Tutti quelli che si occupano di Israele conoscono la “dichiarazione Balfour”, il primo riconoscimento moderno del diritto del popolo ebraico a costituire una “casa nazionale” (“national home”, cioè una patria) in Terra di Israele. Ma si trattava di una lettera, non di un trattato o di una deliberazione ufficiale, inviata il 2 novembre 1917, dunque in piena guerra mondiale, dal ministro degli esteri britannico A3rthur James Balfour al “dear Lord Rotschild”, cioè a Lionel Walter Rothschild che era in quel momento il più illustre rappresentante della comunità ebraica inglese, senza perlatro alcun incarico ufficiale. L’impegno politico del governo britannico ad assicurare agli ebrei il diritto a una patria, fu certamente fondamentale. Ma era una volontà politica, che poteva cambiare e dopo qualche anno effettivamente si ridimensionò molto, per l’interesse della Gran Bretagna a tenersi buoni gli arabi. Il momento effettivamente importante, sul piano giuridico, fu un altro: due anni e mezzo dopo, tra il 19 e il 26 aprile 1920 al Castello Devachan di Sanremo, si riunì il “Consiglio supremo di guerra alleato”, composto da Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia e Giappone, per decidere sulla sistemazione postbellica di quello che oggi si chiama “Medio Oriente” e allora “Levante”. Erano presenti i primi ministri di Francia, Inghilterra, Italia e gli ambasciatori dei paesi extraeuropei. Si decise di costituire tre mandati: Siria, Mesopotamia e Palestina. Quest’ultimo mandato era attribuito alla Gran Bretagna sulla base delle condizioni della Dichiarazione Balfour. E’ a Sanremo, insomma, che il diritto del popolo ebraico a costituire una patria venne ufficialmente deciso dalle potenze vincitrici della guerra, sulla base del Trattato di Versailles del 1919. Successivamente, il 24 luglio del 1922, la decisione di Sanremo divenne una delibera ufficiale della Società delle Nazioni (l’ONU di quegli anni). In esso si stabiliva fra l’altro che (art. 3) il Mandatario, cioè la Gran Bretagna “sarà responsabile di porre il paese in condizioni politiche, amministrative ed economiche tali da garantire l'istituzione della casa nazionale ebraica, come stabilito nel preambolo, e lo sviluppo di istituzioni di autogoverno, e anche per la salvaguardia della vita civile e religiosa diritti di tutti gli abitanti della Palestina, indipendentemente dalla razza e dalla religione.” Inoltre (Art. 4) “Un'agenzia ebraica appropriata saràr iconosciuta come ente pubblico allo scopo di cooperare [...] in questioni economiche, sociali e di altro tipo che possono influenzare l'istituzione della casa nazionale ebraica […] L'organizzazione sionista [...] sarà riconosciuta come tale agenzia. E ancora (Art. 6) “L'Amministrazione della Palestina, pur assicurando che i diritti e la posizione di altre sezioni della popolazione non siano pregiudicati, faciliterà l'immigrazione ebraica in condizioni adeguate e incoraggerà, in cooperazione con l'agenzia ebraica di cui all'articolo 4, l’insediamento da parte di Ebrei sulla terra, comprese le terre demaniali e le terre abbandonate non necessarie per scopi pubblici.” Insomma, le basi legali della costruzione dell’insediamento ebraico (Yishuv) e poi dello Stato di Israele, nascono da qui. Si tratta di principi che sono ripresi nello statuto delle Nazioni Unite (Carta di San Francisco) del 1945. Su questa base giuridica fu poi presa la delibera dell’assemblea generale del novembre 1947 che stabiliva la fine del mandato britannico e la divisione del suo territorio. Come è noto, l’organizzazione sionista accettò allora la divisione, ma gli arabi la rifiutarono e scesero in guerra per distruggere Israele. Ma la legittimità dello stato di Israele sui territori del Mandato Britannico nasce proprio dalla Conferenza di Sanremo e dagli Sviluppi successivi. Per questo, 101 anni dopo, questa è una ricorrenza che merita di essere ricordata e festeggiata. E per questa data Sanremo merita di essere ricordata.
Casalino Pierluigi
Il sionismo durante e dopo la prima guerra mondiale
Il testo di questo articolo, estratto dall'Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "Sionismo", risale a un periodo che va tra il 1936 e il 1938. E’ interessante leggere come questo argomento sia stato trattato in un tempo e sotto un regime in cui il filosionismo non era certamente molto diffuso. Il testo tra l'altro conferma, ancora una volta, che la nascita dello Stato ebraico non fu una conseguenza della Shoah.
Il risalto in colore è stato aggiunto.
Palestina degli anni '30
E' evidente che con questo nome s'intendeva
anche una zona a est del Giordano
Nel periodo della guerra mondiale l'attività sionistica pratica dovette naturalmente subire un arresto; d'altro canto si iniziarono quelle trattative col governo inglese che condussero prima (agosto 1917) alla formazione della Legione ebraica, che poi partecipò accanto alle milizie degli alleati a varie battaglie in Palestina, e quindi alla dichiarazione Balfour (2 novembre 1917), preparata da un'intensa attività esercitata specialmente da Hayyim Weizmann che aveva, durante la guerra, reso segnalati servigi all'Inghilterra, e dai suoi collaboratori. In tale dichiarazione Arthur James Balfour, ministro inglese degli Esteri, affermava che il governo inglese intendeva favorire la creazione e lo sviluppo in Palestina di una sede nazionale (national home, «focolare nazionale») per il popolo ebraico, salvi restando i diritti dei non Ebrei in Palestina e quelli degli Ebrei nei vari paesi. Dichiarazioni analoghe fecero in seguito gli altri governi alleati (l'Italia il 9 maggio 1918).
Prima ancora che la guerra finisse, una commissione sionistica, accompagnata da un rappresentante del governo inglese, si recava in Palestina per gli studi preliminari. Il 24 luglio dello stesso anno veniva posta la prima pietra dell' università ebraica sul Monte Scopo presso Gerusalemme.
Terminata la guerra, il sionismo agì attivamente per ottenere l'effettiva costituzione della sede nazionale ebraica. Il 24 aprile. 1920 il consiglio delle Potenze decideva, a Sanremo, che la dichiarazione Balfour fosse inclusa nel trattato di pace con la Turchia e che il mandato sulla Palestina venisse affidato all'Inghilterra. Il 1o luglio dello stesso anno veniva insediato, quale alto commissario della Palestina, sir Herbert Samuel, ebreo. Il trattato di Sèvres, stipulato con la Turchia il 10 agosto, comprendeva la clausola della sede nazionale ebraica.
L'elaborazione del testo del mandato fu lunga e difficile. Un movimento, condotto da capi arabi, tendeva a impedire che la sede nazionale venisse costituita: l'opposizione araba ebbe anche episodi di violenza.
II testo del mandato, approvato a Londra il 24 luglio 1922 dal Consiglio della Società delle nazioni, ripete il contenuto della dichiarazione Balfour; stabilisce, fra l'altro, per la potenza mandataria l'obbligo di mettere il paese in condizioni tali da assicurare l'adempimento delle clausole della dichiarazione stessa; costituisce una rappresentanza ebraica (Jewish Agency) riconosciuta come ente pubblico, per cooperare con l'amministrazione inglese della Palestina tutto quanto riguarda la creazione della sede nazionale ebraica, con l'obbligo all'amministrazione del paese di facilitare l'immigrazione ebraica, vigilando a che non sia recata offesa o danno alle altre parti della popolazione. La potenza mandataria deve assumere la responsabilità dei Luoghi Santi; come lingue ufficiali della Palestina vengono stabilite l'inglese, l'arabo e l'ebraico; come giorni di riposo per i membri delle varie comunità i giorni festivi di ciascuna di esse.
Il lavoro ebraico intanto proseguiva non senza gravi difficoltà nel campo politico e in quello pratico. Gl'immigrati, provenienti parte non piccola dalla borghesia e dalla classe intellettuale dell'Europa orientale, si adattarono mirabilmente alle esigenze della vita agricola e del lavoro materiale: le vecchie colonie erano in incremento e nuove se ne fondarono. Tra le regioni bonificate e colonizzate nei primi anni dopo la guerra è particolarmente notevole la vallata di Esdrelon. Il 1o aprile 1925 veniva inaugurata l'università ebraica sul Monte Scopo. Da segnalarsi è l'attività del Qeren ha-yesod (fondo di costruzione) istituito nel 1920 con lo scopo di raccogliere 25 milioni di sterline per mezzo di un'imposta straordinaria a cui veniva invitato ad assoggettarsi ogni singolo ebreo mediante prelevamento di un decimo del suo capitale o del suo reddito annuo. Nei primi quindici anni di vita, e cioè fino al giugno 1935, questa istituzione ha raccolto ed erogato oltre 5 milioni di sterline. In politica prevalsero le tendenze moderate e concilianti del Weizmann, il quale, mentre sosteneva il principio della necessità della collaborazione con l'elemento arabo, favoriva l'allargamento della Jewish Agency, nella quale entrarono anche elementi non sionisti in senso stretto, rappresentanti delle varie istituzioni della diaspora, sì da fare di quella come una rappresentanza generale del popolo ebraico; tendenze contrarie avevano, e hanno tuttora, i «revisionisti», capitanati da Vladimiro Jabotinski, i quali ritengono che solo con la prossima creazione di uno stato ebraico in Palestina si possa risolvere il problema ebraico, mentre i seguaci del Weizmann, detti «sionisti generali», pensano piuttosto a una collettività palestinese binazionale, ebraica e araba.
Allo sviluppo agricolo, segnato dalla fondazione di nuove colonie (alcune delle quali a sistema cooperativo) nelle varie parti della regione, e a quello urbano, rappresentato, oltreché dalla città di Téll Abib (Tel Aviv), popolata ora da oltre 100 mila abitanti (2000 nel 1914), dalla costruzione di nuovi quartieri ebraici a Gerusalemme e a Haifa (la quale ultima città è fornita di un ottimo porto, inaugurato nel 1933) si è aggiunto recentemente quello industriale, segnato particolarmente dall'attività della società elettrica Ruthenberg e di imprese per l'estrazione del potassio dal Mar Morto. La questione araba, sempre aperta, ebbe alcuni episodi sanguinosi, specialmente nel 1929, in cui parecchi centri ebraici furono improvvisamente assaliti dagli Arabi, contemporaneamente quasi alla prima riunione del consiglio della Jewish Agency. In seguito a tali avvenimenti, vennero inviate dal governo inglese delle commissioni per l'accertamento dei fatti. Alcune affermazioni contenute nelle relazioni, che sembravano dare interpretazioni assai restrittive alle clausole del mandato relative all'immigrazione ebraica, suscitarono malcontento e proteste da parte dei sionisti: il Weizmann, alla fine del XVI congresso, che in quell'anno ebbe luogo a Zurigo, si ritirò dalla presidenza dell'organizzazione sionistica e della Jewish Agency; in seguito al XVII congresso (Basilea 1931) la presidenza fu assunta da Nahum Sokolow che la tenne fino a che, nel XIX congresso (Lucerna, agosto-settembre 1935), essa fu ripresa dal Weizmann.
Negli ultimi anni l'immigrazione ebraica, per quanto contenuta entro angusti limiti dalla potenza mandataria, raggiunse cifre assai elevate: un forte contingente le fu dato dall'emigrazione dalla Germania, in conseguenza delle leggi ostili ai «non ariani», ossia agli ebrei.
L'istruzione e l'educazione sono impartite in circa 300 scuole di vario grado, con una popolazione scolastica complessiva di circa 30.000 alunni, poste sotto la sorveglianza dell'organizzazione sionistica. L'università ebraica, con annessi vari istituti scientifici, è in continuo incremento; con l'inizio dell'anno scolastico 1935-36 sono state costituite le facoltà di matematica e scienze naturali. Essa ha presso di sé la Biblioteca Nazionale che possiede attualmente oltre 300 mila volumi. Anche le arti (musica, pittura) e le lettere sono in piena efficienza: nell'anno ebraico 5696 (settembre 1934-settembre 1935) sono stati pubblicati in Palestina circa 500 libri ebraici. La popolazione ebraica della Palestina è di oltre 300 mila anime, che costituiscono il 25% della popolazione totale.
(Enciclopedia Italiana Treccani, Vol. XXXI, pag. 865)
Libertà e giustizia unirono ebraismo e socialismo
La ribellione del Ghetto di Varsavia. Tra gli eroi varsaviesi di quella grande pagina di resistenza contro la barbarie nazista, alla vigilia della Pasqua ebraica, molti erano socialisti
di Antonio Matasso
Il 19 aprile 1943, vigilia della Pasqua ebraica, gli ebrei polacchi radunati nel Ghetto di Varsavia si ribellarono contro i nazisti, i quali nell'anno precedente avevano deportato o ucciso circa trecentomila delle persone ristrette in quello che gli occupanti chiamavano cinicamente "Quartiere residenziale ebraico" (Jüdischer Wohnbezirk in Warschau). Tra gli eroi varsaviesi di quella grande pagina di resistenza contro la barbarie nazista, molti erano socialisti. Fin dalle origini del socialismo, è esistita una sinistra che rivendicava la propria appartenenza all'ebraismo, affermando la sostanziale coincidenza dei suoi valori, libertà e giustizia, con quelli del movimento socialista internazionale. Questo elemento lega particolarmente la nostra comunità umana e politica di socialisti italiani ai compagni polacchi. Diversi grandi protagonisti della storia del Psi e del Psdi, infatti, sono nati in famiglie di estrazione ebraica: tra i tanti, Anna Kuliscioff, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani, Angelica Balabanoff, Felice Momigliano, Pio Donati, Riccardo Momigliano, i fratelli Ugo Guido e Rodolfo Mondolfo, Elia Musatti e Paolo Vittorelli, solo per citarne alcuni. Anche il padre del socialismo liberale Carlo Rosselli ed il socialista cristiano Livio Labor, erano figli di ebrei. Ma nei territori dell'ex Confederazione polacco-lituana annessi all'Impero russo era stato addirittura costituito un vero e proprio partito politico degli ebrei socialisti, il Bund, che tenne il suo congresso fondativo a Vilnius nel 1897 e si collegò alla fazione menscevica di Julij Martov, su posizioni anti-bolsceviche. Nel dicembre del 1917, a Lublino, in vista della nascita della Seconda repubblica di Polonia, la sezione polacca, già nei fatti autonoma, divenne un partito separato rispetto a quello dei compagni lituani e russi, assorbendo nel 1920 anche il Partito socialdemocratico ebraico della Galizia ex austro-ungarica. I bundisti fondarono associazioni sindacali e conquistarono diverse amministrazioni locali, collaborando spesso col Partito socialista polacco.
A cavallo tra le due guerre, il cardiologo Marek Edelman fu appunto un fervente attivista del Bund. Egli divenne il leader della rivolta del Ghetto nel 1943, dopo l'uccisione a maggio dello stesso anno del primo capo dell'insurrezione, l'altro socialista Mordechai Anielewicz. Anche la sola donna presente tra i principali animatori della sollevazione, Zivia Lubetkin, vantava trascorsi nel sionismo socialista, al pari del marito Yitzhak Zuckerman. Era un convinto bundista Maurycy Orzech, economista e giornalista per l'organo ufficiale del Bund polacco, "Forverts", ancora oggi pubblicato negli Stati Uniti: un nome che in yiddish significa "Avanti", poiché sia la testata dei socialisti italiani, sia quella degli ebrei polacchi, si rifacevano al "Vorwärts" della socialdemocrazia tedesca. Orzech riuscì a scampare alla distruzione del Ghetto, ma fu comunque arrestato dalla Gestapo e ucciso nell'agosto del 1943.
Le centinaia di bunker realizzati dagli eroi di Varsavia consentirono a quella povera gente *** di resistere per più di un mese, ritardando il programma dei nazisti, che prevedeva di liquidare tutti gli ebrei in tre giorni. Anche quando la repressione ebbe il sopravvento, il 16 maggio 1943, nei giorni successivi singoli ebrei nascostisi tra le rovine continuarono ad attaccare le pattuglie naziste e il personale ausiliario locale collaborazionista. Tra aprile e maggio di settantotto anni fa l'Europa assistette così alla prima rivolta urbana in un territorio occupato dalla Germania hitleriana: ciò ispirò ancora altre insurrezioni, nei ghetti di Bialystok e Minsk, come nei campi di sterminio di Treblinka e Sobibór. Il destino dei superstiti fu particolarmente infelice: Edelman, che nel Ghetto assediato era riuscito perfino a compiere interventi salvavita con attrezzature improvvisate, restò a vivere in Polonia dopo la guerra, segnalandosi come oppositore del regime comunista e subendo per questo alcune persecuzioni (fu anche internato dopo lxa proclamazione della legge marziale nel 1981, ad opera di Wojciech Jaruzelski); Zuckerman, che anni dopo testimoniò al processo Eichman, dovette riparare con sua moglie Zivia Lubetkin in Israele, dove i due fondarono un kibbutz. Tutti loro, insieme agli ebrei di ogni credo politico ed agli esponenti della resistenza polacca coinvolti nell'insurrezione, custodirono la memoria di quei giorni, impedendo le strumentalizzazioni: il comandante Edelman, per esempio, rifiutò di presenziare alle celebrazioni orchestrate dalla dittatura polacca nel 1983, organizzate in un paese dominato «ovunque dall'umiliazione della coercizione». Sempre quest'ultimo, nel 1989, partecipò ai cosiddetti colloqui della "Tavola rotonda", come consulente per la politica sanitaria di Solidarno§c, sindacato sostenuto anche dai socialisti italiani e di cui era da tempo attivista.
Come rendere un tributo, dunque, ai morti e ai perseguitati in nome della libertà, nel mondo di oggi? Forse dovremmo pensare al gesto ciclopico del compagno Willy Brandt, che cinquant'anni fa, nel 1970, si inginocchiò davanti al monumento ai caduti della rivolta del Ghetto. Fu un atto che non era stato previsto, ma che il cancelliere tedesco compì per il suo innato senso di umanità. Lo stesso che lo aveva portato ad opporsi al nazismo, più apertamente di chiunque altro. Brandt ritenne che proprio uno come lui, che aveva subito sulla propria pelle le persecuzioni e l'esilio, che era stato vittima del nazismo, doveva inginocchiarsi e chiedere perdono per i crimini commessi in nome della Germania. Un gesto laico e ad un tempo di grande significato religioso, tanto per l'ebraismo quanto per il cristianesimo: prendere su di sé il dolore prodotto da chi ha sterminato gli ebrei e costretto lui stesso a fuggire da apolide, per un lavacro di perdono e redenzione, che colleghi per sempre passato e futuro. Qualunque cosa ne dica un soggetto della risma di Trump, i grandi leader si inginocchiano, eccome! I negazionismi, semmai, sono forme di codardia. E anche se Brandt apparteneva a quella tipologia di tedeschi non convenzionali e forse "poco tedeschi", oggi la gran parte della società civile teutonica non si sente fiera di quei "nonni" che fecero saltare in aria la bella Grande Sinagoga neoclassica di Varsavia, con la cui distruzione i nazisti pensavano di aver scritto simbolicamente la parola fine sul Ghettto e sull'ebraismo europeo. Il ponte tra ricordo e avvenire di Brandt parla però anche a noi italiani. Siamo in un paese in cui le destre hanno collocato il ricordo della grave tragedia delle Foibe, di proporzioni non paragonabili all'Olocausto, a breve distanza dalle Giornata della memoria del 27 gennaio. Quasi che il problema fosse di contrapporre ad una memoria cara alla sinistra, una ritenuta di segno opposto. La logica di Brandt era oltre, avanti (non a caso!), universale. Torniamo con la mente a Varsavia perché sia quel sacrificio di sangue e liberazione, sia il successivo atto di omaggio, ci ammoniscano sempre ad una dimensione più umana della nostra esistenza e al coraggio della libertà.
(Avanti!, 29 aprile 2021)
Dice Ugur Sahin
I dati fondamentali di Israele, i vaccini ai bambini, le fabbriche e le varianti. Parla Mr BioNTech
di Daniel Mosseri
BERLINO - Né camicia né camice. Per ricevere virtualmente i rappresentanti della stampa estera accreditati in Germania, Ugur Sahin indossa una t-shirt. Lo scienziato, che insieme alla moglie Özlem Türeci ha fondato a Magonza l’azienda farmaceutica BioNTech che ha scoperto il vaccino anti Covid distribuito assieme a Pfizer, ha modi semplici e diretti. “Io e mia moglie siamo medici, per cui siamo soddisfatti quando al di là della ricerca riusciamo a fare stare meglio le persone”. La soddisfazione deriva dal ricevere continui messaggi di persone anziane che possono finalmente riabbracciare i propri nipoti, “e questo fa piacere”. Ma le sfide non finiscono mai. Oggi a spronare lui e la moglie, spiega, è la circostanza che molti non hanno ancora ricevuto l’iniezione: “Non dobbiamo perdere la concentrazione”.
Il medico non si sottrae alla sfilza di domande che gli sono rivolte, e la sensazione è che anche fra i colleghi ci sia chi voglia togliersi qualche dubbio personale prima ancora che giornalistico. Così Sahin ribadisce una volta ancora che il suo vaccino è sicuro ma che non si può abbassare la guardia, soprattutto nel periodo di dodici giorni tra la prima e la seconda dose, quando è ancora possibile ammalarsi di Covid. E la guardia deve sempre restare alta: ricevere due dosi di BioNTech non significa mettersi alla spalle una volta per tutte l’incubo del coronavirus.
“Dopo otto mesi dalla seconda immunizzazione, abbiamo osservato un notevole calo degli anticorpi”; ecco perché entro undici, massimo dodici mesi dalla prima iniezione servirà un richiamo. La conversazione si sposta sulle donne in gravidanza: la ricerca in materia non è completa ma gli studi indicano che dal vaccino non deriva alcun danno all’embrione mentre è evidente come le gestanti infettate dal Covid-19 corrano rischi più alti di complicazioni anche gravi. “Ecco perché ha senso immunizzarsi”. A ogni domanda, Sahin risponde partendo da Israele. Lo scienziato tedesco nato ad Alessandretta, in Turchia, 56 anni fa e immigrato in Germania al seguito del papà impiegato presso la Ford a Colonia ringrazia a più riprese lo stato ebraico per aver messo a disposizione di BioNTech i dati sugli effetti della vaccinazione di massa. Unendo quei numeri alle risposte fornite a uno stuolo di giornalisti curiosi, Sahin tratteggia i contorni della nuova normalità. Una normalità in cui anche i bambini saranno vaccinati contro il virus “perché anche loro si ammalano gravemente di Covid e di long-Covid: per fortuna in pochi ma abbastanza per preoccuparsene”. In un futuro non troppo lontano “dovremo continuare a difenderci da chi non vuole o da chi non può vaccinarsi” oppure da chi non produce sufficienti anticorpi.
Aspettiamoci dei focolai, spiega Sahin: saranno più o meno grandi ma saranno sotto controllo “e l’emozione associata oggi a questa emergenza sparirà”. E le varianti del virus? Lo scienziato ricorda che BioNtech è stato sviluppato pensando alle mutazioni: Sahin è in primo luogo un oncologo e la lotta contro il cancro lo ha allenato a sfidare un nemico versipelle. “Abbiamo testato il vaccino su trenta varianti e vediamo da Israele come sta rispondendo a quella britannica, la più diffusa al mondo”. La conclusione è affidata alla (geo)politica. Con l’Italia il medico si è complimentato per aver dato l’esempio con un lockdown severo: “Imitata dagli altri paesi, ha permesso all’Europa di passare un’estate tranquilla”. Quanto all’Europa, ogni frizione con la Commissione è acqua passata: “Negli ultimi cinque mesi abbiamo lavorato bene insieme”. La prossima sfida è aprire centri di produzione di vaccini in ogni continente: “In ogni stato non servirebbero”. Come vede la sua vita? “Ho avuto la fortuna di aver fatto il liceo (Gymnasium, in tedesco) e di essere andato all’università”.
(Il Foglio, 29 aprile 2021)
Morto lo storico della Shoah, Francesco Maria Feltri
di Brunetto Salvarani
E' improvvisamente scomparso a soli sessantatré anni Francesco Maria Feltri. Sicuramente c'eravamo incrociati allo Studio teologico interdiocesano di Reggio Emilia, nella seconda metà degli anni Settanta, dove per qualche tempo ha frequentato corsi, senza però portarli avanti. Ma ci conoscevamo già, e ci saremmo ritrovati anche al Centro studi religiosi della Fondazione San Carlo... Molte passioni comuni, a cominciare da quelle per gli studi biblici, che affrontava con estrema acribia (la sua Bibbia era consunta, diversamente colorata a seconda delle fonti del Pentateuco), e per l'ebraismo, che lui sin da allora scelse di declinare nella modalità che più gli era congeniale, quella storica.
Erano, quelli, anni assai vivaci di postconcilio vissuto e affrontato a viso aperto, e di impegno ecclesiale a tutto campo: per lui, dapprima nella sua San Faustino, e poi in giro per l'Italia, per formarsi e informarsi a dovere. Da quei primi passi in provincia, Feltri di strada ne farà parecchia, con umiltà e impegno quotidiano, sino a guadagnarsi la fama (del tutto meritata) di essere uno dei massimi esperti italiani del nazismo e della Shoah, su cui aveva scritto vari saggi, tra cui Il nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei, Giuntina, 1995; Per discutere di Auschwitz, Giuntina, 1998, e La notte dei poeti assassinati. Antisemitismo nella Russia di Stalin, Sei, 2009. Docente di Italiano e Storia in alcuni istituti superiori della sua Modena (veniva da una famiglia di studiosi e intellettuali di vaglia, il suo imprinting è quello), si è dedicato anche alla manualistica scolastica, firmando un numero significativo di testi per le superiori, apprezzatissimi e diffusi. I suoi interessi l'avevano portato inoltre a organizzare molti viaggi di studio in Polonia, Repubblica Ceca, Paesi Baltici, Turchia e Israele, giungendo a collaborare non solo con istituzioni per la memoria sul territorio nazionale, tra cui la Fondazione Fossoli di Carpi e il Centro di documentazione della deportazione ebraica di Milano, ma anche su scala internazionale, dal celebre museo dello Yad Vashem di Gerusalemme alla Fondazione Anne Frank di Amsterdam e con istituzioni perla memoria sul territorio emiliano.
Non solo. La sua vocazione alla divulgazione di alto livello l'ha condotto a diventare un protagonista della bella esperienza delle Graffette di Sassuolo (quanti i libricini da lui firmati, sui più svariati argomenti storici!), di tutte le Università popolari della zona, di tanti comuni che facevano a gara per averlo fra i loro relatori su temi non di rado spinosi e controversi. Si può dire che per Feltri l'insegnamento e la diffusione della cultura in ogni strato della società, senza alcuna schizzinosità, abbiano rappresentato una sorta di missione quotidiana. Gli innumerevoli messaggi a metà fra il cordoglio e lo stupore che da ieri campeggiano nelle chat e sui social sono Il a dimostrarlo.
Carissimo Checco, mancherai a tanti, non solo alla tua famiglia. E queste poche righe, buttate giù con infinita tristezza, sono appena un incompleto ritratto di un uomo appassionato e pieno di interessi, curioso e capace di tessere molteplici relazioni, amicali e intellettuali. Che ancora parecchio avrebbe avuto da donare al suo pubblico, e da riflettere a voce alta di fronte ai giovani, contro ogni pregiudizio e ingiustizia e ogni forma di antisemitismo.
(Avvenire, 29 aprile 2021)
Amore e lutto in morte di un artigliere israeliano
Il romanzo di Piattelli si svolge durante la guerra del Kippur: un soldato ebreo resta ucciso e la sua promessa sposa lo piange senza pace
di Claudio Toscani
Israele ottobre 1973, guerra del Kippur (così è detto il giorno dell'espiazione): Egitto e Siria, in coalizione con altri stati arabi, attaccano proditoriamente la terra promessa da Dio ai discendenti di Abramo. Scontro sanguinoso, devastante, in cui sono però gli assalitori ad avere la peggio. Ciò non toglie che i singoli, vincitori o vinti, abbiano di che piangere i loro morti. A Tel Aviv, in una famiglia dell'ex capitale israelita, si soffre la perdita del ventenne artigliere Jonatan, ucciso da un cecchino siriano sulle colline del Golan. In particolare, Ahuva, sua promessa sposa, piomba in un dolore attonito e infinito che le guasterà la vita Non c'è modo, infatti, durante tutto l'animato itinerario del romanzo di Ghila Piattelli, Resta ancora un po' (Giuntina, pagine 204, euro 15), di distoglierla dalla brutale perdita dell'amato, nonostante accetti di unirsi in matrimonio con Zvika, un medico incontrato durante un viaggio a Firenze. In Italia si era illusa di mettere in pausa il suo primo ma incancellabile amore e a nulla serve che Zvika le voglia veramente bene e la renda madre di Yoni. E Yoni, più che una nuova persona, resterà un abbreviativo di Yonatan, destinato a essere un figlio a metà tra l'indimenticata ossessione di un fantasma e la dura realtà di una spesso trascurata esistenza. II quadro non è molto più affollato, se si salva un discreto numero di zü, nonni e altri parenti, e se si eccettuano sia la bizzarra Giuditta, madre di Ahuva, sempre in cerca di un cimitero a lei idoneo per passarvi l'eternità, sia Erez, il fraterno amico di Jonatan quand'era in vita, che sarà l'incessante, irreprensibile guardiano della giovane vedova inchiodata al ricordo del suo sposo perduto. Suggestiva la struttura del libro che si caratterizza per uno scandito alternarsi di "prima" e "terza" persona, una rete di risonanze che originano da medesime realtà ma come intonate da strumenti diversi, se non discordi, che collaborano a una singolare storia tra inventività e vita vissuta: una, la voce di Yoni (l'io che guida il lettore attraverso sensi e sentimenti moltiplicati a seconda che siano il suo personale sentire o l'esperienza dei vari personaggi): l'altra, un narratore esterno che sa il prima e il dopo dei fatti e delle intenzioni e mette sull'avviso ciò che accade o sta per accadere, determinando conferme o attese, certezze o suspense.
La fusione tra chi racconta in diretta e chi si mantiene invece sempre al dà della pagina al corrente di tutto, si snoda lungo una serie di stop and go tra effetti prima delle cause. Ciò lega il lettore a un libro di rara potenza letteraria dove, tra l'altro, ciò che in ultima di copertina è definito «romanzo israeliano in lingua italiana», è che si parla spesso di comuni radici morali e religiose.
(Avvenire, 29 aprile 2021)
Ritorna la propaganda anti-Israele: "I palestinesi vittime di apartheid"
L'accusa di persecuzione è ridicola per chi conosce la società israeliana: un miscuglio di razze, religioni ed etnie
di Fiamma Nirenstein
È dal 1975, quando l'Onu votò con maggioranza arabo-sovietica la dichiarazione «sionismo uguale razzismo» che è stata poi cancellata nel '91, che si ripete il tentativo di spacciare il conflitto israelo-palestinese per una scelta del popolo ebraico di dominare e discriminare il mondo arabo e musulmano in nome di principi suprematisti, e appunto, razzisti. La scelta propagandistica è molto redditizia, perché cosa c'è di moralmente peggiore al mondo, dopo il nazismo, del razzismo? Il sistema di apartheid sudafricano non a caso ormai defunto e sconfitto dalla buona volontà internazionale è un parametro internazionale di tutti i mali, ed è universalmente buono e giusto ergersi contro quell'infamia. Il tentativo di infettare Israele con questa accusa consta adesso di un nuovo documento di Human Rights Watch, 217 pagine di vecchie accuse ben riciclate (l'organizzazione, come scrive il presidente di «NGO Monitor» Gerald Steinberg ha un budget di 90 milioni di dollari in donazioni anche italiane alle varie Ong talora legate al gruppo terrorista Fronte di Liberazione Palestinese) a cura di Omar Shakir, direttore del settore israeliano e palestinese. Esse sostengono, con l'aiuto di organizzazioni come Al Haq, Pchr, Al Mezan, Al Dameer che «Israele perseguita la popolazione palestinese» per «assicurare la dominazione israeliana». Il testo riproduce parti delle accuse già usate per indurre l'International Criminal Court a perseguire Israele per crimini di guerra, e da B'tselem, organizzazione israeliana che sostiene che c'è «un regime di supremazia ebraica dal Giordano al Mediterraneo (molto generoso verso il piccolissimo Stato Ebraico ndr) e questo è apartheid».
L'accusa, se non si inserisse in un clima mondiale che mette le ali verso una rinnovata criminalizzazione d'Israele, sarebbe da ridere se si ha in mente la società israeliana e se ne conosce la mescolanza di razze, religioni, etnie sulle spiagge e per le strade, nei mall in cui arabi ed ebrei guardano le vetrine insieme, gli ospedali dove giacciono in letti contigui curati da medici arabi e ebrei; più del 20 per cento della popolazione totale, gli arabi sono rappresentati alla Knesset da partiti differenziati e da membri del Parlamento liberi nelle strade e nelle istituzioni, le università sono frequentate da giovani di ogni etnia, dottori avvocati, giudici della corte suprema, comandanti della polizia e delle forze di sicurezza sono arabi, il giudice che accusò Moshe Katzav, allora presidente della Repubblica di crimini sessuali e lo mandò in carcere era George Kara, giudice arabo.
Il rapporto di Hrw fornisce notizie false quando parla di transfer di popolazioni inermi, attribuisce alle divisioni territoriali peraltro concordate a Oslo fino a una soluzione fra le due parti il carattere di imposizioni razziali, cancella ogni diritto del popolo ebraico a un suo Stato quando cancella il diritto (come di qualsiasi Stato sovrano) a un'immigrazione, specie dopo le terribili persecuzioni subite a causa dell'antisemitismo. L'idea che uno Stato Ebraico sia di per sé razzista per la «legge del ritorno» è una delegittimazione della sovranità più che un'accusa. Il report ignora anche che le misure di cautela non sono gesti di discriminazione dell'etnia o della religione, ma di cautela dopo tanto terrorismo.
(il Giornale, 28 aprile 2021)
La preistoria orientale del Mossad. Intervista a Matti Friedman
di Ugo Volli
Matti Friedman è un giornalista importante. Ebreo canadese, immigrato in Israele negli anni Novanta, ha scritto per il New York Times, per l’Associated Press da Israele, ma anche dal Libano, dall’Egitto, da Mosca. È anche uno scrittore, che applica i metodi del giornalismo a episodi significativi e poco noti della storia contemporanea di Israele. Il suo primo libro, The Aleppo Codex del 2014, raccontava come un thriller la storia complicata dell’arrivo in Israele del più antico codice della Bibbia ebraica, quello che per secoli era rimasto custodito nella Sinagoga di Aleppo, su cui probabilmente aveva studiato Maimonide, e che ora sta al “Santuario del Libro” al Museo ebraico di Gerusalemme. La casa editrice Giuntina ha appena pubblicato la traduzione italiana di un altro suo bel libro del 2019, Spie di nessun paese, che racconta le imprese di quattro giovani ebrei provenienti dai paesi arabi, che fra il 1948 e il 1949 furono fatti infiltrare in Libano per dare ai dirigenti ebraici informazioni vitali sulle mosse dei nemici che cercavano di soffocare sul nascere lo Stato di Israele. Fu forse la prima grande missione spionistica israeliana, l’inizio di una storia importante. I loro nomi: Yitzhak Shoshan, Yakuba Cohen, Havakuk Cohen e Gamliel Cohen: quattro ragazzi, che durante l’ultimo periodo del mandato britannico di Palestina, prima che nasca Israele, arrivano più o meno clandestinamente a Haifa, allora divisa dalla guerra. Provengono dalla Siria, dallo Yemen, uno da Gerusalemme, si sono arruolati nel Palmach, la forza militare clandestina di élite dell’insediamento ebraico. Poi sono stati coinvolti in un gruppo ancora più segreto, l’”Alba” o “sezione orientale”. Vengono mandati in missione a Beirut, dove si infiltrano avventurosamente e restano per parecchi mesi sotto falsa identità. Con l’autore parliamo della loro avventura.
- Matti Friedman, il suo libro sembra una spy-story, si legge come un romanzo. Quanto in esso è storia e quanto è inventato?
“È tutto vero. Non ho inventato niente. Ho usato i metodi del giornalismo investigativo, parlando con i testimoni, facendo una lunghissima intervista a uno dei protagonisti, Yitzhak Shoshan, che ho trovato ancora vivo e molto lucido, benché molto anziano. Ho cercato i documenti negli archivi. Ho ispezionato i posti. Anche i dialoghi e i pensieri dei protagonisti sono quelli che mi sono stati riferiti.”
Quattro ragazzi che diventano spie per uno stato che non c’è ancora. Perché lo fanno?
“Sono ragazzi poveri, che sfuggono a un destino di miseria e di oppressione. Erano nati al livello più basso della scala sociale di paesi arabi. Erano ebrei ed ebrei poveri. Vogliono il riscatto, la libertà. Sanno di quello che è successo in Europa, vogliono combattere per sfuggire al genocidio, anche per aiutare anche gli ebrei europei a salvarsi. Sono generosi, credono nel futuro, sentono l’impegno a partecipare. Capiscono di vivere un’occasione storica, vedono che per la prima volta da tempi immemorabili uno stato ebraico è possibile. Cercano la dignità.”
- E come fanno a realizzare la loro missione?
Sono coraggiosi e forti, non hanno paura del pericolo. Cioè sì, hanno paura, quando sono soli in mezzo ai nemici, a un soffio dalla morte e basterebbe una parola sbagliata, un gesto, uno sguardo a perderli. Ma sanno vincersi, tengono i nervi a posto. Fin dall’inizio della loro missione, a Haifa, incontrano gente che li sospetta, che vuol vedere se parlano ebraico, se sanno fare i gesti della preghiera musulmana, dato che dicono di essere arabi in fuga. Per mesi tengono un chioschetto nel centro di Beirut, da cui osservano e riferiscono, ma sono anche visibili a tutti. Hanno rapporti con tanta gente, attirano l’attenzione, devono parlare con molti per ottenere informazioni, ma non attirare l’attenzione. Soprattutto devono evitare che qualcuno verifichi le loro storie, che sono esili. E’ un rischio costante. All’inizio non hanno niente, né armi né strumenti di comunicazione. Poi installano una radiotrasmittente, che però è un pericolo, se venisse vista per caso li tradirebbe.”
- Sono ebrei orientali, quelli che in Israele si chiamano “mizrachi”. Spesso si considera che all’inizio siano stati discriminati dalla società israeliana.
“Sì, c’era discriminazione. Anche nel loro gruppo. Loro e gli altri agenti dell’”Alba” erano ebrei proveniente dai paesi arabi, perché conoscevano lingua e cultura araba. I loro capi però erano askenaziti e loro nella “storia ufficiale”, come la chiamo io, hanno avuto poco spazio. C’è stata discriminazione allora e anche dopo, bisogna ammetterlo.”
- I suoi interlocutori, in particolare Yitzhack Shoshan che è stata la sua fonte, si lamentano di questa condizione?
“No. Non ho trovato amarezza o rancore, tutt’altro. Certo, non hanno avuto statue o riconoscimenti solenni, ma non se lo aspettavano. Era un momento in cui ciascuno faceva quel che poteva per la salvezza collettiva. Shoshan mi è sembrato un uomo fiero del suo contributo, contento di come sono andate le cose, soddisfatto dei risultati dello stato di Israele.”
- È' un aspetto di Israele di cui si parla poco.
“All’estero, soprattutto in America, questa presenza ebraica orientale non è capita a sufficienza, si parla genericamente di sefarditi, ma la Spagna, cioè in ebraico Sefarad, da cui deriva il nome sefardita, non c’entra nulla con l’ebraismo siriano, libanese, iracheno o persiano. Ma la società israeliana si è parecchio rimescolata e oggi l’influenza mizrachi è evidente nell’identità di Israele: nella musica, nella cucina, ma non solo lì. L’integrazione c’è.”
- Torniamo alla nostra vicenda. Da queste esperienze che lei racconta nasce il mitico Mossad.
“Si, a un certo punto “Alba” viene chiusa, anche i miei personaggi passano altrove, e l’apparato informativo di Israele viene ricostruito con criteri più professionali e missioni più ampie. E di qui nasce il Mossad e le altre agenzie di informazione di Israele.”
- … che hanno grandissimi successi e grandissime storie. In questi giorni si è ricordata di nuovo la figura di Eli Cohen, che riuscì a infiltrare i livelli più alti della difesa siriana.
“Sì, anche Cohen era un uomo simile per origine e atteggiamento ai miei eroi. Era ebreo egiziano, nato ad Alessandria, ma la sua famiglia veniva da Aleppo, come quella di Shoshan. Ma erano passati quasi quindici anni e lui aveva un appoggio, una copertura, degli strumenti che nel ‘48-49 non c’erano affatto. Era anche di un altro livello sociale, aveva una preparazione universitaria. Rischiava però allo stesso modo e purtroppo fu catturato. Diciamo che quel Mossad per cui lavorava lui era qualcosa come un’”Alba” 2.0.”
- E oggi? I servizi segreti israeliani compiono ormai missioni diplomatiche, il direttore del Mossad va a parlare con capi di stato e di governo, come un super-diplomatico.
“I servizi svolgono lavori politici riservati ma anche azioni segrete vere e proprie. È sempre stato così. Anche sul piano spionistico il Mossad ha avuto ancora di recente grandissimi successi. Pensi all’Iran. Ma siamo in un altro mondo rispetto a quello della mia storia.”
Che reazioni ha avuto il suo libro?
“In Israele mi hanno scritto in tanti, molti mi hanno detto: ma lei non ha parlato di mio padre, o di mio nonno, che ha una storia bellissima, eƒarmenia l’hanno raccontata… Insomma c’è stata una bella partecipazione, molta fierezza. Negli Stati Uniti molti, anche ebrei, non sapevano nulla non solo di queste imprese, ma anche dei mizrachim in generale. Aspetto ora di vedere che cosa direte in Italia, dove il mondo mizrachi lo conoscete. Mi farebbe molto piacere venire da voi a presentare il libro, quando si potrà.”
(Shalom, 28 aprile 2021)
Pfizer e miocardite: Israele indaga
Israele sta indagando su un piccolo numero di casi di infiammazione del cuore tra le persone che sono state vaccinate con Pfizer. I funzionari sanitari hanno detto che a 62 persone su 5 milioni a cui è stato somministrato il vaccino hanno sviluppato la miocardite, una condizione caratterizzata da gonfiore del cuore. Pfizer ha dichiarato di non aver visto un'incidenza più elevata di malattia più di quanto ci si aspetterebbe normalmente nella popolazione, ma gli esperti stanno indagando per esserne sicuri. Le prime analisi suggeriscono che la condizione si verifica più frequentemente negli uomini sotto i 30 anni d'età e nelle persone a cui sono state somministrate entrambe le dosi.
(il Quotidiano, 28 aprile 2021)
Il rapporto di Human Rights Watch redatto da un propagandista anti-israeliano è falso
Per HRW, Israele commette un crimine se persegue palestinesi per il loro "attivismo" in al-Qaeda e altre organizzazioni terroristiche, mentre i palestinesi hanno il diritto legale di organizzarsi per architettare l’assassinio di ebrei.
Scrive Ben-Dror Yemini: Immaginiamo per un momento che un funzionario iraniano scriva un rapporto che condanna la Svezia per i diritti umani, o che un membro dell’estrema destra suprematista americana scriva una condanna del partito democratico degli Stati Uniti. Qualcuno prenderebbe sul serio un documento del genere? Eppure ci si aspetta che tutti prestino attenzione a A Threshold Crossed (Una soglia varcata), il nuovo rapporto che condanna Israele scritto da Omar Shakir, direttore dell’ufficio israelo-palestinese di Human Rights Watch (HRW).
Shakir è un provocatore e un agitatore che da più di dieci anni fa propaganda contro il diritto di Israele ad esistere. In effetti, risiedeva in Israele fino a quando la Corte Suprema non gli revocò il visto di soggiorno quando venne a galla la portata delle sue attività contro l’esistenza stessa dello stato d’Israele. Gli è stato anche negato l’ingresso in Bahrain quando voleva partecipare a una conferenza della FIFA solo per convincere l’organizzazione a boicottare la nazionale di calcio israeliana. L’odio smisurato di Shakir per Israele spicca persino a confronto dell’ostilità consolidata di altri organismi che si definiscono “organizzazioni per i diritti umani”. Già nel 2010 Shakir esortava i palestinesi a lasciar perdere la rivendicazione dell’autodeterminazione e adottare invece la terminologia dell’apartheid e dei diritti universali con l’obiettivo di creare un unico stato “bi-nazionale” (ed eliminare l’unico stato ebraico al mondo). Nel 2015 ha firmato una petizione contro la visita in Israele di un gruppo di musulmani che avrebbero dovuto essere ospiti dell’Hartman Institute di Gerusalemme. Inutile dire che Shakir è un chiaro sostenitore del movimento BDS per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, un’organizzazione i cui leader non cercano nemmeno di mascherare il fatto che non si adoperano per la pace, ma per l’eliminazione di Israele....
(israele.net, 28 aprile 2021)
L’Impero Ottomano e gli Armeni: breve storia di un grande massacro
Riceviamo da un fratello in fede la segnalazione di un suo articolo su un tema tornato oggi di attualità: la strage degli Armeni. Lo presentiamo volentieri ai lettori e ne ringraziamo l’autore. NsI
di Tommaso Todaro
I più lontani cenni storici del “Paese di Ararat” e del “Regno di Ararat” si trovano nei primi libri della Bibbia, ma il termine Armenia è entrato nell’uso comune fra il II e il V secolo d.C.
Una sintetica quanto incisiva descrizione delle miserrime condizioni di quelle terre agli inizi del XIX secolo ci è offerta da Gabriel Aivarovskyi che negli Anni ’30 dell’800 dirigeva a Parigi una rivista franco-armena dal titolo La Colombe du Massis, Messager de l’Arménie definita una
«Terra misconosciuta, in gran parte deserta di popolo, devastata, ruinata del tutto. Gli abitanti vivono nella più squallida miseria, ovvero dispersi nel mondo poco meno degli Ebrei … popolo… chiuso tra barbare genti …»
Solo a partire dalla prima metà del XIX secolo, quelle terre recondite e montuose cominciarono a destare la curiosità del mondo occidentale, ma le notizie pubblicate erano poco numerose e frammentarie.
In Italia la prima opera circostanziata sulla materia fu quella di Giuseppe Cappelletti, dedicata a Carlo Alberto e redatta sulla scorta degli scritti di P. Luca Iugigì, monaco armeno di S. Lazzaro in Venezia e di alcuni classici armeni.
Nel 1839 La Nuova Antologia pubblicò, a firma di Attilio Brunialti, un lungo e minuzioso articolo dal titolo L’Armenia e gli Armeni, molto esauriente sotto l’aspetto storico, etnografico e geo-politico.
(Nuovo Monitore Napoletano, 3 dicembre 2019)
Così quattro spie "arabe" salvarono lo Stato ebraico
Matti Friedman racconta la storia dei primi "mistaravim" che si infiltrarono cancellando la propria identità.
di Fiamma Nirenstein
Da quando tutto il mondo ha visto Fauda sullo schermo tv, i «mistaravim» sono ormai di famiglia. Sono agenti israeliani che sanno non solo l'arabo alla perfezione, ma che nel linguaggio, nel comportamento, nel gusto del cibo e nelle esclamazioni, anche parlando nel sonno, sono in tutto e per tutto capaci di arabizzarsi, appunto di «diventare come arabi».
Mistaravim. Chi ne vuole capire lo sfondo storico, politico, filosofico, il nodo di avventura, rischio e ideologia che li riguarda può adesso leggere Spie di nessun Paese di Matti Friedman (Giuntina, in libreria dal 29). È proprio nell'avventura e nel pericolo mortale continuo e nell'eroismo che i quattro mistaravim delle origini dello Stato raccontati da Friedman si giocano tutto: la loro stessa origine familiare e sociale, il loro cuore, il più alto senso della patria ebraica e insieme del legame col mondo arabo. E, fa capire Friedman, la patria non li ha mai ringraziati né li ringrazia abbastanza: sono sempre «mizrachim», orientali, patriarcali, religiosi, in un universo la cui cultura ha il segno genetico della storia europea, anzi, di quella del socialismo. Niente racconta la loro importanza storica nella costruzione dello Stato, spesso ignorata, della loro origine e della loro espulsione dal mondo dei genitori, descritta in modo appassionato, commosso, trascinante, da Friedman, scrittore israeliano ormai famoso e innestato nell'impegno letterario tipico della narrativa israeliana nel solco di Oz, Grossman, Yeoshua... L'origine dei mistaravim è geniale, casuale e insieme azzardata come lo sono tutte le cose di Israele. Matti Friedman l'ha rimessa insieme con pazienza, prima di tutto incontrando a Tel Aviv, novantenne, uno dei protagonisti, Yitzchak Shoshan, nelle sue varie incarnazioni: Zaki Shasho, Abdul Karim... e costruendo con documenti classificati o pubblici, con racconti e con i libri di storia d'Israele, i percorsi mirabolanti del primo nucleo arabo di spie. I suoi protagonisti sono quattro ragazzini magri, affamati, coraggiosi, sionisti e di linguamadre araba, dolci ma irti di spine mortali proprio come i proverbiali sabre israeliani, i fichi d'India della terra che divenne lo Stato Ebraico nel 1948. Ma allora, loro erano già sotto copertura a Beirut e ad Aleppo, chiamati non più col nome ebraico ma con quello dell'identità araba assunta, di nuovo mangiavano la polvere in cui erano nati per carpire i segreti necessari a vincere le guerre fatali d'Israele.
I protagonisti sono veri e subito li vediamo in fotografia: Gamliel Cohen, nato a Damasco, nel '48 ha 25 anni, è il più intellettuale, quello che ha sofferto più di tutti della discriminazione che l'élite ashkenazita ha indubbiamente praticato nei confronti della cultura mizrahi degli ebrei immigrati dai paesi arabi: gli europei erano laici, socialisti, paritari con le donne, disinvolti nei comportamenti sessuali. Questi, religiosi o almeno di ispirazione familistico-conservatrice, poco abituati a considerare alla pari il genere femminile, affezionati alla scala sociale e di sapienza dei loro Paesi d'origine. Gamliel è anche il più elegante e cauto, non vuole compiere attentati o uccidere, ma lo fa se necessario. Ed è il primo che incontriamo nel suo passaggio in veste di ragazzo palestinese a Haifa, allora ancora in mano araba, mentre rischia di essere catturato. Basta dire che sei di Gerusalemme e parlare con accento diverso, o rispondere con un riferimento geografico sbagliato, un indirizzo, un nome, una canzone...
Già la storia si riempie di ragazzini, come i nostri quattro che vanno verso Beirut, uccisi con un colpo alla testa al primo sospetto: mistaravim improvvisati e scoperti perché sprovveduti e sfortunati, poveri ragazzi ebrei di origine araba... Le avventure cominciano subito, figlie delle difficoltà continue nel realizzare le operazioni richieste dal Centro a Tel Aviv: la solitudine è la compagna delle grandi decisioni.
Con Gamliel troviamo Yitzhak, nato a Aleppo, occhialini tondi, una faccia da povero, 23 anni nel '48. È quello che alla fine è vissuto più a lungo e più felice. Poi c'è Havakuk Cohen, nato in Yemen, 20 nel '48, che, dopo tante imprese grandiose, sposa appena tornato a casa la donna del suo cuore e compagna di lavoro, Mira; ma nel 1951 va nel deserto, al confine della Giordania, dove qualcosa va storto e il contatto incontrato nottetempo lo uccide e lo lascia sulla sabbia. Come erano stati vicinissimi nella vita, lo segue sposando la sua donna l'altro giovane superagente Yakuba Cohen, di Gerusalemme, 23 anni nel '48, descritto come «il selvaggio» e invece talmente disciplinato verso il Paese da aver seguitato a servire in ruoli e incarichi segreti fin quando a 78 anni lo chiamano di nuovo nel 2002, tempo dell'Intifada.
I magnifici quattro, armati e determinati, vengono inseriti nella sezione araba del Palmach, gruppo d'élite che nel nuovissimo e disperato esercito israeliano deve riuscire a salvare l'Yshuv (da cui nascerà Israele) dal pericolo non solo arabo, ma anche nazista: è il tempo dell'alleanza dello sceicco Al Husseini con Hitler, e la guerra delle forze tedesche fino a El Alamein è anche una promessa di distruzione degli ebrei intenti alla costruzione di Israele. Anche gli inglesi fanno del loro meglio per ostacolare gli ebrei, e i nostri eroi li troviamo gettati a Beirut con puntate in Siria e in Giordania, e la parola caos non descrive a sufficienza il loro stato. Non hanno ricevuto nessun training, non sanno dove vivranno, sono affamati e doloranti, il governo approfitterà genialmente della massa dei profughi palestinesi che invitata dagli arabi si scaraventa fuori dei confini israeliani, per mandarli a spiare e agire in quel magma. Non sanno bene cosa faranno, e quando saranno là avranno una terribile difficoltà ad essere informati su cosa succede a casa loro: data la passione del mondo arabo nel mostrare i muscoli, mentre durante la guerra del '48 i nemici di Israele inaspettatamente perdono, i quattro sono sommersi da spaventose notizie di sconfitta di Israele. Solo col tempo riceveranno una radio con cui mandare al comando una quantità di informazioni svariate, di ogni genere. Dovranno, sul campo, compiere operazioni spericolate e al limite dell'umano, disinformati, affamati (aprono un chiosco con panini e caramelle vicino a una scuola non per copertura, ma per sopravvivenza!), abbandonati e carichi di un forte senso di contraddizione, perché in fondo sono tornati a rivivere la loro infanzia, cui sono affezionati e che ora devono sconfiggere in nome del sionismo. Si infilano anche in storie di donne che quasi li fanno scoprire, ma la carne è debole... Dopo aver bloccato con una sanguinosa esplosione un attacco in stile libanese di un camion pieno di esplosivo, aver compiuto svariate operazioni da soli e con gli inglesi che momentaneamente, con tutte le vergogne che hanno attuato per fermare gli ebrei al tempo della Shoah dal venire in Israele, sono i loro amici contro i tedeschi, preparano persino l'esplosione di uno stravagante grande yacht corazzato di Hitler nel porto di Beirut...
Ma quando i nostri torneranno a casa di nuovo si trovano a dover compiere una capriola cognitiva. Sono ancora israeliani? O sono diventati arabi? Certo che sono israeliani, e lo vogliono, ma il Palmach non esiste più, uno di loro viene persino arrestato perché creduto un nemico arabo, il loro mondo si ricostruisce su una identità sfilacciata e soprattutto su una quantità di giovani come loro, nati nei vicoli delle città arabe, che ci hanno lasciato la pelle.
Il nostro autore dice due cose diverse, e io concordo con una delle due: se Israele avesse riconosciuto subito che una sua parte importante era costituita dalla cultura di origine araba, questo avrebbe limitato l'ingiustizia sociale. La seconda che Friedman sottende è che Israele lungi dall'essere un Paese coloniale, nasce da una scelta sbagliata del mondo islamico stesso, quella di aver espulso due milioni ebrei dal mondo arabo per vendetta alla nascita dello Stato, provando così che Israele è parte dell'area: se Israele avesse fatto sua questa storia, sembra suggerire Friedman, avrebbe spinto il mondo arabo a accogliere lo Stato ebraico, senza poterlo accusare di colonialismo. Ma questo, purtroppo, non è vero. Le menzogne su Israele nascono su un albero altissimo, che dà molti frutti di ogni colore, e da cui molti non scendono mai.
(il Giornale, 27 aprile 2021)
Accordi di Abramo: per le donne e gli uomini che piantano alberi
di Alessandro Saggioro
Qualche giorno fa, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, a Roma si è tenuta una piccola ma significativa cerimonia. Alla presenza della sindaca Virginia Raggi, l'Ambasciatore del Bahrain, Nasser Mohamed Yousef Al Belooshi, e l'Ambasciatore d'Israele in Italia, Dror Eydar, hanno voluto incontrarsi per piantare un albero al Bioparco. Ne ha riferito su «Shalom» il 20 aprile Ariela Piattelli, notando l'eccezionalità dell'evento, che si colloca nell'alveo degli Accordi di Abramo: l'avvio di un'iniziativa bilaterale che ha riavviato i rapporti fra i due Paesi, accendendo una scintilla di relazioni pacifiche, al contempo diplomatiche e sostanziali. Il verificarsi a Roma di un momento così simbolico mette in rilievo la necessità che le dinamiche di pace in Medio Oriente non siano un fatto regionale, di limitata portata e peso politico: non sfugge il peso degli USA di Trump nel costruire relazioni diplomatiche nell'area, così come il perdurare di situazioni di enorme difficoltà. Lo spostamento nel cuore 'mediterraneo' dell'Unione Europea serve a rilanciare e riprogrammare un'iniziativa, quella degli accordi di Abramo, che è stata apprezzata e criticata da molti e per i più diversi motivi.
Stiamo però, intanto, al livello simbolico dell'evento romano, per poi ragionare del potenziale sostanziale che si innesta su di esso e che ne è la vera ragione di essere.
D'altra parte, l'idea di piantare alberi è tutt'altro che peregrina e superficiale. In un lucido editoriale su «la Repubblica» di venerdì 23 aprile (p. 24), Stefano Mancuso ricorda che nelle battaglie per il clima un fattore indispensabile consiste nel cominciare dagli alberi. Solo permettendo che sempre più alberi possano assorbire CO2 si può immaginare di invertire la rotta della cosiddetta catastrofe climatica. Ma se, come è noto, a livello globale si stanno moltiplicando le iniziative per ridurre la produzione di CO2, contemporaneamente si deve tenere conto della necessità di interrompere la deforestazione e di promuovere la piantumazione estensiva. Solo con gli alberi si rende possibile un ipotetico bilancio positivo, che la sola riduzione della produzione non potrà mai garantire.
Il nesso fra ambiente e pace è al centro di quel meraviglioso racconto metaforico, vero e proprio manifesto poetico dell'ambientalismo pacifico, che è L'uomo che piantava alberi, di Jean Giono (ed. or. 1953). In una terra inaridita dallo sfruttamento e impoverita di risorse, un solitario cinquantenne realizza un progetto che assurge alle dimensioni del mito: pianta ogni giorno cento semi e lo fa per molti anni, trasformando il paesaggio da triste e desolato in fertile e felice.
Piantare gli alberi, allora, non significa solo ridurre la CO2 ma anche rigenerare l'ambiente a favore dell'umanità del futuro, tenendo conto degli errori del passato, cambiando da subito l'approccio alla realtà, riformulando nelle azioni concrete la sostenibilità del nostro stare nel mondo, fra l'altro standoci insieme pacificamente. La sfida è quella di garantire alle generazioni future non solo risorse adeguate, ma anche condizioni migliori di quelle che ciascuno di noi ha trovato, per poter permettere loro di fare meglio.
Fra gli alberi più importanti da piantare ritengo vi siano quelli della formazione. Se vogliamo tradurre in azione ambientale il messaggio di Jean Giono dobbiamo piantare alberi; se vogliamo cogliere la metafora alta del pensatore francese dobbiamo capire che si tratta anche di coltivare nelle scuole e nelle università la consapevolezza e la responsabilità necessarie a far crescere la naturale predisposizione alla relazione pacifica. Qui, negli accordi di Abramo, voglio cogliere lo spunto per ragionare del moltiplicarsi delle opportunità di contatto in un mondo in trasformazione. L'accensione di relazioni diplomatiche e politiche significherà presto anche possibilità di elaborare e sviluppare progetti di collaborazione nei più diversi ambiti fra cui quello formativo e educativo. La possibilità di studiare insieme è tutt'altra cosa che lo studio semplice, perché crea l'humus per la conoscenza reale, che non è fatta solo di dati e di formule, ma anche di relazioni e di processi. L'età della pandemia ha costretto un'intera generazione allo studio solitario in casa. La futura libertà comporterà anche un profondo ripensamento e superamento di queste condizioni forzate e il rilancio di sistemi di formazione interattiva e integrata, in cui il rapporto fra docenti e discenti sia riprogrammato e di nuovo promosso come chiave indispensabile per andare incontro al futuro.
L'Europa può dare molto a queste riflessioni e alla possibilità di costruzione. Intanto la complessità della storia europea, fatta di guerre, contrasti, persecuzioni ma anche della costruzione di un orizzonte condiviso per la realizzazione di una pace duratura dopo i conflitti mondiali che qui hanno avuto scaturigine, sta a testimoniare che tutto il mondo vive sulla strada di processi intrapresi e perfettibili. Si pensi alle riflessioni sulla libertà religiosa e sui diritti umani che si intersecano con quelle relative alla sicurezza e al benessere e che in ogni paese europeo sono al cuore stesso della vita democratica e ne sono la sfida permanente.
Nel campo della formazione l'Unione Europea ha dato luogo a programmi di scambio di portata crescente nel tempo.
L'Europa può dunque essere contesto di incontro primario, non esclusivo e non esaustivo, per chi viene da paesi che devono ricostruire una relazione pacifica duratura. Il contesto universitario potrà così essere anche luogo di incontro per le generazioni che guideranno il mondo di domani in una dimensione globale in cui anche il network di relazione possa essere strumento di costruzione sostenibile di una nuova dimensione globale pacifica, interattiva, operativa. Gli accordi di pace permettono, come la riduzione delle emissioni di CO2, un ridimensionamento delle cause del conflitto. Ma la riduzione da sola non basta: serve la piantumazione di nuovi alberi per mirare al riassorbimento della CO2 già in essere. E così oltre a firmare accordi di pace si deve pensare a costruire relazioni operativamente efficaci per favorire la ricostruzione complessiva di un reale mondo in convivenza pacifica.
Se i giovani alberi seminati dal pastore Elzéard Bouffier ricordavano per contrasto a Jean Giono le vite spezzate nelle drammatiche battaglie della prima guerra mondiale cui aveva partecipato in prima persona, oggi essi possono rappresentare, in positivo e a buon diritto, le future generazioni: in un mondo diverso, in cui torni la speranza, come nella immaginaria cittadella inventata dall'autore francese, e che, con il trascorrere degli anni, «era ormai un posto dove si aveva voglia di abitare» (p. 39 ed. it.).
Il gesto dei due ambasciatori di Israele e del Bahrain di piantare insieme un albero a Roma ripercorre tradizioni antiche, rinnovate oggi nel quotidiano da tante iniziative: con l'indicazione "Semi di pace" si trovano innumerevoli progetti, associazioni, eventi che materialmente piantano alberi e rendono possibili incontri nel rispetto della memoria e nella necessità di guardare al futuro. Si pensi alla festa di Tu bi-Shevat, le cui origini si perdono nella notte dei tempi ma che è tutt'oggi vissuta e capita proprio dai bambini per il suo significato profondo, concreto, solidale, intrecciandosi con una rete di parallelismi transnazionali a livello globale. Si pensi anche all'Albero della vita, che nel cuore del deserto del Bahrain è luogo di incontro pacifico di persone di diverse comunità e fedi che vi si recano in pellegrinaggio: anche le sue origini misteriose sono difficili da rintracciare e un piccolo museo all'aperto racconta gli sforzi degli studiosi di botanica per capirne l'origine. Gli alberi dunque trasmettono messaggi, sono portatori di significati e di valori: e ci parlano della storia, così come esprimono il senso dell'incontro e della relazione.
L'albero piantato da Dror Eydar e Nasser Mohamed Yousef Al Belooshi rappresenta allora una bella storia possibile: quella di un incontro, vissuto sul suolo romano, e qui radicato, che porta nuova linfa e respiro ad un progetto di pace che è sotto gli occhi del mondo intero.
(Shalom, 27 aprile 2021)
Il report che inchioda lo Stato ebraico. "Colpevole di apartheid e persecuzione"
di Giordano Stabile
Israele commette crimini di «apartheid» e persecuzione nei confronti dei palestinesi. A scrivere nero su bianco la parola della vergogna è Human Rights Watch, la ong internazionale con sede a New York, da quarant'anni in prima linea nella difesa dei diritti umani. Un'accusa bruciante contenuta nelle 213 pagine dell'ultimo rapporto, dal titolo «La soglia oltrepassata: autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione», che sarà diffuso oggi in tutto il mondo. Per il governo del premier incaricato Benjamin Netanyahu, alla ricerca di una maggioranza, è un colpo duro. E arriva dopo che la Corte penale internazionale dell'Aja ha deciso di aprire un'inchiesta per «crimini di guerra», in relazione soprattutto alle operazioni a Gaza del 2014. Accuse rispedite al mittente, come con tutta probabilità saranno quelle di Hrw. Resta il fatto che lo Stato ebraico è sotto il fuoco delle critiche, da ogni lato, come non accadeva da anni. Il successo nella campagna di vaccinazione contro il Covid viene messo in ombra, mentre si riaccende lo scontro su Gerusalemme.
La «soglia oltrepassata», secondo Hrw, è quella che porta a uno Stato di apartheid e al razzismo per legge. E' la pietra tombale al sogno di «due popoli, due Stati». Secondo il rapporto la «realtà odierna è quella di un'unica autorità, il governo israeliano, che gestisce l'area dal fiume Giordano al Mediterraneo, popolata da due gruppi pressappoco delle stesse dimensioni, ma che privilegia sistematicamente gli ebrei israeliani e reprime i palestinesi». Il processo di Oslo è di fatto finito e una serie di passi hanno portato a questa realtà di un solo Stato, dove però i popoli non godono degli stessi diritti. In particolare, la legge approvata nel 2018 sullo «Stato-nazione del popolo ebraico», voluta da Netanyahu e dalla destra religiosa. Ma Hwr cita anche «il crescente corpus legislativo che privilegia gli abitanti degli insediamenti nella West Bank e che non si applica ai palestinesi che vivono nello stesso territorio», l'espansione degli insediamenti e delle vie di collegamento in una «chiara volontà di mantenere il predominio degli ebrei israeliani».
Tutto ciò, secondo Hwr, si può ascrivere al «razzismo». Molte voci critiche, puntualizza Kenneth Roth, direttore esecutivo della ong, «hanno avvertito per anni che l'apartheid faceva capolino dietro l'angolo, se la traiettoria del governo israeliano sui palestinesi non fosse cambiata: questo studio mostra che le autorità israeliane hanno già svoltato l'angolo e oggi stanno commettendo i crimini contro l'umanità di apartheid e persecuzione». Fra gli abusi denunciati ci sono «la restrizione di movimento da Gaza», la «confisca di oltre un terzo del territorio nella West Bank», il «trasferimento forzato di migliaia di palestinesi dalle loro case», il diniego «dei diritti di residenza a centinaia di migliaia di persone», la sospensione dei «diritti civili di base» a milioni di palestinesi, specie nei Territori.
Le autorità israeliane hanno poi adottato politiche per mitigare quello che considerano una «minaccia demografica», in particolare a Gerusalemme, con l'obiettivo dichiarato di «mantenere una solida maggioranza ebraica» e l'indicazione di precisi target. E proprio la Città Santa è di nuovo al centro di scontri fra ultraortodossi e palestinesi. A preoccupare, come sottolinea lo storico arabo-israeliano Sami Abou Shahadeh, è la presenza dei «fanatici kahanisti, aizzati dai parlamentari Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, alleati di Netanyahu», giovani estremisti che gridano «morte agli arabi».
L'irruzione alla Knesset del movimento ultranazionalista che si ispira al rabbino newyorchese Meir Kahane è un altro segno dei tempi. Mentre sull'altro fronte regna l'immobilismo. Il presidente Abu Mazen sta per annunciare l'ennesimo rinvio delle elezioni, proprio perché non ha ricevuto garanzie sulla partecipazione degli elettori palestinesi a Gerusalemme.
(La Stampa, 27 aprile 2021)
Una sottile tecnica per diffondere sui media di mezzo mondo articoli che stravolgono completamente la realtà dei fatti consiste nel riportare le parole altrui, meglio se sono quelle di una organizzazione internazionale (nota per altro per le posizioni sempre violentemente contro Israele). Ad eventuali osservazioni Stabile potrebbe così rispondere che quelle non sono parole sue. La mancanza di qualsiasi commento nell’articolo di Stabile dimostra che oggi La Stampa, giornale che fu autorevole in anni lontani, da quando alla direzione è arrivato Massimo Giannini si è infilato nel filone del manifesto e del fatto quotidiano. Emanuele Segre Amar
Iran: un nastro audio inguaia Zarif e mostra al mondo chi comanda a Teheran
Ennesima fuga di notizie dall’Iran. Questa volta è un nastro audio nel quale il Ministro degli esteri iraniano attacca a spada tratta le Guardie Rivoluzionarie, il defunto Generale Soleimani e persino la Russia.
di Franco Londei
È una vita che sosteniamo che in Iran comandano le guardie rivoluzionarie, come uno stato nello stato agiscono sul fronte economico e su quello militare senza chiedere il permesso a nessuno.
Non è certo quindi una novità. Ma se a dirlo è il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif la cosa assume tutto un altro significato.
In un nastro audio trapelato non si sa come di cui parla oggi il New York Times, Zarif critica duramente il defunto Generale Qassem Soleimani, capo della potentissima Forza Quds ucciso dagli americani nel gennaio dello scorso anno.
Il ministro degli esteri iraniano racconta che Soleimani e la Russia cercarono in più di una occasione di sabotare il primo accordo sul nucleare iraniano.
Tra le altre cose, nel nastro Zarif critica Soleimani per aver permesso agli aerei da guerra russi di sorvolare l’Iran per bombardare la Siria, per aver spostato attrezzature militari e personale in Siria usando la compagnia aerea di proprietà statale Iran Air all’insaputa del governo e infine per aver dispiegato Forze di terra iraniane in Siria.
Zarif ha detto che la Russia non voleva che l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) avesse successo e “ha messo tutto il suo peso” dietro la creazione di ostacoli perché non era nell’interesse di Mosca che l’Iran normalizzasse le relazioni con l’Occidente.
A tal fine il Generale Soleimani si sarebbe recato diverse volte a Mosca per decidere con i russi come fare a demolire i risultati ottenuti sul JCPOA dalla diplomazia.
«Nella Repubblica Islamica governa il settore militare» afferma perentoriamente Zarif nell’audio.
Questa ultime dichiarazioni esplosive, contenute nel file audio trapelato, sono state forse quelle che più di tutti hanno spinto i tanti oppositori di Zarif a chiederne le dimissioni.
Compromessi i negoziati per un nuovo accordo nucleare?
In molti sostengono che dopo questa (ennesima) fuga di notizie la credibilità di Zarif sia ridotta ai minimi termini e che quindi i neonati negoziati per riprendere il vecchio JCPOA siano falliti prima ancora di cominciare.
A beneficiarne per motivi diversi sarebbero i Guardiani della Rivoluzione Islamica, che non vogliono accordi che rallentino la loro corsa all’arma nucleare, e Israele che considera qualsiasi accordo un modo per gli iraniani di guadagnare tempo e arrivare così all’arma atomica.
Al di la delle conseguenze interne di questa ennesima fuga di notizie in Iran, quello che appare chiaro è che la Repubblica Islamica è totalmente nelle mani delle Guardie Rivoluzionarie, sia a livello politico che a livello militare.
Quello che dice il Ministro degli esteri iraniano non è niente che possa sorprendere, ma il fatto davvero straordinario è che sia un personaggio così importante come Zarif a dirlo.
Il nastro fatto trapelare contiene una serie di accuse alle Guardie Rivoluzionarie davvero al limite dell’incredibile e dimostra quanto potere abbiano i pasdaran.
L’ex vice-presidente iraniano Mohammad Ali Abtahi ha paragonato, come gravità, questo nastro al furto di documenti segreti sul nucleare perpetrato a Teheran dal Mossad.
(Rights Reporter, 27 aprile 2021)
Come ti smonto i cliché antiebraici
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