto” (Scartazzini-Vandelli):
"Non ho parlato sì, che tu non posse
ben veder ch’el fu re, che chiese senno
acciò che re sufficïente fosse;
non per sapere il numero in che enno
li motor di qua sù, o se necesse
con contingente mai necesse fenno;
non si est dare primum motum esse,
o se del mezzo cerchio far si puote
trïangol sì ch’un retto non avesse". (Paradiso, XIII, 94-102). Gli spiriti delle due corone cantano per tre volte la Trinità con una melodia che ricompenserebbe giustamente ogni merito:
Quell’ uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive,
tre volte era cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,
ch’ad ogne merto saria giusto muno. (Paradiso, XIV, 28-33). Simile a stelle apparse di prima sera, non chiaramente distinte, sopraggiunge una terza corona di spiriti che circoscrive le altre due (Paradiso, XIV, 70-75). Siamo ora nel Cielo di Marte. Simile alla Via Lattea, sulla cui natura sono incerti i più dotti, appare a Dante una croce greca (nella quale lampeggia Cristo), formata dalle linee lungo le quali si congiungono i quadranti (quattro quarti), cioè due diametri che si intersecano nel centro ad angolo retto, sicché i quattro bracci della croce sono i raggi del cerchio: "come distinta da minori e maggi lumi biancheggia tra ‘ poli del mondo Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi; sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo". (Paradiso, XIV, 97-102). Il trisavolo Cacciaguida legge nel pensiero di Dante: questi crede che il suo pensiero sia letto dall’antenato in Dio, “quel ch’è primo”, così come “dall’un” derivano “il cinque e ‘l sei” (Paradiso, XV, 55-57).
Desideroso di conoscere la sua futura sorte, Dante chiede di svelargliela a Cacciaguida, che la vede in Dio con evidenza assoluta, “come veggion le terren menti – non capere in trïangol due ottusi” (Paradiso, XVII, 13-27). Nel Cielo di Giove
Siamo nel Cielo di Giove. Le anime beate formano delle lettere cantando e poi si fermano, affinché Dante se le imprima nella mente: Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
‘DILIGITE IUSTITIAM‘, primai
fur verbo e nome di tutto ‘l dipinto;
‘QUI IUDICATIS TERRAM‘, fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto.
(Paradiso, XVIII, 88-96). Nel Cielo Nono o Primo Mobile
Siamo nel Cielo Nono o Primo Mobile. Beatrice spiega a Dante che il Primo Mobile cinge tutti gli altri ed è cinto a sua volta dall’Empireo, ove è Dio che è il solo a comprenderlo. Il Primo Mobile imprime il suo moto a tutti gli altri cieli con misura così precisa come quella del prodotto 2 x 5 = 10: Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che ‘l cinge solamente intende.
Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto; (Paradiso, XXVII).Dante riesce a far avventurare il lettore verso l’infinito. Vede rispecchiarsi nei “belli occhi” di Beatrice, definita “quella che ‘mparadisa la mia mente”, l’immagine di un punto, e si volge per sincerarsi della realtà dell’immagine riflessa nel cielo che continua il suo giro. Il punto “per sua indivisibilitate è immensurabile” (Convivio, II, XIII, 27). Quel punto, luminoso al punto di abbagliare lo sguardo, costringendo a chiudere gli occhi, è Dio. La stella che sulla terra appare più piccola apparirebbe grande come la luna, se posta accanto a quel punto:
E com’ io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s’adocchi,
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ‘l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca. (Paradiso, XVIII, 13-21)
I cerchi di fuoco delle nove gerarchie angeliche (Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini) girano intorno a quel punto tanto più velocemente e tanto più splendenti quanto più sono ad esso vicini.
"Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che ‘l dipigne
quando ‘l vapor che ‘l porta più è spesso,
distante intorno al punto un cerchio d’igne
si girava sì ratto, ch’avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne;
e questo era d’un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e ‘l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che ‘l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.
Così l’ottavo e ‘l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch’era
in numero distante più da l’uno;
e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s’invera. (Paradiso, XXVIII, 22-39)
Beatrice spiega a Dante che il moto dei cieli angelici è più o meno veloce in ragione della virtù e non della materiale estensione di ciascuno. Dopo di che i cerchi sfavillano come ferro arroventato e incandescente. Le scintille sono intelligenze angeliche che continuano a ruotare nei rispettivi cerchi ardenti. Il loro numero è impossibile da calcolare. Si allontana all’infinito. Il neologismo dantesco “inmillarsi”
Dante si richiama a una tradizione religiosa dall’Apocalisse a Tommaso d’Aquino, che diceva innumerevoli gli angeli. Sollecita perciò il lettore a concentrarsi in un calcolo mentale. Pensare al “doppiar de li scacchi”. Avvertire l’enormità di quel numero. Inoltrarsi e smarrirsi nello sterminato territorio metafisico della progressione geometrica: "E poi che le parole sue restaro, non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.
L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ‘l numero loro
più che ‘l doppiar de li scacchi s’inmilla. (Paradiso, XXVIII, 88-93)
Dante ha coniato il verbo “s’inmilla” nel senso di “si inoltra nelle mani.
Il “doppiar de li scacchi” vuol significare “la somma dei primi 64 termini della progressione geometrica dei doppi a cominciare dall’unità”.
Nei commenti è ricordata la leggenda di Sissa Nassir, inventore del gioco degli scacchi.
Per la sua invenzione si attendeva dal re di Persia una ricompensa pari appunto al “doppiar de li scacchi”.
Impossibilitato a soddisfare l’esorbitante richiesta, il re tagliò corto. Lo fece decapitare.
Beatrice illustra a Dante la creazione degli angeli e la sedizione degli angeli ribelli, che avvenne in meno tempo di quel che si impieghi per numerare dall’uno al venti:
Né giugneriesi, numerando, al venti
sì tosto, come de li angeli parte
turbò il suggetto d’i vostri alimenti.(Paradiso, XXIX, 49-51)
Il numero degli angeli è così grande che l’essere umano non sa concepirlo.
Nel numerarli, il loro numero continua a restare incalcolabile, come rivela il profeta Daniele:
Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ‘n sue migliaia
determinato numero si cela. (Paradiso, XXIX, 130-135)
Il verso “determinato numero si cela” va inteso nel senso che un numero determinato è destinato a restare per sempre nascosto.
Il mistero della Trinità nell’Empireo
Nell’Empireo la luce divina forma un cerchio la cui circonferenza è infinitamente maggiore di quella del sole:
E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.(Paradiso, XXX, 103-105)
Dante giunge a contemplare il mistero della Trinità:
“Nella profonda e chiara sussistenza
dell’alto lume parvemi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un dall’altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quindi e quindi igualmente si spiri”. (Paradiso, XXXIII, 115-120)
La similitudine del geometra
È la similitudine più citata. Dante volge lo sguardo alla “luce eterna”:
“Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
dagli occhi miei alquanto circumspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta della nostra effige;
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ‘l geometra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder volea come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
Ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne”. (Paradiso, XXXIII, 127-141). Il verbo “misurar” (verso 134) ci fa venire in mente il De mensura circuli di Archimede. Dante, benché non vi sia prova che conoscesse proprio quell’opera. argomenta che il cerchio è impossibile a “misurare” perché impossibile a “quadrare”: “La Geometria si muove intra due repugnanti a essa, sì come ‘l punto e lo cerchio – e dico ‘cerchio’ largamente ogni ritondo, o corpo o superficie -; chè, sì come dice Euclide, lo punto è principio di quella, e, secondo che dice, lo cerchio è perfettissima figura in quella, che conviene però avere ragione di fine. Sì che tra ‘l punto e lo cerchio sì come tra principio e fine si muove la Geometria, e questi due a la sua certezza repugnano; che lo punto per la sua indivisibilità è immensurabile, e lo cerchio per lo suo arco è impossibile a quadrare perfettamente, e però è impossibile a misurare a punto.” (Convivio, II, XIII, 26-27). E altrove Dante usa il solo termine “quadratura”: “Geometria circuli quadraturam ignorat: non tamen de ipsa litigat” (Monarchia, III, III, 2). Bruno D’Amore osserva in proposito:
“La cosa curiosa è che a nessun docente di Lettere della scuola superiore, e a nessuno studente in prossimità di maturità, venga in mente che, mentre nelle ore di Lettere si commentano questi versi in tal modo, nelle ore di Matematica il cerchio, dalla quinta elementare in poi, si sa quadrare, e come!”La cosa curiosa è che Bruno D’Amore dà per risolto con ogni precisione il problema.
Torniamo al geometra dantesco, che non ritrova il principio della misura del cerchio. Trovarlo con riga e compasso è impossibile. Il prefisso ri- di “ritrova” indica il ritornare più e più volte alla ricerca di quel principio. Il verbo “indige” suggerisce lo scoramento per esserne privo. Raffigura la frustrazione per tale mancanza. Sentiamo che nessun poeta avrebbe potuto creare un’immagine più appropriata. Vi si nota una straordinaria capacità di immedesimarsi nell’estrema tensione intellettiva del geometra. E di suscitare nel lettore il senso di quel supremo sforzo razionale. Con “tal era io” Dante si dice simile al geometra per una analoga impossibilità. È di fronte al mistero trinitario. Non riesce a vedere in qual modo l’immagine di Cristo si unisca col cerchio e vi trovi il suo luogo, cioè “come possono formare un tutto l’umana natura, finita, e la divina, infinita, in Cristo” (Scartazzini-Vandelli). Viene in mente l’uomo vitruviano.
In genere si trascura il nesso “Qual è ‘l geometra… – tal era io … ”. Ci si sofferma più sulla difficoltà del geometra che su quella di Dante. A ben riflettere, può venire in mente la seguente interpretazione. Dante non riesce a capire come la figura umana di Cristo si adatti alla circonferenza. Analogamente il geometra si chiede come i lati di un quadrato inscritto nel cerchio possano espandersi fino a coincidere con la curvatura della circonferenza. Il geometra non riuscirà nel suo intento. Dante ci riesce grazie all’illuminazione divina. Quindi Dante ha voluto contrapporre il “pensando” alla “mente … percossa da un fulgore”. È l’intuizione che gli consente ciò che il ragionamento non può. Differenza ben nota ai matematici, perché da loro vissuta. Dante, oltre che poeta teologo, è poeta della scienza. Vittorio Russo pone una domanda: “Perché la modernità non è stata in grado di esprimere un poeta della scienza come Dante?” Piero Boitani risponde che la modernità non ha elaborato le categorie mentali adatte. Categorie che nel Medioevo erano disponibili. Ereditate dal patrimonio scientifico dell’antichità classica. Patrimonio ripensato alla luce della teologia. Successivamente il rapporto fra teologia e scienza è andato divaricandosi. Tant’è vero che oggi c’è chi cerca di ricomporlo. Un percorso linguistico numerologico potrebbe essere ripreso grazie alla matematica. Scienza dei numeri, scienza regina. Scienza che regge il cosmo. Forse un nuovo poeta della scienza lo sarà un matematico. Senza la matematica, dunque, Dante non avrebbe potuto scrivere la Commedia.
Casalino Pierluigi