giovedì 30 dicembre 2021

L'idea di democrazia alla prova delle emergenze del nostro tempo.

La crisi delle democrazie attribuita a molti e complessi fattori storici, non ultimo l'irrompere della pandemia, mette a nudo la loro fragilità e (soprattutto) la loro stessa sicurezza in termini di difesa e di tenuta sociale. Le insidie destabilizzanti promosse dai dispotismi orientali e le mai sopite minacce rappresentate dal terrorismo e dal fanatismo di ogni sorta richiedono una profonda riflessione sui valori democratici che non può non investire l'educazione e la formazione sia delle classi politici che di settori rilevanti della società: una società prigioniera delle seduzioni devastanti dei social e delle menzogne complottiste, oltre che nell'affermarsi di distorsioni intellettuali come quelle della falsificazione della Storia e delle mitologie aberranti e pericolose della cancel culture e del politically correct. 
Casalino Pierluigi 

domenica 26 dicembre 2021

A trent'anni dalla fine dell'URSS.


Se la Cina gioca d'azzardo sul quadrante internazionale nel nome di una mai spenta vocazione imperiale di stampo marxconfucianocapitalistica, la Russia, a sua volta, ripercorre, a trent'anni dalla fine dell'URSS, la propria storia, fondata sul prevalere del potere sulla comunità e sui singoli. Un ritorno al nazionalismo, dunque, con l'uomo forte Putin, nuovo zar, dispotico e intollerante di ogni dissenso, che rincorre l'affabulazione dell'Armata Rossa ed usa la Storia con abile capacità di falsificazione per promuoversi agli occhi del popolo russo. Un popolo russo che mostra, peraltro,inediti segnali e fermenti che rivendicano indipendenza e libertà da un vertice tradizionalmente messianico, slavofilo e autocratico.
Casalino Pierluigi 

sabato 25 dicembre 2021

La sfida per la libertà. L'Occidente di fronte a Cina e Russia.


Se i progressi missilistici cinesi (e russi ovviamente) hanno accelerato la vigilanza degli Stati Uniti e degli alleati sul piano della difesa e del consolidamento della linea di contenimento del dispotismo orientale, dall'altro fa alzare il livello dell'attenzione con il possibile rischio di conflitti. La ricerca di affermare i diritti umani in chiave cinese e russa, l'espandersi delle iniziative culturali toralitarie e non certo in sintonia con i tradizionali valori democratici, ma anche e soprattutto le azioni di destabilizzazione della sicurezza dei Paesi occidentali, oltre che i tentativi di corrompere le élites locali nei diversi continenti ai fini strategici delle due potenze, rappresentano vere minacce alla nostra civiltà. Pretendere pari legittimità per i Paesi autoritari rispetto a quelli democratici costituisce già di per sé una strumentalizzazione delle relazioni internazionali, fondate non solo sugli equilibri di forza, ma anche sul riconoscimento di principi inalienabili e comuni alle persone ovunque. Russia a parte, la narrazione del Partito Comunista Cinese, diffusa a larghe mani e sicuramente da non confondere con la totalità del popolo cinese, mette a rischio la libertà di molti stati, a partire da Taiwan per arrivare a quelli africani, dove la leva dell'indebitamento serve a Pechino per introdurre in molte aree geopolitiche emergenti un nuovo e più insidioso colonialismo. Alla luce di tutto ciò e per tornare alla questione di Taiwan, il presidente americano Biden, in una rara continuità con il suo predecessore Trump, ha potenziato le difese asimmetriche dell'isola, confermando una presenza credibile degli USA nella regione.
Casalino Pierluigi 


mercoledì 22 dicembre 2021

La Francesca da Rimini in Dante.

Francesca da Rimini è l'eroina cantata da Dante che tutti affascina, un'eroina moderna e dolente come il suo sfortunato compagno. L'argomento è fondamentale, ed è lo stesso Dante a dircelo e a impostarlo,sin dal momento in cui le racconta del suo innamoramento di Beatrice a nove anni in modo "esclusivo ed intensissimo più forte della morte": precisamente come sarà quello di Paolo e Francesca in Inferno, V. Precisamente, ma fino ad un certo punto. Perché mentre la Beatrice della Vita nuova è sublimata in angelo, Francesca, sebbene nella simpatia dantesca provi ad elevarsi, angelo proprio non è. Tra la Beatrice della Vita nuova e la Francesca della Commedia si svolge tutta la storia di "amore e di colpa" di Dante: la prima assume il carattere dell'amore disinteressato, la seconda incarna, invece, la colpa. Proprio in quel celebre passaggio esplode una passione erotica poco controllabile, che sembra congelare il progresso di Dante verso il ritorno di Beatrice in Purgatorio XX. Tutte le contraddizioni dell'amor cortese e dei cuori gentili emergono qui, in una delle pagine più famose al mondo della Divina Commedia: dove dominano Eros e Thanatos e dove ai due "paion si al vento leggieri" è contrapposta la pesantezza del Sommo Poeta, il quale dopo il racconto cade svenuto a terra " come corpo morto cade". Così descritto e fatale è quel racconto dal triplice Amore dell'inizio al punto cruciale del bacio e al termine della lettura dei due amanti, che esso risuona nei secoli. E nel quale emergono i frammenti del primo discorso di Francesca a Dante: "...che parlar vi piace...mentreche' il vento, come si fa, tace.
Casalino Pierluigi 

domenica 19 dicembre 2021

Gaetano Mosca, la teoria della classe politica, 2




La teoria della classe politica di Gaetano Mosca appare straordinariamente attuale ad 80 dalla morte del grande studioso. Nelle opere di Mosca ritroviamo, infatti, due definizioni-tipo di classe politica, dirigente e politica, spesso confuse e identificate nelle seguenti elaborazioni "classe speciale di persone che forma il governo", o "forze direttrici della società e quindi vere forze politiche". Il principio che accomuna entrambi i concetti, è quello che riconosce come unica realtà sociale, quella in cui una minoranza dominante governa la maggioranza; ma la soluzione per superare questa confusione, tra le due nozioni, è basata sulla distinzione di due livelli di generalizzazione: il primo più generale, in cui la classe politica e dirigente, sono tutt'uno, rappresentando le posizioni di potere e le forze sociali; quindi, una connotazione allargata della classe politica, in cui questa, è definita come l'insieme delle persone che esercitano la direzione politica, comprendendo la classe economicamente dominante, come i ceti abbienti, gli intellettuali, il clero, cioè tutte le capacità direttive del paese, a qualunque titolo costituite (religioso, sociale, politico).Il secondo, più specifico, si basa sulla distinzione dei rapporti tra potere nella società e nello stato. La teoria della classe politica, partendo dal presupposto che in qualunque sistema sociale è presente una minoranza dominante e una maggioranza dominata, giunge ad una "teoria del potere" utile per ricostruire i caratteri della formazione ed organizzazione dei gruppi politici dirigenti. L'importanza della classe politica, sta nel fatto che la sua costituzione, determina la politica e la civiltà dei diversi popoli.
Uno dei tratti fondamentali di una società, va ritrovato nella struttura della classe politica, cioè nella relazione tra i gruppi che detengono ed esercitano il potere, partendo dal postulato che la politica è sinonimo di lotta per la supremazia.In Mosca rintracciamo il rifiuto per l'utilizzo del termine élite, poiché il suo significato può condurre all'idea che coloro che sono al potere siano gli elementi migliori della popolazione. Le minoranze governanti sono formate in maniera che gli individui che le compongono: "si distinguono dalla massa dei governati per certe qualità, che danno loro una certa superiorità materiale ed intellettuale od anche morale…essi, in altre parole, devono avere qualche requisito, vero o apparente, che è fortemente apprezzato e molto si fa valere nella società nella quale vivono" oppure sono gli eredi di coloro che possedevano queste caratteristiche. Smentendo la teoria del principio ereditario nella classe politica, poiché se veramente essa appartenesse ad una razza superiore, non dovrebbe decadere o perdere il potere, come effettivamente accade, queste qualità sono costituite dal: coraggio personale, la lealtà, la capacità di lavoro, la volontà di innalzarsi, il senso di concretezza, l'energia nel comandare, ed altre ancora, che nell'insieme creano l'arte di governo.
"L'uomo di governo è colui che ha le qualità richieste per arrivare ai posti più elevati della gerarchia politica e per sapervi restare".All'uomo di governo, che Mosca definisce arrivista e trasformista, contrappone: "Uomo di stato è colui che per la vastità delle sue cognizioni e per la profondità delle sue vedute acquista una coscienza chiara e precisa dei bisogni della società in cui vive e che sa trovare la via migliore per condurla, con le minori scosse e le minori sofferenze possibili, alla meta alla quale dovrebbe o almeno potrebbe arrivare".Il male del governo parlamentare, è che in esso predomina la figura del politicante professionista, e manca quella dell'uomo di Stato. - fine.
Casalino Pierluigi 

Gaetano Mosca, la teoria della classe politica, 1


E' l'italiano Gaetano Mosca (1856-1941), che ha divulgato il concetto di classe dirigente politica (classe politica) nei suoi Elementi di scienza politica, la cui prima edizione risale al 1896. Mosca crede alla scienza politica e il principio di questa scienza gli sembra essere la distinzione tra la classe dei dirigenti e quella dei diretti. Il potere non può essere esercitato né da un individuo e neanche dal complesso dei cittadini,ma soltanto da una minoranza organizzata." Più grande è la comunità politica, più il numero dei governanti sarà  debole". La classe dirigente può essere tanto aperta (democratica) quanto chiusa (aristocratica). Questa distinzione relativa alla composizione della classe dirigente è indipendente dalla distinzione tra regimi burocratici e quelli liberali: e perciò, secondo Mosca, esistono burocrazie democratiche, come la Chiesa cattolica, e regimi liberali aristocratici. Ritenuto da alcuni studiosi uno dei più notevoli machiavellici, Mosxa è, in realtà, un acuto critico della democrazia, se pur resti legato ad una sorta di liberalismo aristocratico nella tradizione illuministica. "Il paese più libero, egli afferma, è quello in cui i diritti dei governati sono meglio protetti contro il capriccio arbitrario e la tirannide dei dirigenti". La libertà, sostiene Mosca, è equilibrio e non unità. Mosca non è assertore del cinismo in politica e non intende separare la politica dalla morale. Il regime di Mussolini non rappresenta solo la fine del sistema da lui criticati, ma anche la fine dei valori da lui amati. 1- segue.
Casalino Pierluigi 

lunedì 29 novembre 2021

"Il sacramento della penitenza e della riconciliazione" del dottor Matteo Vinai alla prova della Misericordia divina.


Giovane e brillante studioso imperiese di filosofia e di scienze religiose, e pur impegnato nel sociale e nella catechesi, il dottor Matteo Vinai sta promuovendo la presentazione del suo libro sul tema della penitenza e della riconciliazione. Muovendo dal pensiero di Sant'Agostino sul quale ha discusso con lode la tesi di laurea presso l'Ateneo genovese, Vinai affronta un un'argomento cruciale della coscienza umana, non solo del cristiano, approfondendo i legami che uniscono l'invisibile e il visibile della nostra persona, oltre che l'interagire delle nostre emozioni, sensazioni ed impressioni con la speranza salvifica che ci apre gli occhi della speranza e della rigenerazione dell'anima. Con un ricco apparato bibliografico e critico, la pubblicazione di Vinai ripercorre il filone dottrinale del sacramento della penitenza, senza nulla lasciare al caso, ma promuovendo un'analisi illuminante su uno dei momenti tipici dell'itinerario di conversione. Controcorrente con una parte del pensiero contemporaneo, Vinai riafferma il primato della coscienza, non relegandola ad un impressionante e semplicistico sistema neuronale. Il supplemento d'anima della coscienza risiede nella capacità di comprendere i nostri limiti e a riflettere sulla nostra condizione umana e fragilità esistenziale. La coscienza e l'interrogarci sul bene e il male in noi e da noi, sembra dirci Vinai, non possono essere ridotti ad un un algoritmo, né possono essere immersi nell'intelligenza artificiale di una macchina. In un'epoca sconfortante in cui il rumore e il troppo parlare travalica il silenzio e l'esame di sé, Vinai ci ricorda  invece, che il sacramento della penitenza supera ogni percorso della razionalità che mai riuscirà a fare di noi delle persone veramente umane. L'umiltà è la nostra autentica grandezza nel solco dei consigli evangelici. E attraverso l'umiltà si origina quel fremito di bellezza e di sofferenza ad un tempo che scioglie il ghiaccio del male e feconda la nostra esistenza. Su questo aspetto si basa l'insegnamento della Chiesa cattolica che, aldilà di ogni crisi storica, porta a avanti il messaggio centrale della Redenzione, che si manifesta nel rapporto tra colpa, amore e perdono. Un insegnamento che Vinai riprende nella consapevolezza che in un mondo sconvolto dall'egoismo e dall'odio solo la confessione dei nostri errori conduce alla trasformazione della coscienza  e a far sgorgare da essa una fonte viva di conversione (metanoia), di rinnovamento e di dialogo senza confini. In sintesi questa è la via verso la pace contro tutte le distorsioni dell'io provocate dal peccato e al recupero del dono della Misericordia divina.
Casalino Pierluigi 

domenica 28 novembre 2021

Genova, il Ponente ligure tra papa Innocenzo IV e Federico II di Svevia


Nel 1235 la Repubblica di Genova, impegnata con altri comuni italiani contro le pretese di Federico II di Svevia, re di Germania e di Sicilia, divenuto imperatore, intervenne con una flotta armata condotta da privati, anche di altri centri liguri, tra cui Sanremo(che con Genova ebbe sempre rapporti alterni), se pur controllata dallo Stato, per punire l'emiro di Ceuta, colonia genovese, che si era ribellato. La spedizione, al comando di Ugo Lercari, riportò un grande successo e i Saraceni, arrendendosi, pattuirono il pagamento di un forte indennizzo. Onde agevolarne l'incasso, i genovesi ottennero di poter riscuotere i diritti doganali comunque esigibili in loco. Il provvedimento relativo in lingua araba era detto "maunah" e da quella parola derivò il termine di "maona" posto ad indicare una "unione di creditori contro terzi". Nel frattempo Federico II, vittorioso contro i comuni italiani della ricostituita Lega Lombarda, il 27 novembre 1237, nella battaglia di Cortenuova, memore della disfatta di Federico Barbarossa, suo avo, a Legnano, fece portare il carroccio a Roma per esporlo nel Campidoglio a monito per i suoi nemici. Tuttavia i Comuni non si arresero. A Genova fu inviata una richiesta di totale sottomissione, alla quale la Superba rispose negativamente come aveva fatto con il Barbarossa. E poiché lo Svevo esortò alla rivolta contro Genova, Savona, Albenga, Diano, Oneglia, Porto Maurizio e Ventimiglia (già a suo tempo  insofferenti del dominio genovese e poi ad esso sottomesse), la Repubblica si alleò con Papa Gregorio IX, già ai ferri corti con l'imperatore, e, controvoglia, anche con Venezia. Dopo alterne vicende il Pontefice, nel 1241, indisse a Roma un Concilio per pronunciare una nuova scomunica contro Federico II, dopo quella pronunciata per aver soppresso le libertà ecclesiastiche in Sicilia e per il suo atteggiamento ambiguo in tema di crociate contro gli infedeli e la sua alleanza con il Sultano d'Egitto. Alla notizia dell'indizione del Concilio, Federico annunciò che si sarebbe opposto con le armi al transito in Italia, soprattutto via Liguria, dei prelati francesi, spagnoli e inglesi convocati a Roma. Genova mandò allora ventisette galee a Nizza, città ligure allora alleata della Repubblica di San Giorgio (da quando il partito genovese aveva assunto le redini della città,  estendendosi alla Rocca di Monaco), affinché i monsignori fossero imbarcati e trasportati ad Ostia per partecipare al Concilio. Successivamente Federico riuscì a sconfiggere sul mare la flotta ligure-genovese, ma Genova si riprese quasi subito con un capolavoro della sua marineria, che sorprese l'imperatore. Le galee genovesi trasportarono infatti il nuovo Papa Innocenzo IV, ligure di nascita, da Civitavecchia a Genova. Di lì il Pontefice si trasferì in Francia, via Ponente, per cercare l'alleanza con quel sovrano, riuscendo finalmente a far tenere il Concilio a Lione nel 1245. 
Casalino Pierluigi 


mercoledì 17 novembre 2021

martedì 16 novembre 2021

Dove va la Cina.


Il confronto tra Cina ed Occidente è più aperto di quanto sembri, nonostante che lo si riconduca al contesto (o schema) da guerra fredda non solo economica: un confronto che rischia di sottovalutare la Russia e i suoi tentativi di dividere le democrazie dell'Occidente e di destabilizzarle. Ma questa è un'altra storia. Per tornare alla Cina, va detto chiaramente che il confronto con l'Occidente non consente di comprendere adeguatamente come la Cina si sia posta in posizione dialettica con il modello occidentale e per quale via sia giunta all'attuale ruolo di superpotenza pur nel solco del suo classico solco di dispotismo orientale che l'accomuna alla Russia di sempre per il tipo di vocazione pilitica e storica che condivide con i regimi moscoviti. L'importante è, infatti, per una consapevole analisi della Cina, esaminare i concetti di popolo, di democrazia, sviluppo, spirito, potenza, nazione e altro ancora e verificarne l'interpretazione che a tali concetti viene data in Cina. E tutto ciò, senza dimenticare le tante contraddizioni ideologiche e politiche della Cina di oggi. Se è vero, a questo riguardo, che il termine chiave è sicuramente fuqiang (prosperità e potenza), teorizzato dall'antico filosofo Han Feinzi, e che la Cin mira sempre all'obiettivo della propria potenza e superiorità, alla continua ricerca della consacrazione di quel ruolo imperiale che è nel DNA cinese fin dalle origini. Un DNA che è ostile a quanto è straniero. Un Celeste Impero che ambisce ad essere l'Unico. Solo in questo modo Pechino tenta di annullare i propri traumi identitari. Con la sconfitta ad opera dei Giapponesi, la Cina si sentì relegata ad una posizione di inferiorità e a percepire la necessità di una rivalsa. Forse il solo atteggiamento di ammirazione e di stima la Cina lo ebbe nei confronti dell'Impero Romano, che ben conosceva e con il quale aveva contatti non irrilevanti. Il 2021 e' stato l'anno del centenario della nascita del Partito Comunista Cinese, anche non più pedissequamente uniformato al pensiero maoista. Se mai l'odierna RPC rappresenta la pragmatica continuazione dell'impero cinese in salsa confuciana e marxista. Non è un caso, in tale ottica, che le altre parole chiave per capire la Cina sono hexie( armonia) e wenming (spirito), sulla scia appunto del marxismo legato alle tesi di Li Dazhao nel 1923, intese ad orientare il Paese "verso un infinito futuro". All'inizio della riforma capitalistica di Dengxiaping del 1978, dopo lo strappo definitivo con l'Urss, la Cina ha vissuto un costante balzo in avanti, attraverso continue mobilitazioni alla ricerca di una fusione del sapere occidentale con l'anima cinese sulle basi di un socialismo pragmatica che ha rinunciato alla visione circolare della Storia. La Cina, peraltro, resta uno dei Paesi più deficitari dal punto di vista del rispetto dei diritti umani; e infine non è  da trascurare la possibile lotta di potere che si potrebbe aprire nel momento in cui entreranno in vigore i limiti di età per assumere incarichi in seno al Partito Comunista e sul fatto che anche il leader supremo debba misurarsi con essi. Uno scenario sul quale riflettere.
Casalino Pierluigi 

domenica 7 novembre 2021

Cos'è l'amore ?


In tanti hanno provato a spiegarlo, ma ancora oggi resta un concetto senza definizione. Forse è anche questo il bello dell'amore: il suo eterno alone di mistero.


Indice
 · Che cosa vuol dire "amore"
 · Che cosa significa amare
 · Quando si passa dall'innamoramento all'amore
 · Frasi sull'amore
I poeti scrivono su questo argomento senza sosta. Allo stesso modo, cantanti, filosofi e romanzieri non possono che essere affascinati da questo tema così vasto e complesso, che sfugge a qualsiasi definizione univoca. Il termine "amore" ha sempre fatto parlare, a volte anche discutere, proprio per la sua difficoltà e astrattezza. "Che cos'è l'amore?" è una domanda che si pongono in molti, ma in pochi sono riusciti a trovare una risposta condivisa da altri, dato che essa può variare a seconda delle differenti discipline, dalla filosofia alla psicologia, fino alla scienza e alla poesia.

Cercheremo di capire tutti i possibili significati e le sfumature dell'amore, tenendo in considerazione anche quando si passa dall'innamoramento all'amore vero e le diverse descrizioni che i vari poeti e scrittori ne hanno dato nel corso dei secoli. Tuttavia, sapevi che esistono persone che hanno paura di amare? Questo timore si chiama filofobia e si verifica più spesso di quanto si possa immaginare...






Vesi il Video di Domenica Melillo
Che cosa vuol dire "amore"
Tutti pensano di sapere che cosa sia l'amore, ma la verità è che in pochi realmente ne conoscono il significato. Innanzitutto, l'amore, quello vero, non è un'emozione, bensì un sentimento. Quest'ultimo si differenzia dalla "semplice" emozione per la sua durata: infatti, un sentimento dura nel tempo, si costruisce giorno per giorno e non è istantaneo e passeggero come l'emozione. L'amore nasce sì spontaneamente, ma va nutrito e coltivato con il passare del tempo.

Se cercassimo la sua definizione esatta sul vocabolario, troveremmo questo: «Sentimento di viva affezione verso una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia». Per quanto corretta possa essere, non potrà mai soddisfarci perché l'amore è sicuramente molto di più. È il sentimento delle contrapposizioni, nel suo essere sia irrazionale, perché quando ci "colpisce" non lo possiamo controllare, ma è anche logico. Lo è poiché tocca sia il cuore che la mente. Infine, è un affetto sia spirituale che fisico.

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Che cosa significa amare
Il termine "amore" deriva dal latino amor, amoris e inizialmente indicava quel desiderio che ci attrae verso un'altra persona. Questo sentimento aveva una connotazione più fisica e impulsiva, che lo rendeva carnale e quasi animalesco. Con il passare del tempo, però, l'amore ha assunto anche la sua componente metafisica e spirituale, avvicinato soprattutto al sentimento religioso condiviso da Dio e gli uomini.

Così, oggi, quando si dice di amare qualcuno, si sottintende sia un legame di tipo fisico che un rapporto di sintonia e complicità mentale. Amare veramente significa apprezzare qualcuno per quello che è, con i suoi pregi e difetti. Vuol dire scegliere una persona in libertà e desiderare il meglio per lei, volendo starle vicino sempre, nei momenti positivi e in quelli difficili della sua vita. Amare corrisponde ad anteporre la felicità dell'altro alla propria. È il verbo di chi preferisce dare piuttosto che ricevere, senza pretendere nulla in cambio, dedicandosi all'altro con attenzioni quotidiane e non per forza con grandi gesti.


Quando si passa dall'innamoramento all'amore
Quando ci s'innamora, ci sono segnali piuttosto evidenti. Si continua a pensare a quella persona, contando i giorni, le ore e i minuti che mancano al prossimo incontro. La sua presenza o anche solo il pensiero di rivederla possono rendere una giornata difficile, in cui sta andando tutto storto, meno pensante e più positiva. Allo stesso modo, ricordarla nella mente accelera i battiti del cuore, ci isola nell'intimità della nostra riflessione, rendendola una costante dei nostri discorsi a voce alta e non. L'innamoramento è l'idillio, è la fase dell'idealizzazione dell'altro e al tempo stesso il momento dove la passione prende il sopravvento. Tuttavia, come si capisce quando si sta passando da questo periodo all'amore vero?

Innanzitutto, come abbiamo già anticipato, l'amore vero di costruisce e lo si coltiva nel tempo. Non c'è regola "temporale" ben precisa, ma più ci si avvicina, più s'inizia a vedere il partner per quello che è, senza ideali. Si ama la sua persona con tutti i difetti, mettendo in secondo piano l'impulso di cambiarla. Per questo, l'amore vero richiede impegno, mediazione e volontà di scendere a compromessi. Inoltre, affinché una relazione duri per tutta la vita non deve mai venire a mancare l'intimità. Per intimità s'intende sia la sfera sessuale, con la passione e la sensualità indispensabili per una coppia, sia la sintonia emotiva, fatta di confidenze e complicità mentale.


Video di Domenica Melillo
Frasi sull'amore
Dato che l'amore è uno dei sentimenti più affascinanti, ma anche complessi e difficili da spiegare, molti poeti e romanzieri ne hanno scritto nei loro testi, mentre quasi ogni cantante ha cercato di spiegarlo nelle proprie canzoni. Per questo motivo, lasciamo ora la parola ai grandi autori, così da poter vedere come sia stato spiegato "il verbo amare" nelle diverse discipline e nel corso del tempo.

Frasi sull'amore in poesia e letteratura

Il vero amore ha inizio quando nessuna cosa è richiesta in cambio.
Antoine de Saint-Exupéry

L’amore è vaporosa nebbiolina formata dai sospiri; se si dissolve, è fuoco che sfavilla scintillando negli occhi degli amanti; s’è ostacolato, è un mare alimentato dalle lacrime degli stessi amanti. Che altro è esso? Una follia segreta, fiele che strangola e dolcezza che sana.
William Shakespeare, Romeo e Giulietta

Amor, ch'a nullo amato amar perdona
Dante Alighieri

L’amore è un mistero. Perché mai ci innamoriamo? È un grande furore che ci placa di tutti i nostri tormenti, è una grande pena che ci guarisce da tutte le guerre. L’innamorato è uno strano guerriero che sorride e vuole bene agli altri. L’innamorato fa sbocciare tutte le rose del mondo, ma gli altri le calpestano per un impulso improvviso di bruciante gelosia.
Alda Merini

Solo quando cessiamo di porre condizioni al nostro amore, cominciamo davvero a comprendere cosa significhi amare.
Leo Buscaglia

Il vero amore non è né fisico né romantico. Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà.
Khalil Gibran

L’amore impedisce la morte. L’amore è vita. Tutto, tutto ciò che io capisco, lo capisco solamente perché amo. È solo questo che tiene insieme tutto quanto.
Lev Tostoj

Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore lunga tutta la vita.
Oscar Wilde


Frasi sull'amore in filosofia

La più castigata frase che abbia udito: nel vero amore è l'anima che avvolge il corpo.
Friedrich Nietzsche

L’amore è composto da un’unica anima che abita in due corpi.
Aristotele

L’amore non si vede in un luogo e non si cerca con gli occhi del corpo. Non si odono le sue parole e quando viene a te non si odono i suoi passi.
Sant'Agostino

Amare è gioire, mentre crediamo di gioire solo se siamo amati.
Aristotele

Frasi sull'amore in psicologia

L’amore è possibile solo se due persone comunicano tra loro dal profondo del loro essere, vale a dire se ognuna delle due sente se stessa dal centro del proprio Corpo.
Casalino Pierluigi 

domenica 31 ottobre 2021

Miti greci.



Narrare i miti implica una scrittura specifica, in cui il poeta e il romanziere  – come già in altri testi consimili, penso soprattutto a Terre del mito – sembrano ricongiungersi in una dimensione nuova.
La sua lunga militanza, perché di questo si tratta, infine, per un mondo più libero, per un diverso rapporto con la natura e con l’amore, per una forma di resistenza umana, in nome della letteratura e della poesia, alla tecnica e alla nostra società, che definisce materialistica, povera, cieca, trova una felicità particolare quando, poniamo, ci racconta di Eros e Psiche e del loro amore impossibile, della loro carnalità che impone il buio e vieta a lei di gettare lo sguardo su di lui; di Eros che l’ha portate nel suo castello misterioso e ne ha fatto, attraverso l’amore, qualcosa di diverso e sconosciuto. Come in un’elegia, si inseguono le estati e i tormenti di Adone, follemente amato da Afrodite “per la prima volta innamorata davvero”, ucciso per gelosia da Ares in veste di cinghiale, riportato in vita da uno Zeus commosso, forse sedotto, dalle lacrime della dea e da quell’amore totalizzante, richiamato infine dall’Ade almeno per i mesi della primavera. E nel mito sembra risuonare con una musica diversa la sua poesia, poniamo quella struggente di Fioriture e rifioriture. Adone è anche uno dei primi essere umani divinizzati che risorgono, nella nostra storia di miti, riti e religioni, uno dei momenti (impliciti) in cui restiamo i fili tra la grecità arcaica e le religioni monoteistiche, non per darne un’interpretazione filologica ma diremmo appassionata: perché i miti li interroga, ma soprattutto li vive.
Casalino Pierluigi 




 "Viva il greco, lingua del confronto e dell'antitesi"
Non condanna né contesta né razionalizza, considerato che al vaglio della ragione, non proprio lo strumento ideale per affrontarle, le favole diventano inerti, talvolta persino irritanti: al contrario, le fa semplicemente proprie, le lascia risuonare in sé grazie a quel “dono ermeneutico” di cui parlava James Hillman, ovvero “la capacità di immaginare in modo mitologico” che, sosteneva il grande psicoanalista-filosofo, è un’arte “simile” a quella del poeta. Il suo non è un catalogo di miti, di schede, di ricostruzioni – come ce ne sono tanti – che tengono conto minuzioso della volatilità mitica. Le antiche storie non sono mai univoche e coerenti, hanno infinite variazioni, ma ruotano ovviamente intorno a un nocciolo potente e diremmo irradiante.




 La concezione di vita e morte nell'antica Grecia.
È questo l’argomento vero del libro, che i noccioli raggruppa e ordina per temi, anzi per figure: Figure del mito per ventiquattro movimenti umani è infatti il titolo della parte centrale e più corposa. I “movimenti umani” sono le passioni, i sogni, la forza e la debolezza dell’anima, secondo la definizione che ne dette Dante nella Commedia. E l’anima da “manutenere”, termine in sé ambiguo e di non univoca definizione, è qui a intendersi nel senso che le dette Hillman, per certi versi il punto di partenza dal quale Conte un poco, alla fine, sembra discostarsi muovendosi verso i temi della propria poetica. L’anima per lui è il luogo di convergenza tra corpo e spirito – in una sorta di struttura trinitaria.




  "Galatea", conturbante rivisitazione del mito di Pigmalione
Viene alla mente, ricordo dei nostri studi liceali, la “animula vagula blandula”, quella “hospes comesque corporis” perduta in luoghi incolori, ardui e spogli. Si trattava però, nei brevi versi dell’imperatore Adriano, dei luoghi della morte. In Conte, l’anima è altrettanto bisognosa di conforto, ma nella vita della soffocante contemporaneità. È minacciata, e viva. “Manutenerla” vuol dire riscoprirla, liberarla, persino aggiustarla rimediando alle offese e alle rotture, e questo si può fare cominciando a capire, ciascuno di noi, qual è il mito dominante della nostra vita, in che mito stiamo vivendo (pur senza esserne consapevoli): perché i miti non sono vangeli, non contemplano distinzioni etiche tra bene e male; semmai si equilibrano, si scontrano, si compongono. Apollo deve venire a patti con Afrodite per non chiudersi in una torre di solitudine, Hermes non può abbandonarsi alla sola leggerezza, e magari al commercio, Prometeo non può distruggere il mondo; Narciso deve essere temperato dall’energia oscura dell’amore, per non farci cadere nel solipsismo (la narrazione del suo mito è uno dei momenti più avvincenti, peraltro, del mito.)
“Se sai riconoscere i miti che stai vivendo, è già oltre il pericolo di tracollare”: quei miti, dice Conte alla “cara lettrice” e al “caro lettore”, le figure del mito greco, “che tu lo sappia o no”, si muovono “sulla scena della tua anima”.

L’ultima sezione, considerato il passo del viaggio nel mito, è quasi di necessità un libro d’ore, il vademecum per una manutenzione quotidiana delineato sui tempi della giornata, dal mattino alla notte. Non si tratta di preghiere ma di aforismi, talvolta ironici, quasi un lungo mantra, che va dal severo “Fai i conti coi tuoi desideri. Non reprimerli mai. Impara a governarli sempre” al delizioso: “Beato il paese che non ha bisogno di antieroi”.

Al quale aggiungeremmo di controcanto, e affettuosamente, un nostro codicillo che è tuttavia implicito nel discorso appassionato, anarchico e in fondo laico e nella stessa lettura dei greci: beato anche, e forse più, il paese che non ha bisogno di testi sacri.
Casalino Pierluigi 




sabato 30 ottobre 2021

L'amore ieri, oggi, domani....


L'amore del dolce stilnovo: cos'è cambiato da Dante ai giorni nostri?




 A partire dai secoli antichi che abbracciano i romanzi cavallereschi e la lirica provenzale, la scuola siciliana e il dolce stilnovo, per giungere all'arte di leggere e scrivere contemporanea, la donna ha ricoperto in tutta la sua esistenza un ruolo fondamentale: è stata l'oggetto del desiderio dell'uomo, analizzata e interpretata in molteplici modi.
Esempio fondamentale è proprio la bellissima "musa" ispiratrice Dantesca, oggetto dell'esaltazione del poeta, elevatissima creatura e irraggiungibile desiderio. E' una "donna-angelo", adorata dal poeta per la sua grazia, la sua gentilezza e le sue doti morali: si tratta di Beatrice, il tramite fra Dio e l'uomo.
Ma chi era veramente Beatrice Portinari? Sono molte le teorie a riguardo lasciate dai diversi studiosi. In molti credono che la donna che abbia fatto innamorare il famigerato poeta sia semplicemente una sua invenzione; molti altri, invece, credono che la fanciulla si possa associare alla sposa di Simone de Bardi.
Nonostante ciò è innegabile che questa giovane donna abbia lasciato una traccia indelebile nella letteratura italiana grazie al poeta.
Egli infatti le dedica la "Vita Nova", opera giovanile e raccolta di componimenti  in forma di prosimetro scritti tra il 1283 e il 1293 in cui egli stesso dichiara di averla incontrata per la prima volta a soli nove anni e di averla rivista esattamente nove anni dopo: la ripetizione non è casuale, in quanto rappresentante della Trinità che avvolge come un velo morbido la fanciulla, rendendola una creatura spirituale che suscita stupore. La ragazza, destinata a morire a soli ventiquattro anni, viene sollevata oltre le altre donne "angelicate" dei poeti stilnovisti, e lasciò in Dante un vuoto incolmabile, spingendolo a trovar rifugio dalla sua disperazione nella lettura di testi latini.
L'amore di Dante per Beatrice non si spense mai tanto che, nel 1307, il poeta la collocò nel Paradiso della sua "Divina Commedia": ella reincarna la sapienza teologica, è la fedele accompagnatrice delle anime buone nel regno dei cieli e la vediamo molto attenta a chiarire problemi di matrice filosofica e religiosa. 
Beatrice è maestra di verità, che permette al poeta di arrivare al Paradiso, e quindi, di raggiungere Dio.
Il gesto dell'Alighieri può essere considerato il gesto d'amore più bello nei confronti della sua amata: collocarla nel regno dei cieli non fa altro che sottolineare tutte le sue qualità migliori, che hanno colpito il poeta nel profondo.
La loro storia d'amore sempre un po' tormentata sarà destinata nel futuro a vivere per sempre, senza mai spegnersi: il ricordo di Beatrice vivrà per sempre nel miglior scritto di Dante.
E' inevitabile pensare quindi che la donna sia una figura estremamente importante per le arti e per gli artisti che, quando sono innamorati, sono capaci di esaltarla e rendere delle proprie opere dei veri capolavori, destinati a non tramontare mai. 
La questione, però, sorge spontanea: l'amore, sentimento presente da secoli nella vita di ciascun individuo e quindi di carattere universale, ha mantenuto la sua posizione nelle vite delle persone? Ma soprattutto, i sentimenti sono rimasti così forti proprio come in Dante nei confronti della sua amata, anche nei giovani d'oggi?
L'amore indubbiamente ha subìto dei cambiamenti nel corso degli anni, conservando alcuni tratti ed eliminandone altri: il corteggiamento, ad esempio nell'epoca dei mass-media, è stato oggetto di modifiche molto intense. 
Il nostro poeta stilnovista per riuscire ad attirare l'attenzione della sua amata, le dedicava scritti d'amore: oggigiorno i ragazzi mandano delle semplici "richieste di amicizia" nei social network o banalissimi messaggi su piattaforme di messaggistica. 
La questione presenta quindi una contraddizione: è impossibile pensare che un sentimento tanto acceso, così com'è l'amore, che dovrebbe "incendiare" i cuori degli innamorati sia via via andata a "freddarsi" con l'avvento della tecnologia. Non si vivono più i sentimenti in modo integrale e non c'è più l'imbarazzo dei primi incontri, dei primi sguardi e dei primi approcci fisici: si svolge tutto attraverso un banalissimo cellulare che, per forza di cose, tende a banalizzare anche l'affetto.
Nessuno può sapere cosa riserva il futuro, e per questo nessuno può sapere se l'amore tornerà ad essere come quello di Dante e Beatrice, un amore "d'altri tempi" proprio come quello dei nostri nonni, che conservano ricordi stupendi legati ad esso. Ma una cosa è certa: l'amore è un sentimento particolare che in pochi, -solo coloro che l'hanno provato almeno una volta nella vita- possono comprendere a pieno. E' importante saper prendersi cura delle persone con affetto e una volta raggiunto questo obiettivo, si sarà in grado di vivere la propria vita in modo migliore. E chissà se in un futuro ancora molto lontano le cose potranno trovare il loro giusto ordine, e quindi, l'amore tornare alla sua vera essenza e al suo vero valore.
Per ora, tutto ciò che resta da fare è aspettare e sperare pazientemente. 
Casalino Pierluigi 



L'amore nel dolce stil novo, 1.

L'amore nel dolce stil novo, 2.



La nuova concezione d'amore nel Dolce Stil Novo



 

Il Dolce stil novo nasce a Bologna con Guido Guinizzelli e si sviluppa in Toscana, particolarmente a Firenze, negli ultimi decenni del 1200. Gli Stilnovisti si pongono in contrapposizione con le poetiche precedenti (in particolare i rimatori siciliani e i guittoniani) per motivi che sono di ordine stilistico, ma soprattutto di ordine intellettuale. Infatti i protagonisti di tale movimento (Guinizzelli, Cavalcanti, Dante e altri ancora) si formano presso le più prestigiose università del periodo e la loro produzione poetica riflette e in parte dipende da questa propensione per la filosofia. Non è un caso che conoscano la speculazione aristotelica e cerchino attraverso questi strumenti di interpretare il fenomeno amoroso, naturalmente arrivando ad una profondità superiore (e, in questo senso, del tutto nuova) rispetto alle poetiche precedenti. Analizziamo alcune delle caratteristiche della nuova concezione sull'amore. Ad esempio, invece di accontentarsi del galateo cortese, provano ad applicare la teoria aristotelica di atto-potenza all'innamoramento. Ciò, se da un lato sembra peccare di intellettualismo, dall'altro, però, porta ad acquisire maggiore coscienza di un fenomeno che sembra del tutto legato all'istintualità sentimentale dell'uomo. Dante, nei canti XXVII e XXVIII del Purgatorio, spiega con molta precisione la nuova teoria d'amore e, in particolare, nei versi 19 - 33 del XXVII dice che la donna ha la facoltà di portare in atto il sentimento amoroso, che, essendo innato in ogni uomo, rimane in potenza fino all'intervento della donna stessa.

19

21 

      L'animo, ch'è creato ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto. L'animo, che è creato con una disposizione naturale ad amare, è pronto a muoversi verso ogni cosa piacevole, non appena è messo in attività da questo piacere.
Il concetto viene ribadito anche da Guido Guinizzelli, nella seconda stanza della canzone Al cor gentile rempaira sempre amore, e da Guido Cavalcanti nel sonetto che comincia in questo modo:

Voi che per li occhi mi passaste 'l core

e destaste la mente che dormia.

Collegato a tale funzione attualizzante, individuano un'altra caratteristica fondamentale: l'amore è 'signore', cioè è invincibile, quindi è vano resitergli. Come dice Guido Cavalcanti in Fresca rosa novella

40       E se vi pare oltraggio

 ch' ad amarvi sia dato,

 non sia da voi blasmato:

43       ché solo Amor mi sforza,

 contra cui non val forza - né misura.

L’idea che sembra essere al centro dello Stil Novo è che la donna ingenera sempre nell’uomo un sentimento di elevazione, di perfezione; l’amare stimola una ferma volontà di annobilimento che si tramuta in ansia metafisica e brama d’assoluto. Tale nobilitazione dell’animo è chiamata ‘gentilezza’, che sarebbe la perfezione dell’essere, contraria alla nobiltà di stirpe di sangue che invece era esaltata dalla letteratura cortese e cavalleresca. Va ricordato infatti come alla corte reale, che era lo sfondo immaginario della poesia provenzale e siciliana, si sostituisce qui una corte ideale di spiriti eletti, orgogliosamente uniti intorno a un mito rinnovato dell'aristocrazia intellettuale: con l'evoluzione sociale del Comune infatti, il concetto stesso di gentilezza ha perduto quel significato di “nobiltà di stirpe” che ebbe nella società feudale e mantenne alla Curia federiciana ed ha assunto un significato nuovo di “perfezione morale e spirituale”, fondata sull'”altezza d’ingegno”. Diversi testi parlano di questo tema:

Guido Guinizzelli

Al cor gentil rempaira sempre amore

come l'ausello in selva a la verdura

L’amore torna regolarmente (quindi ha la sua vera dimora - Contini) nel cuore gentile | come l’uccello nel bosco ritorna in mezzo al verde

                

e poco dopo, ai vv. 51-60

 

Donna, Deo mi dirà: "Che presomisti?",

52      siando l'alma mia a Lui davanti.

"Lo ciel passasti e 'nfin a Me venisti

e desti in vano amor Me per semblanti:

55      ch'a Me conven le laude

e a la reina del regname degno,

per cui cessa onne fraude".

Dir Li porò: "Tenne d'angel sembianza

         che fosse del Tuo regno;

60      non me fu fallo, s'eo li posi amanza".

Dante Alighieri, Vita Nova, XX

1       Amore e 'l cor gentil sono una cosa,

        sì come il saggio in suo dittare pone,

3       e così esser l'un sanza l'altro osa

        com'alma razional sanza ragione.

È per tale motivo che la figura della donna-angelo, già riscontrata in altre scuole poetiche, acquista un’identità nuova: non è più una metafora o un ornamento retorico (come era nella poesia cortese), ma è realmente l’Intelligenza mediatrice tra il poeta e Dio. Sempre Cavalcanti  in Fresca rosa novella

19     Angelica sembranza

        in voi, donna, riposa

Guido Guinizelli

1        Gentil donzella, di pregio nomata,

         degna di laude e di tutto onore,

3        ché par de voi non fu ancora nata

         né sì compiuta de tutto valore,

5       pare che 'n voi dimori onne fiata

         la deità de l'alto deo d'amore.

Proprio per questo basilare ruolo di tramite, e nonostante tale elevazione sovrumana, la donna non perde i connotati fisici, umani, reali, che, anzi, sono ben messi in evidenza. Infatti la donna è sempre collegata con l’esperienza vissuta, storicamente avvenuta. Non a caso rimane indispensabile il dialogo con la donna, nel senso che il poeta aspetta e implora sempre segni e gesti di corresponsione.
Casalino Pierluigi 

domenica 17 ottobre 2021

Il nazionalismo cinese. Un rischio per la sicurezza internazionale.

Gli attuali aggiustamenti di vertice impressi al capitalismo cinese mettono in evidenza l'emergere di una fase storica di crescente nazionalismo che non può che riflettersi sugli equilibri geopolitici dell'Estremo Oriente, ma anche su quelli globali. Il disagio sociale che il modello di sviluppo adottato in Cina fin dal 1978 provoca in parte della popolazione del Paese, soprattutto in quella delle periferie, ha spinto la leadership cinese ad assumere indirizzi politici improntati ad un'accentuata aggressività sul quadrante esterno. Ma aldilà delle contingenze economiche, la volontà di esprimere una via nazionale di potenza parte da lontano. Le occasioni del 70º anniversario della RPC nel 2019, e di recente, soprattutto, le celebrazioni del centenario del Partito Comunista Cinese e di quelle della rivoluzione del 1911 contro la dinastia imperiale hanno offerto l'occasione per Xi Jinping per alzare la voce sulle intenzioni egemoniche di Pechino e in particolare sull'intenzione di riunificare Taiwan al continente. Il nazionalismo come arma di coesione sociale e di esportazione dei valori del comunismo cinese attraverso una diplomazia culturale che rappresenta la longa manuale del Partito. L'esaltare dell'identità culturale estesa ad ogni gruppo cinese religioso e non, mediante le associazioni imprenditoriali e di amicizia che esportano la narrazione cinopopolare. Con analoga manovra Pechino tenta di impiantarsi in Occidente mediante il fare aderire al progetto cinese anche con la corruzione settori rilevanti dell'economia e della cultura. E così pure nei paesi emergenti. Tutto ciò per diventare un modello alternativo alle democrazie, pur in presenza di deficit importanti nel rispetto dei diritti umani e delle libertà civili.
Casalino Pierluigi 

venerdì 15 ottobre 2021

Dove va il mondo. Il ritorno della Russia e l'emergere della Cina.


Dal primo decennio del duemila, la Russia è tornata ad affacciarsi sul quadrante internazionale con le rinnovate ambizioni di superpotenza non più di stampo sovietico, ma con caratteristiche più conformi alla tradizione zarista. Rimando in proposito alle mie considerazioni sull'argomento già più volte formulate sul web, così come, analogamente, richiamo le mie riflessioni sull'altra potenza dispotica del mondo, la Cina comunista,che dietro alla politica nazionalista cerca di recuperare quel dissenso sociale interno, che in qualche modo emerge dal modello capitalistico adottato fin dai tempi del dopo Maozedong. Questi nuovi scenari non fanno venir meno le puntualizzazioni che si riferiscono al mondo nato all'indomani del crollo dell'ordine di Yalta. Contemporaneamente si nota un'autoflagellazione civile della più grande potenza mondiale, gli USA, sentimento che mette in crisi la sua leadership planetaria, in vista di un suo nuovo ruolo di superpotenza. Cio' nondimeno gli assetti planetari non si presentano per nulla stabiliti e si assiste ad un rimescolamento delle carte dovuto sia ad alcune variabili indipendenti come il terrorismo e sia al peso crescente della competizione in corso per gli approvvigionamenti energetici e delle materie prime soprattutto in considerazione dell'espandersi delle nuove tecnologie. Il futuro geopolitico si gioca ormai su questo piano.
Casalino Pierluigi 

giovedì 14 ottobre 2021

Dove va il mondo? Non una sola guerra fredda, ma più conflitti rischiosi verso una generale configurazione inizialmente non voluta. Una sintesi di esempi di crisi su cui riflettere. Scenari probabili, ma non scontati alla luce dell'mprevedile intreccio di alleanze inedite anche tra chi apparentemente è in contrasto.

La Storia ci mostra il ripetersi non sempre simmetrico, ma con ricorrenti categorie analogiche, di eventi incontrollati che sfuggono al calcolo delle diplomazie e alla ragionevole ricerca della conservazione degli equilibri. Gli attuali punti di criticità sul quadrante internazionale sui quali dal 2020 ha fatto irruzione a gamba tesa il covid 19 hanno reso ancora più vulnerabili gli assetti geopolitici, peraltro in fibrillazione a causa dell'alterazione dei mercati delle materie prime e delle risorse  energetiche.Circostanza questa che non esclude un'anti Opec, ad esempio, promossa proprio da America e Cina. Una serie di crisi dunque che coinvolgono il sistema finanziario multilaterale che non lascia scampo ad iniziative in ordine sparso. L'abbandono dell'Afghanistan da parte occidentale se da un lato significa un'esigenza di ritagliare spazi strategici di più alto profilo, dall'altro dimostra quanto sia ormai in atto una fase di riflessione sulle reali linee guida degli interventi di politica estera da parte dei vari protagonisti dello scenario mondiale. Meno marginale il contenzioso che ruota intorno a Taiwan su cui sono doverose alcune considerazioni di rilievo. Se, ipotesi oggi ancora improbabile, la Cina dovesse veramente attuare il piano di conquista dell'isola, e riuscirci, ci troveremmo di fronte al primo episodio di rottura della politica di contenimento promossa dagli Usa dalla fine della seconda guerra mondiale. Imprevedibili sarebbero le conseguenze sul piano strategico globale con riflessi assai pericolosi per la sicurezza di altre aree del mondo, come l'Europa. Certamente tuttavia anche una simile eventualità non sarebbe esente da rischi di errore di  calcolo, errore che si ripresenta esiziale per la pace universale. Non meno insidioso, se pur non per adesso così appariscente, il rapporto occidentale con la Russia in Europa reso più problematico dalla questione ucraina e dai ricatti di Mosca sul piano energetico e sui tentativi di destabilizzazione dell'ordine democratico. Di crescente cifra strategica il ruolo giocato in Africa dagli schieramenti delle potenze del mondo industrializzato, dove sfide terroristiche e problemi legati all'immigrazione incontrollata pongono seri interrogativi sulla stessa stabilità del Mediterraneo. Ecco alcune delle situazioni emblematiche della condizione degli affari internazionali che, gestite senza attenzione, possono sfuggire di mano con conseguenze gravi per la sicurezza del mondo.
Casalino Pierluigi 

L'era della pandemia ne IL FUTURO CONTRO IL VIRUS


L'era della pandemia, così inattesa, ma in ogni caso prevista secondo le naturali scansioni della Storia, ha provocato un fiume di parole e di incertezze demagogiche,pur segnando nuovi limiti all'intelligenza umana e persino, al tempo stesso, nuovi e più larghi orizzonti alla ricerca futura...Il futuro come componente essenziale dell'animo umano guarda oltre la congiuntura attuale e spinge avanti il secolo del rinnovamento. Le implicazioni geopolitiche scaturite dal nascere del virus non mettono fine all'ardimentoso e Dantesco amore di conoscenza. Questa nuova pubblicazione(ebook) di autori vari, tra cui chi scrive, pone in evidenza la dimensione epocale di un fenomeno fenomeno di ben più grande portata che segna in termini inediti l'affermarsi dell'uomo sui rischi e la fragilità dell'esistenza. Gli autori, sotto diverse, ma convergenti prospettive, indicano e decifrano il senso del cambiamento che l'età del virus rappresenta 
Casalino Pierluigi 

domenica 10 ottobre 2021

Saggezza islamica. Cos'è la guerra santa.

L'itinerarium mentis in Deum, il video meliora, sed deteriora sequor,tutti concetti cristiani del dominio di sé che evocano quello islamico di guerra santa, quello dal significato autentico che segna inequivocabilmente la mistica musulmana, aldilà degli stereotipi di maniera che circolano oggi, deformandone il senso originario. La genuina religiosità islamica insegna che la vera guerra santa è quella che combattiamo contro noi stessi per vincere le nostre cattive inclinazioni. Così ci insegnava già Seneca e il mondo pagano. L'insensata interpretazione di certi seguaci degeneri dell'Islam e gli stessi interessati luoghi comuni occidentali fanno perdere di vista il vero significato della guerra Santa come da principio prospettato. 
Casalino Pierluigi 

Saggezza islamica. al-Ghazali.

Scrive al-Ghazali, maestro di mistica islamica e filosofo, commentato in maniera magistrale anche dal compianto padre G. Celentano, da Massignon ed altri studiosi :...ho trovato il vero buon amico solo nelle buone azioni, che ti tengono compagnia anche quando entri nella tomba. Ho visto che la gente segue le proprie inclinazioni e rincorre i desideri dell'anima. Ho allora meditato la parola di Dio Altissimo: chi avrà tenuto di comparire davanti al suo Signore e distolto l'anima dalle passioni, il Paradiso avrà per asilo....mi sono affrettato a contrastare la mia anima e a proibire i suoi desideri, fino a che ha accettato l'obbedienza a Dio l'Altissimo (gloria a Lui). Ho visto che ogni essere umano corre dietro i beni terreni, e se ne impadronisce avidamente; ho allora meditato la parola dell'Altissimo: " quel che è presso di voi rapido passa, quel che è presso Dio dimora in eterno. Ciò che possedevo di beni terreni ho allora speso per amore di Dio e l'ho distribuito ai poveri, perché sia il mio tesoro presso Dio l'Altissimo". Iddio l'Altissimo ti assista; ho esaminato la Torah, i Salmi, il Vangelo e il Corano, ed ho trovato che i quattro libri hanno per oggetto i giusti vantaggi e chi li mette in pratica, metterà in pratica gli insegnamenti di questi quattro libri. Ecco pillole di saggezza islamica che ben si sposano con quella evangelica, là dove Gesù ci insegna che è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che un ricco entri in Cielo. Questa la lezione che sempre Gesù impartisce al giovane ricco che vuole sapere come si fa a raggiungere la vita eterna.
Casalino Pierluigi 

domenica 3 ottobre 2021

Traffici globali, un rischio per la democrazia


Il fitto intreccio di denaro illecito riciclati in tutto il mondo muove dall'azione promossa dagli oligarchi russi e si avvale della complicità di istituzioni apparentemente rispettabili nelle stesse societa' liberali dell'Occidente, mettendo a rischio la credibilità e la certezza del concetto stesso di democrazia come noi conosciamo. Il potere tentacolare degli oligarchi russi, anzi ex sovietici, è solo un aspetto, se pur il più vistoso di tale fenomeno, legato ad un gioco peraltro orchestrato secondo regole dettate dagli ordini di vertice, in altri termini da Putin. Questi dirige un sistema che si fonda su indirizzi ferrei, ai quali non ci si può sottrarre, come hanno dimostrato i processi farsa contro Khodorkovsky. All'inizio, in Occidente, ci si preoccupava che la transizione dal periodo sovietico di socialismo di mercato avvenisse nel rispetto dei principi dello stato di diritto; poi il fatto di pensare che pecunia non oltre ha prevalso, consentendo rapporti assai meno chiari, fino al coinvolgimento delle istituzioni democratiche occidentali, mettendole a servizio dei cleptocrati e lasciandosi inquinare da essi. Il caso della elezione di Trump ne fu un esempio. L'alleanza globale di questo tipo contiene ormai la Cina, l'Africa e l'America Latina. Un giro di traffici che vede al vertice, grazie anche ai servizi segreti russi e cinesi, le stesse leaderships di quei grandi Paesi, fino a recuperare farisaicamente regimi in apparenza ideologicamente diversi, come Iran, Corea del Nord e Pakistan.Tale alleanza può essere sconfitta come hanno dimostrato le elezioni americane, ma la via per una completa liberazione da una simile piovra.
Casalino Pierluigi 

sabato 11 settembre 2021

La Russia sovietica e la SdN.


Sin dalla sua fondazione, la Società delle Nazioni era stata giudicata dai bolscevichi come l'organismo che incarnava il disegno delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale di pacificare l'Europa sulla base degli esistenti rapporti di dominio. Anche se nel corso del 1923 l'atteggiamento sovietico verso quella organizzazione aveva subito delle modifiche non secondarie, fu la prospettiva che la Germania entrasse a farne parte ad imporre una riconsiderazione sia del ruolo della SdN, sia dei presupposti che avevano reso possibile a Rapallo un'alleanza fondata sul senso di un comune destino degli Stati proscritti  del sistema di Versailles. Le prime mosse diplomatiche del governo di Mosca, in seguito al cambiamento impresso da Streseman alla politica estera tedesca, furono ispirate dall'intento di ostacolare l'adesione della Germania alla SdN, appellandosi al risentimento tedesco contro l'articolo 10 del Covenant, che prevedeva l'obbligo per tutti gli Stati di difendere i confini stabiliti dal trattato di Versailles. Secondo i sovietici, l'eventuale ingresso tedesco nella SdN avrebbe consentito ai vincitori  di consolidare le conquiste ottenute con primo conflitto, con la perdita da parte di Berlino della possibilità di veder risolta la questione nazionale e di veder compromessi gli interessi del popolo tedesco, oltre a cadere nella trappola dell'Intesa. Mosca cercò di prolungare il ponte di Rapallo. I sovietici, in altri termini, puntavano ad impedire che si creasse un blocco degli Stati capitalistici sulla questione della sistemazione della Germania, coinvolgendo quest'ultima in una combinazione ostile all'Urss ad un prezzo assai gravoso. La Germania, secondo i bolscevichi, avrebbe avuto bisogno di riscoprire il suo ruolo di grande potenza solo con l'alleanza con i russi, rafforzando lo spirito di Rapallo. Alla Germania sarebbe servito il contrappeso della Russia nei confronti delle potenze occidentali. L'entrare in  istituzioni internazionali dunque non sarebbe convenuto alla Germania e del resto ciò corrispondeva ai principi della politica estera sovietica da sempre  contraria a coalizioni di potenze. Tuttavia il riavvicinamento franco russo, attraverso un patto di alleanza, sembrò raffreddare i rapporti tra Urss e Germania, ma si espresse anche nel tentativo della Russia di riaprire le prospettive di un impegno di quest'ultima a creare una politica paneuropea in senso anti inglese. Per evitare, peraltro, i rischi di uno sviluppo contraddittorio, la stessa Russia sovietica iniziò a lavorare per una alleanza tra Mosca, Berlino e Parigi che prevedesse pure un miglior rapporto tra la Russia e la Polonia. Betlino a sua volta, nel 1926, fece ingresso nella SdN.(ne uscì nel 1933). Dopo le riserve espresse sull'ingresso tedesco nella SdN, anche Mosca fini' per entrare nell'organismo, per esservi espulsa dopo l'invasione della Finlandia nel 1939.
Casalino Pierluigi 

sabato 4 settembre 2021

Confederati e stato pontificio


Durante il corso della Guerra di Secessione americana (1861-1865), i C.S.A (Confederate States of America) cercarono costantemente di guadagnarsi alleanze e sostegno dalle nazioni europee. La questione stessa del riconoscimento dello status di Nazione indipendente si delineò fin da subito come uno dei più importanti terreni di scontro delle diplomazie nordiste e sudiste (Jones 2010, 1). Quando scoppiò la guerra, nell’aprile 1861, il Governo sudista era molto ottimista riguardo la possibilità che Francia e Gran Bretagna scegliessero di sostenere la loro causai (Blumenthal 1966, 152). In realtà, tutti gli appelli dei confederati restarono senza risposta, tanto che gli unici alleati ufficiali dei C.S.A nel corso del conflitto furono i nativi indiani delle cosiddette Cinque Tribù⁵5 Civilizzate, ovvero Cherokee, Chickasaw, Choctaw, Creek, e Seminole (Franks 1972, 458-73). Come spiega Howard Jones, i C.S.A non avevano in realtà niente di concreto da offrire in cambio di un aiuto nella guerra, o comunque niente per cui valesse il rischio di inimicarsi il Governo di Washington (Jones 2010, 12). Anche se nel 1862 e poi nel 1863 la Gran Bretagna e la Francia sembrarono essere vicine a compiere il grande passo e riconoscere il Governo sudista, un complesso gioco di fattori politici ed economici fece sì che tutto si risolvesse in un nulla di fatto. Comunque, se non scelsero di appoggiare la Confederazione, le potenze europee non presero neanche una chiara e netta posizione a favore dell’Unione di Lincoln. In una lettera all’ambasciatore americano in Francia del 1863, il Segretario di Stato (nordista) Seward lamentava proprio l’atteggiamento poco amichevole ed ambiguo di Gran Bretagna, Francia e Spagna nei confronti del Governo federale. Dopo le fasi iniziali della Guerra, in cui il Sud si era dimostrato capace di reggere il confronto e perfino di prendere aggressivamente l’iniziativa, ben presto le differenze sul piano economico-industriale avevano fatto pendere l’ago della bilancia sempre più a favore dell’Unione, che disponeva di maggiori risorse di uomini e mezzi. Con la sconfitta subita nella battaglia di Antietam (Maryland, 17 settembre 1862) si può identificare il punto di svolta del conflitto, con l’arresto dell’offensiva confederata ed il ripiegamento del Sud in un atteggiamento sempre più passivo e difensivo (Testi 2003, 194). Sicuramente l’imbarazzo di intrattenere rapporti di amicizia con uno Stato fondato sullo sfruttamento della schiavitù giocò un suo peso nell’impedire un facile e veloce riconoscimento internazionale, ma come fa giustamente notare Henry Blumenthal, non bisogna esagerare l’importanza di questo aspetto. In effetti, Napoleone III ritenne sempre che la questione degli schiavi fosse solo un pretesto, e che le cause della Guerra Civile andassero ricercate in ben altre questioni politiche ed economiche (Blumenthal 1970, 96). Lo stesso Pio IX, oltre ad alcune caute raccomandazioni per una apertura graduale verso l’affrancamento, era contrario ad una emancipazione immediata e totale degli schiavi (Martina 1986, 488). Sicuramente, da questo punto di vista, gli intellettuali liberali di Francia e Gran Bretagna furono molto più interessati dei loro rispettivi Governi riguardo alla questione della schiavitù. La stampa cattolica, dal canto suo, non aveva simpatia per Lincoln, e vedeva anzi nel Proclama di emancipazione (22 settembre 1962) un illecito incostituzionale (Martina 1986, 487). In realtà, le questioni dietro alla neutralità anglo-francese erano più realiste che ideologiche (Jones 2010; 1). Londra temeva, senza dubbio, di inimicarsi degli USA forti ed espansionisti, che avrebbero potuto minacciare i loro territori in Canada o le loro mire in America Latina. Dal canto suo, Parigi seguiva i propri disegni per riportarsi sullo scacchiere americano, usando il Messico come stato fantoccio per ripristinare la propria presenza nel continente (Jones, 2010; 2). Come suggerisce Jones, bisogna tenere conto anche dell’andamento della Guerra. Se la Confederazione si fosse trovata in netta posizione predominante, allora molto probabilmente avrebbe ricevuto risposte positive dall’Europa (2005, 206). William H. Seward, segretario di Stato di Lincoln, era stato molto chiaro sull’argomento: qualsiasi riconoscimento agli Stati Confederati da parte di Francia o Gran Bretagna sarebbe stata interpretata come una dichiarazione di guerra verso gli Stati Uniti (McMahon, Zeiler 2012, 37). Non a caso, una popolare canzone nordista intitolata “We’ll fight for uncle Abe” recitava nell’ultimo verso:

“They say that recognition

Will the rebel country save,

But Johnny Bull [la Gran Bretagna] and Mister France [la Francia]

Are afraid of Uncle Abe [Abraham Lincoln].”

[Immagine n.1, Jefferson Davis and his cabinet, 1861. In: Harper’s weekly, v. 5, no. 231 (1861 June 1), p. 340. Library of Congress Prints and Photographs Division Washington, D.C. 20540 USA, http://hdl.loc.gov/loc.pnp/cph.3c32563]

In questo contesto di difficoltà diplomatiche, nel 1863 avvenne quasi casualmente che il Governo dei C.S.A si illudesse brevemente di aver ottenuto un riconoscimento ufficiale da parte di Papa Pio IX, in seguito ad un breve scambio epistolare tra quest’ultimo ed il Presidente confederato Jefferson Davis. Tutto aveva avuto inizio nell’Ottobre 1862, quando il Pontefice romano aveva inviato una missiva agli Arcivescovi di New York e di New Orelans, John Hughes e Jean Marie Odin, rispettivamente rappresentati del mondo cattolico nel Nord e nel Sud, chiedendo fermamente che si impegnassero con tutte le loro forze e con tutti i mezzi possibili a garantire e promuovere la pace per mettere fine alla devastazione della guerra (Allen 1999, 441). La divisione interna causata dalla secessione del Sud si rifletteva infatti anche all’interno del mondo religioso, che si ritrovò diviso tra le due parti in lotta. I cattolici statunitensi, infatti, attraverso le proprie autorità vescovili, abbracciarono solitamente la causa dello Stato in cui vivevano. Con l’Unione se nel Nord, con la Confederazione se nel Sudiii, anche se ovviamente non sempre senza riserve (non ultima quella riguardante la schiavitù, che rappresentava per diversi fedeli un problema morale non indifferente). Bisogna anche ricordare che i cattolici erano una minoranza negli Stati Uniti, e che le élite erano quasi sempre di credo protestante, cosa che creava un’ulteriore frattura. Il Papa temeva infatti che la guerra si trasformasse anche in una ferita intestina al mondo cattolico. Era del resto un pericolo non solo paventato, ma già concreto. Ad esempio, sembra che fossero comuni, negli Stati di confine tra Nord e Sud, i casi di cattolici favorevoli alla secessione che durante la messa della Domenica si alzavano ed uscivano nel momento in cui l’officiante recitava la preghiera per il Presidente (che era ufficialmente Abraham Lincoln)iv.
Nonostante ben poco potessero fare i due Arcivescovi, l’anno seguente, nel 1863, il Presidente dei C.S.A in persona Jefferson Davis inviò una lettera al Papa, ringraziandolo per il suo messaggio di pace dell’anno precedente. La missiva fu affidata ad Ambrose Dudley Mann, un diplomatico confederato che aveva precedentemente prestato servizio in Belgio. Le motivazioni che spinsero Davis a tentare di intraprendere un dialogo con il Pontefice romano erano da ricercarsi, secondo il politico unionista John Bigelow (1817- 1911) proprio in un preciso disegno strategico. Innanzitutto, scoraggiare i cattolici del Nord a continuare la guerra, o quanto meno raffreddarne di molto lo zelo combattivo. In secondo luogo, accattivarsi le simpatie dei Paesi cattolici europei, che, come abbiamo visto, erano rimasti fino a quel momento sostanzialmente sordi agli appelli confederati. Terzo, il Sud sperava evidentemente che il Missouri ed il Maryland, ancora indecisi su che posizione prendere nella guerra, si lasciassero condizionare dell’apertura papale verso la Confederazione, alla luce della relativa influenza che la comunità cattolica possedeva in quei due Stati (Bigelow 1893). Tuttavia, bisogna anche ammettere che Jefferson Davis fu un personaggio animato da un sincero e forte senso religioso. Lui, come gli altri leader sudisti, vedeva nell’apparente prosperità del Sud schiavista un inequivocabile segno della benevolenza e del favore di Dio, ritenendo anzi la Confederazione la regione della terra più sinceramente cristiana di tutte (Nichols-Belt 2011, 20). Questo tipo di pensiero non era estraneo neanche ai famosi eroi militari del Sud, Robert E. Lee e Thomas ‘Stonewall’ Jackson per primi. Come giustamente fa notare Nichols-Belt, per le alte sfere confederate la secessione era anche un atto religioso, oltre che politico (2011, 20). Del resto, la stessa schiavitù veniva presentata da molti predicatori religiosi come una benedizione data da Dio all’umanità, oltre che l’unica forma di civilizzazione possibile per gli afroamericani (Fritz 1999, 80). Non si deve insomma negare o sottovalutare l’importanza dello spirito religioso degli Stati del Sud. Arrivato a Roma nel Novembre del 1863, Mann fu ricevuto prima dal Cardinal Antonelli, Segretario di Stato pontificio, e poi da Pio IX in persona. Durante il suo incontro con Antonelliv, che ovviamente riprese ed espresse nuovamente le speranze per una sicura e veloce fine delle ostilità, Mann trovò il modo di protestare velatamente per il fenomeno dei massicci arruolamenti irregolari che il Nord conduceva in territorio europeo. Come lui, molti politici confederati ritenevano che se non fosse stato per quel continuo afflusso di uomini, il Sud avrebbe già da tempo vinto e concluso la guerravi. Poiché la grande maggioranza di queste reclute erano irlandesi, quindi cattoliche, i C.S.A si aspettavano l’impegno pontificio a porre fine a questo fenomeno (Martinkuns 1956 , Cap.2, 18). In effetti, come abbiamo prima accennato, la situazione per il Sud stava già velocemente volgendo al peggio. Uno dei motivi era proprio che il Nord poteva schierare sul campo un gran numero di uomini in più. La Gran Bretagna, che nelle idee dei confederati avrebbe dovuto rivelarsi un prezioso alleato, stava invece lasciando impunemente che il Nord di Lincoln reclutasse nel suo territorio soldati per la guerra. Si arrivò ad un punto di rottura già nell’Agosto 1863, quando Davis protestò apertamente contro l’atteggiamento inglese (Herring 2008, 249), un mese prima di inviare Mann a Roma.Nella sua lettera al Papa, Davis, che non era di confessione cattolica ma episcopale, si diceva estremamente sensibile alla Carità cristiana e rassicurava il Pontefice che il suo popolo era desideroso quanto lui di porre fine alla Guerra. C’era anche qualche accenno auto apologetico, almeno per quanto riguarda le cause e i fini del conflitto. Davis sosteneva infatti che:“we desire no evil to our enemies, nor do we covet any of their possessions, but we are only struggling to the end that they shall cease to devastate our land and inflict useless and cruel slaughter upon our people, and that we be permitted to live at peace with all mankind, under our own laws and institutions, which protect every man in the enjoyment not only of his temporal rights, but of the freedom of worshipping God according to his own faith.”In una lettera scritta subito dopo l’incontro con il Papa, Mann raccontò con una certa commozione al Segretario di Stato confederato Judah P. Benjamin che durante la solenne lettura e traduzione della missiva (Il Papa non poteva leggerla direttamente, in quanto non conosceva l’inglese) “every sentence of the letter appeared to sensibly affect him [Pio IX]”viii. Il Papa consigliò al diplomatico sudista di impegnarsi affinché il suo Governo si aprisse gradualmente all’emancipazione degli schiavi, ritenendo che su questa questione la Confederazione si alienasse molte simpatie all’estero. Tuttavia egli non prese mai una posizione netta sulla schiavitù americana, criticando anzi quei vescovi che parteggiavano per l’una o l’altra parte, ribadendo come ciò avesse a che fare solo con la politica e non con la morale (Martina 1986, 492). Pio IX in realtà non si sbilanciò mai a favore di nessuna delle due parti in lotta, ma si limitò a dirsi disposto a fare qualsiasi cosa in suo potere per aiutare a porre fine alla Guerra. L’incontro con Mann, in sostanza, fu molto formale e di pura rappresentanza. Mann, tuttavia, male interpretò la cortesia dei suoi interlocutori romani. Nella lettera a Benjamin si sbilanciò fino a dire che “we have been virtually if not practically recognized here”ix.L’incomprensione vera e propria nacque a causa di una lettera di risposta, indirizzata dal Papa a Jefferson Davis ed affidata allo stesso Mann. Nell’intestazione infatti vi si leggeva “To the Illustrious and Honorable Sir, Jefferson Davis, President of the Confederate States of America”x. Il fatto che il Papa usasse questo titolo presidenziale ufficiale creò in Mann la convinzione che si stesse implicitamente riconoscendo la Confederazione come Stato indipendente. Nella lettera a Benjamin del 9 Dicembre 1863, Mann si lasciò trasportare dall’entusiasmo e annunciò trionfante che:“There is a positive recognition of our Government. It is addressed to the “illustrious and Honorable Jefferson Davis, President of the Confederate States of America”. Thus we are acknowledged by as high an authority as this world contains to be an independent power of the earth. I congratulate you, I congratulate the President, I congratulate his Cabinet -in short, I congratulate all my true-hearted countrymen and countrywomen- upon this benign event. The hand of the Lord has been in it, and eternal glory and praise be to his holy and righteous name.”
Che la notizia avesse suscitato un certo interesse, anche a livello popolare, lo testimoniano i quotidiani stampati sul territorio confederato in quel periodo, che pubblicarono lo scambio di lettere tra Davis ed il Papaxii. L’equivoco dovette diffondersi anche in territorio nordista, se un giornale dell’Ohio intitolò addirittura “Recognition of the Confederate Government by the Pope of Rome. L’ottimismo di Mann era tuttavia mal fondato. Leggendo la lettera in questione, il Gabinetto confederato si accorse facilmente che il tono restava in realtà sempre il medesimo, neutro e conciliante, e che non si andava oltre i soliti inviti alla pace. Nonostante Mann si fosse lasciato trascinare dall’entusiasmo, Benjamin e Davis seppero rendersi conto della differenza tra quella che non era altro che una normale formula di cortesia ed un ufficiale riconoscimento della loro Confederazione. In una lettera di Benjamin allo stesso Mann, il Segretario di Stato confederato fece notare al diplomatico come quell’intestazione non fosse altro che “a formula of politeness to his correspondent, not a political recognition of a fact”. Ben presto l’entusiasmo sollevato dalle notizie di Mann sfumò. L’unico successo, seppur minimo, della missione fu rappresentato dall’apertura del Papa verso il reclutamento dei cattolici in Europa (Eaton 1965, 84) , una mossa con cui il Gabinetto Davis voleva colpire il forte flusso di irlandesi iscritti nelle liste di arruolamento nordista, di cui si è già accennato. Lo stesso Benjamin lo considerò l’unico parziale successo della missione romanaxv. Tra l’altro, sembra che Mann non fosse nuovo a questo tipo di equivoci o, per meglio dire, a questi eccessi di fiducia. Già nel 1862, durante il periodo in cui si trovava in Belgio, si era sbilanciato ad annunciare che la Confederazione era sul punto di concludere con Re Leopoldo il suo primo vero trattato. Ciò nonostante , Davis ed il Governo confederato vollero provare a battere ancora su quella strada, ritenendo evidentemente la Santa Sede un interlocutore più malleabile rispetto alle grandi potenze europee, o semplicemente quello meglio disposto nei loro confronti. Nel 1864 fu inviato un altro rappresentante alla Curia pontificia, nella persona dell’Arcivescovo di Charleston, Patrick Neeson Lynch. Lynch, nato in Irlanda ma cresciuto in South Carolina, supportava la causa confederata fin dall’inizio della guerra, ed aveva difeso pubblicamente lo sforzo secessionista in aperto contrasto con John Huges, il già citato Arcivescovo di New York (Pierpaoli, 2013; 1172). Nelle istruzioni riguardo la sua ambasciata, il Segretario di Stato Benjamin aveva esorato Lynch a mantenersi attentamente in equilibrio, senza insistere troppo nel chiedere il riconoscimento diplomatico, per non rischiare di indisporre il Papa o, peggio, costringerlo a rivedere la sua posizione di presunta simpatia verso la Confederazione. Piuttosto, il diplomatico-arcivescovo avrebbe dovuto aspettare un eventuale momento propizio di apertura del Papa per provare a perpetuare la sua richiestaxvii. Benjamin sapeva che molto difficilmente Pio IX si sarebbe sbilanciato a compiere un gesto politico così importante, tuttavia era pressato da un lato dalla necessità che quel gesto si compisse, dall’altro dalla volontà di mantenere quel poco di rapporto amichevole che si era instaurato tra i due Stati.Nonostante a partire dal Giugno 1864 Lynch si incontrasse più volte con il Cardinal Antonelli e con lo stesso Pio IX, nessuna reale attenzione fu data alle sue richieste (Martinkus 1956, Cap.2, 24]. Lynch fu sempre ricevuto in Vaticano esclusivamente per la sua posizione episcopale, mai come rappresentante politico della Confederazione, stroncando così di fatto ogni speranza di reale dialogo politico tra le due parti. Lo stesso fallimentare risultato l’arcivescovo lo aveva ottenuto in Francia, alla corte di Napoleone III, la cui sincera religiosità egli aveva tentato di smuovere in aiuto alla sua causa. Avendo inoltre capito che la questione della schiavitù rendeva la Confederazione odiosa agli occhi di buona parte dell’opinione pubblica, Lynch pubblicò anche un pamphlet in cui paradossalmente denunciava la tratta internazionale degli schiavi, ma difendeva come legale ed utile quella perpetuata dagli Stati confederati (Pierpaoli 2013, 1172).Fallito anche questo tentativo, alla fine del 1864 toccò al diplomatico confederato della Virginia James T. Soutter incontrare il Papa. La necessità del riconoscimento ufficiale per i C.S.A era più pressante che mai, e Soutter si trovò nella delicata situazione di dover essere più insistente di Lynch sull’argomento. Pio IX ribadì tuttavia che non intendeva immischiarsi negli affari esteri di un altro paese con una azione diretta. A Soutter non rimase che ammettere, ormai apertamente, che al suo Governo sarebbe bastato solo ottenere il riconoscimento di Stato indipendente, e non un intervento fisico o una azione politicaxviii. Nonostante l’ennesimo insuccesso, il diplomatico sudista uscì dall’incontro sostenendo che “the Pope was our earnest friend, not only in the interest of humanity, but because he thought we had justice and right on our side”. Ma era ormai troppo tardi. Quando nel 1xx865 un disperato Jefferson Davis inviò segretamente Duncan Kenner in Europa, con l’incarico di promettere l’emancipazione degli schiavi del Sud in cambio del riconoscimento dei C.S.A (Herring 2008, 249), la Gran Bretagna rifiutò di concedere quanto le si chiedeva, seguita subito dopo da Napoleone III, desideroso di tenere la Francia in linea con le decisioni dei potenti vicini d’oltre manica (Jones 2010; 3). Altrettanto fece la Spagna, che si muoveva in politica estera tenendo gli occhi fissi alle decisioni inglesi e francesi, e che non volle mai sbilanciarsi nonostante parecchi membri dell’aristocrazia e degli schiavisti creoli nelle colonie parteggiassero per la Confederazione (Bowen 2011, 81). Chiaramente, la freddezza e la neutralità delle grandi potenze scoraggiò gli altri Paesi a prendere posizioni diverse.
Le missioni diplomatiche dei C.S.A presso la Santa Sede si risolsero quindi in un fallimento, negando agli Stati secessionisti quel riconoscimento internazionale che avrebbe, nei loro piani, potuto aiutarli nella lotta contro il Nord. Il Papato non riconobbe la Confederazione, che del resto si trovava a quel punto ormai alle battute finali della sua esistenza. Nonostante i tentativi si fossero susseguiti fino all’ultimo, già alla fine del 1863 il Sud aveva perso ogni realistica speranza in un riconoscimento dall’estero, per non parlare della possibilità di un aiuto militare (Bowen 2011, 137). Il 9 Aprile 1865, infine, nella località della Virginia nota come Appomattox, il Generale confederato Robert E. Lee si arrese a Ulysses S. Grant. Nei giorni successivi anche gli altri comandanti dei C.S.A deposero le armi. La guerra era finita.

Tuttavia il rapporto tra Davis e Pio IX non si concluse con la fine della guerra. Nel 1865, dopo la resa del Sud, l’ex Presidente dei C.S.A venne imprigionato per due anni, nonostante il Nord avesse tenuto un atteggiamento tutto sommato conciliante verso i ribelli sconfitti, e fu rilasciato solo dietro pagamento di una cauzione. Durante questa prigionia, nel Dicembre 1866, Pio IX inviò a Davis una propria fotografia, che recava sul retro una sua scritta autografa in latino “Venite ad me omnes qui laboratis, et ego reficiam vos, dicit Dominus” (Venite a me, voi tutti che siete oppressi, e io vi darò ristoro, disse il Signore). Era una citazione dal Vangelo di Matteo, 11:28. Secondo alcuni, il Papa aveva inviato insieme alla foto anche una corona di spine, ma si è recentemente appurato come questa provenisse invece da Varina Davis, moglie dell’ex Presidente sudista (Allen 2014). Pio IX dimostrava dunque una certa empatia con la sfortunata sorte di Davis, nonostante ciò non implicasse alcuna reale adesione o rimpianto per la causa confederata. Quando Pio IX morì, nel 1878, Davis scrisse una lettera al “Catholic Universe” dove lo rimpiangeva come uomo straordinario e pio, ricordando come gli fossero stati di conforto, durante i duri anni di prigionia, quel suo regalo e quelle sue parole.Nonostante non ci siano notizie e fonti chiare sull’argomento, sembra comunque che nel periodo che seguì la Guerra Civile, tra molti simpatizzanti ed ex-confederati si diffuse il mito che Pio IX fosse stato favorevole agli sforzi sudisti. Almeno, è quanto si evince da un articolo dell’11 Novembre 1893 sul “The Sacred Heart Review”, giornale cattolico e nordista edito a Boston, che si scagliava contro non meglio precisati “bigotti” che negli anni precedenti avevano tentato di rendere popolare questa visione filo-sudista del Papa. Lo stesso generale Lee, finita la guerra, avrebbe detto ad un suo ospite, indicando un ritratto del Papa: “the only sovereign […] in Europe who recognized our poor Confederacy ” (Allen 1999, 441). Non deve stupire in fondo che i cattolici, ma non solo, appartenenti all’ex Confederazione cercassero in qualche modo di costruire sopra quello scarno e fallimentare scambio di lettere del 1863 un motivo di orgoglio per dare un senso a quanto avevano patito. Abbiamo già accennato, infatti, al profondo sentimento religioso e mistico che permeava gli Stati del Sud. Così come, dal canto loro, i cattolici del Nord (come il “Sacred Heart Review”, appunto) cercarono probabilmente di minimizzare i contatti amichevoli dei C.S.A con la Santa Sede. Anche Bigelow, fiero unionista, tace sul gentile e amichevole dono che Pio IX volle tributare a Davis durante la sua prigionia, concludendo il suo breve resoconto con una pungente riflessione sull’incapacità della diplomazia confederata e sulla poca lungimiranza dei suoi leaders. (Bigelow 1893, 473).

Sulla reale posizione tenuta da Pio IX sulla questione della Guerra Civile, ci sono opinioni contrastanti. Se è vero che il pontefice ammise esplicitamente una certa simpatia per il Sud al rappresentate britannico Odo Russell nel Luglio del 1864 (Martina 1986, 488) è anche un dato di fatto che egli non venne mai meno alla sua neutralità. Il Cardinal Antonelli, dal canto suo, nell’ incontro con il diplomatico nordista Blatchford, espresse esplicitamente convinzioni unioniste e sottolineò addirittura l’incostituzionalità del comportamento degli Stati sudisti (Stock 1923, 117); e ciò apparentemente in aperta contraddizione con il ritratto più prettamente filo-confederato dell’Antonelli che si evince dalle lettere di Mann. Il Segretario di Stato nordista Seward, del resto, aveva raccomandato ed ottenuto dai suoi emissari a Roma di giungere ad una reciproca promessa di amicizia con lo Stato Pontificio, evitando qualsiasi ingerenza negli rispettivi affari. L’Antonelli aveva prontamente rassicurato che i cattolici statunitensi non avrebbero preso parte alla guerra in quanto cattolici (Stock 1923, 114). Piuttosto, si può ritenere, come Martina, che Pio IX ritenesse la Confederazione più aperta e possibilista riguardo un accordo di pace, considerando invece il Governo federale più restio in tal senso (1986, 492). Cosa del resto ovvia, dal momento che per il Sud una pace concordata da un posizione di parità avrebbe costituto l’ufficiale riconoscimento delle proprie rivendicazioni e, di fatto, la sua secessione dall’Unione.La stampa cattolica invece, soprattutto giornali come “L’osservatore Romano” e “La civiltà cattolica” manifestarono più di una volta un aperto appoggio alla causa confederata (Martina 1986, 486). Del resto, la stessa opinione pubblica sudista sembrò illudersi dell’idea che tra il loro Governo ed il Papa scorresse buon sangue.
Nel Luglio 1864, il “Semi-Weekly Standard” di Raleigh, North Carolina, scriveva a proposito del contrasto tra Pio IX e Governo federale sulla nomina degli Arcivescovi di New York e Baltimore.xx:
“His Holiness, having a supreme contempt for the recommendations of Seward, and no sympathy for a government that desecrates the churches of both Catholic and Protestant, gave no consideration to the recommendation of Seward but appointed the gentlemen named above [cioè i due nuovi Arcivescovi, rispettivamente McClusekey per New York e Spaulding per Baltimora]
In conclusione, i tentativi diplomatici dei C.S.A in Vaticano furono, nel migliore dei casi, una perdita di tempo. Agli impedimenti oggettivi per il successo della loro politica estera, si aggiunse anche l’impreparazione della diplomazia confederata, che gli storici sono concordi nel ritenere non all’altezza del difficile compito (Herring 2008, 226). Questi fattori fecero si che il Sud si ritrovasse solo. La Francia decideva infatti in base alla posizione inglese, cioè un paese non cattolico, su cui poco o niente pesava l’autorità di Roma. Entrambi poi condizionavano le altre nazioni. Al di la delle varie speculazioni sulla più o meno reale simpatia personale di Pio IX per la causa confederata, la sua posizione ecumenica gli impedì senz’altro qualsiasi reale azione in favore di una o dell’altra parte in lotta. D’altra parte, si può ritenere anche che seppure il Papa avesse riconosciuto i C.S.A, ben poco sarebbe cambiato dal punto di vista delle alleanze europee e sull’andamento del conflitto.

Biography
i Henry Bluementhal riconduce questa eccessiva sicurezza a due ragioni principali. Innanzitutto, il Sud riteneva di avere con l’Europa un maggiore legame culturale rispetto al Nord. Inoltre, credeva che la cosiddetta “King Cotton Diplomacy”, ovvero la minaccia di istituire un embargo del cotone verso Gran Bretagna e Francia, avrebbe permesso di porsi in una posizione di forza nelle contrattazioni diplomatiche. Cfr: Bluementhal 1966, 156.

ii William H. Seward, Secretary of State, Letter to William L. Dayton, Ambassador to France, n.406, Washington, September 26, 1863, Department of State, Washington. Online all’indirizzo: http://teachingamericanhistory.org/library/document/letter-to-william-l-dayton-ambassador-to-france-2/

iii Ad esempio, quando nel 1863 Pio IX raccomandò venti giorni di devozione per la pace in America, il Vescovo sudista di Richimond John McGill esortò i suoi fedeli a pregare, ricordando però che ciò non implicava una rinuncia ai loro diritti e alla loro libertà. Il ché sostanzialmente si traduceva in un invito a continuare a combattere per la secessione. Cfr: The Wilmington Journal, December 03, 1863, p.4, Chronicling America. Historic American Newspapers, Lib. of Congress.

iv “Rebel refinement”, The Nashville Daily Union, Nashville, Tennessee, July 03, 1ķi863, p.2. Historic American Newspapers, Lib. of Congress.

The Daily Intelligencer, Wheeling, Va.[W.Va.], June 26, 1863, p.2. Historic American Newspapers, Lib. of Congress.

v Nel suo resoconto a J.P. Benjamin, Mann sottolineava non senza una certa soddisfazione di essere stato ricevuto dall’Antonelli nello stesso ufficio dove il Cardinale riceveva tutti i rappresentanti diplomatici delle potenze estere, quasi a voler sottintendere di essere già vicino al compimento della sua missione. Cfr: Letter from A. Dudley Mann to Hon. J.P. Benjamin, Secretary of State, No.66, Rome, November 11, 1863, in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, including diplomatic correspondence, 1861-1865, Edited and compiled by James D. Richardson, Chelsea House-R. Hector, 1966, New York, p.589

vi

 ibidem.

vii Letter from Jefferson Davis, President of the Confederate States of America to Pius IX, Most Venerable Chief of the Holy See and Sovereign Pontiff of the Roman Catholic Church, September 23, 1863, in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, cit., p. 571

viii Letter from A.Dudley Mann to Hon. J.P. Benjamin, Secretary of State, N.68, Rome, November 21, 1863, in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, cit., p.592

ix Letter from Ambrose Dudley Mann to the Hon. J.P.Benjamin, Secretary of State of the Confederate States of America, Richmond, Va, N.68, Rome, November 21, 1863, in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, cit., p. 600

x Letter from the Pope to the Illustrious and Honorable Sir, Jefferson Davis, President of the Confederate States of America, in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, cit., p. 603

xi Letter from A. Dudley Mann to Hon. J.P. Benjamin, Secretary of State, n. 69, Rome, December 9, 1863, in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, cit., p.602

xii Alcuni esempi sono: The Western Democrat, Charlotte, N.C, January 26, 1864, p.3. Historic American Newspapers, Lib. of Congress.

The Wilmington Journal, Wilmington, N.C, January 28, 1864, p.2. Historic American Newspapers, Lib. of Congress.

xiii M’arthur Democrat, McArthur, Vinton County, Ohio,February 18, 1864, p.2. Historic American Newspapers, Lib. of Congress. L’autore dell’articolo spiega di aver appreso la notizia dal giornale parigino La France.

xiv Letter from Mr. Benjamin Secretary of State, Department of State, Richmond, February 1, 1864, to the Hon. A. Dudley Mann, Brusselles, in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, cit., p.622

xv

 ibidem.

xvi

 Letter from A. Dudley Mann, London, February 1, 1862, to the Hon. Jefferson Davis, Richmond, in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, cit., p.160

xvii

 Letter from J.P. Benjamin, Secretary of State, Department of State, Richmond, to the Right Reverend P.N. Lynch, Commissioner of the Confederate State, April 4, 1864 in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, cit., p.470

xviii

 Letter from J.T. Soutter to the Hon. Mr. Slidell, December 5, 1864. Inclosure n.3 of the Letter from Mr. Slidell to the Hon. J.P. Benjamin, December 13, 1864, in The messages and papers of Jefferson Davis and the Confederacy, cit., p.691

xix

 ibidem.

xx

 The Semi-Weekly Standard, Raleigh, N.C, July 15, 1864, p.2. Historic American Newspapers, Lib. of Congress, corsivo dell’autore.

 

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martedì 31 agosto 2021

Garibaldi e la Liguria durante la guerra civile americana.


Ga­ri­bal­di: la guer­ra ci­vi­le ame­ri­ca­na


Garibaldi, poco dopo l’unificazione italiana, viene contattato per un’altra grande impresa. La guerra di secessione era appena scoppiata, Lincoln necessitava di un comandante esperto. La presenza della marina americana nel Mediterraneo risale agli inizi dell’800, quando il fenomeno dei pirati, mai scomparso, era diventato molto grave per i commerci specialmente per quelle imbarcazioni che non avevano l’appoggio di navi militari e quelle statunitensi erano tra queste. Washington decise allora di mettere fine a questa situazione mandando forze marittime nel Mediterraneo.
Ga­ri­bal­di, poco dopo l’u­ni­fi­ca­zio­ne ita­lia­na,qiindi vie­ne con­tat­ta­to per un’al­tra gran­de im­pre­sa. La guer­ra di se­ces­sio­ne era ap­pe­na scop­pia­ta, Lin­coln ne­ces­si­ta­va di un co­man­dan­te esper­to.

La pre­sen­za del­la ma­ri­na ame­ri­ca­na nel Me­di­ter­ra­neo ri­sa­le quindi  agli ini­zi del­l’800, quan­do il fe­no­me­no dei pi­ra­ti, mai scom­par­so, era di­ven­ta­to mol­to gra­ve per i com­mer­ci spe­cial­men­te per quel­le im­bar­ca­zio­ni che non ave­va­no l’ap­pog­gio di navi mi­li­ta­ri e quel­le sta­tu­ni­ten­si era­no tra que­ste.

Wa­shing­ton de­ci­se al­lo­ra di met­te­re fine a que­sta si­tua­zio­ne man­dan­do for­ze ma­rit­ti­me nelle aree dove era­no le basi di que­sti pre­do­ni del mare e fu al­lo­ra che nac­que un cor­po mi­li­ta­re de­sti­na­to a di­ven­ta­re fa­mo­so in tut­to il mon­do: i ma­ri­nes.

L’im­pe­gno ame­ri­ca­no por­tò i suoi frut­ti scon­fig­gen­do i pi­ra­ti, ma per es­se­re si­cu­ri ave­va­no bi­so­gno di una base lo­gi­sti­ca di pron­to im­pie­go da dove po­ter ge­sti­re il con­trol­lo del mar Me­di­ter­ra­neo.

Il luo­go fu tro­va­to in Li­gu­ria nel gol­fo spez­zi­no di Pa­ni­ga­glia, al­lo­ra sot­to il Re­gno sa­bau­do.

Gli ame­ri­ca­ni chie­se­ro in af­fit­to par­te del­la baia che nel dia­let­to di La Spe­zia di­ven­ne:” er cam­po d’i gen­chi”, dove gen­chi sta in ma­nie­ra dia­let­ta­le per yan­kee.

Quel­la che do­ve­va es­se­re una per­ma­nen­za solo di al­cu­ni anni, si tra­sfor­mò, in­ve­ce, in una base lo­gi­sti­ca che ri­ma­se fino al 1861, l’an­no in cui scop­piò la Guer­ra di Se­ces­sio­ne ame­ri­ca­na che vide con­trap­po­sti in ma­nie­ra san­gui­no­sa i nor­di­sti, gli Unio­ni­sti, e i su­di­sti, i Con­fe­de­ra­ti, e non solo in Ame­ri­ca, ma an­che tra i mi­li­ta­ri di stan­za al­l’e­ste­ro il con­fron­to tra i due grup­pi era­no spes­so vio­len­to come fu an­che a La Spe­zia.

Pro­prio il 12 apri­le del 1861, il gior­no del­la pro­cla­ma­zio­ne di guer­ra, tra le ban­chi­ne del por­to spez­zi­no ci fu una zuf­fa sen­za esclu­sio­ne di col­pi con al­cu­ni fe­ri­ti tra unio­ni­sti e con­fe­de­ra­ti. Se non ci scap­pò an­che il mor­to fu solo per l’in­ter­ven­to dei ca­ra­bi­nie­ri che ri­sta­bi­li­ro­no l’or­di­ne non sen­za qual­che dif­fi­col­tà.

Fu pro­prio in quel­le gior­na­te così tu­mul­tuo­se che ar­ri­vò al­l’e­roe dei due mon­di, Giu­sep­pe Ga­ri­bal­di, nel­la sua iso­la di Ca­pre­ra, l’in­vi­to ad ar­ruo­lar­si con gli unio­ni­sti e co­man­da­re par­te del­l’e­ser­ci­to.

 La ri­chie­sta di Lin­coln a Ga­ri­bal­di

Per que­sto pri­mo con­tat­to ven­ne in­ca­ri­ca­to l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no a To­ri­no, P.H. Marsh.

Marsh era a co­no­scen­za del­la si­tua­zio­ne ita­lia­na, sa­pe­va che il ge­ne­ra­le era nel­la sua iso­la a ri­po­so, ma il suo era un ri­po­so for­za­to per­ché dopo l’im­pre­sa dei Mil­le, la sua in­tem­pe­ran­za, spe­cie per la que­stio­ne ro­ma­na, sta­va met­ten­do in se­ria dif­fi­col­tà il Pie­mon­te con le can­cel­le­rie di mez­za Eu­ro­pa, e spe­cial­men­te con l’al­lea­to fran­ce­se, pro­prio nel mo­men­to de­li­ca­to del­la pro­cla­ma­zio­ne del Re­gno d’I­ta­lia.

Dun­que, per il suo bene e quel­lo dei pie­mon­te­si era me­glio che Ga­ri­bal­di fos­se “esi­lia­to” nel­la sua iso­la tan­to da far dire al­l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no in uno spac­cio al suo go­ver­no: “Ora il con­qui­sta­to­re del­le Due Si­ci­lie si è ri­ti­ra­to nel­l’i­so­la di Ca­pre­ra, de­lu­so e im­bron­cia­to, ma non cer­to ras­se­gna­to a ri­ma­ne­re iner­te. Aver­lo quin­di al no­stro fian­co sa­reb­be per noi un gros­so suc­ces­so”. 

Cer­ta­men­te ave­re Ga­ri­bal­di sa­reb­be sta­to un vero suc­ces­so per i nor­di­sti; co­no­sciu­tis­si­mo ol­tre ocea­no e ap­prez­za­to per le sue doti di co­man­dan­te avreb­be cer­to ri­vi­ta­liz­za­to l’u­mo­re dei sol­da­ti nor­di­sti che pro­prio in quei pri­mi mesi di guer­ra non ave­va­no ot­te­nu­ti an­co­ra suc­ces­si sul cam­po, anzi, pur es­sen­do i Con­fe­de­ra­ti male ar­ma­ti e peg­gio equi­pag­gia­ti riu­sci­ro­no a in­flig­ge­re una se­rie di scon­fit­te al­l’e­ser­ci­to del­l’U­nio­ne, me­glio ar­ma­to ed equi­pag­gia­to, ma scar­so di buo­ni uf­fi­cia­li.

Lin­coln stes­so, da poco rie­let­to alla pre­si­den­za, lan­ciò un pub­bli­co ap­pel­lo in­vi­tan­do:” l’E­roe del­la li­ber­tà di pre­sta­re la po­ten­za del suo nome, il suo ge­nio e la sua spa­da alla cau­sa del­la Re­pub­bli­ca stel­la­ta” a di­mo­stra­zio­ne­del­la gran­de po­po­la­ri­tà di Ga­ri­bal­di nel con­ti­nen­te ame­ri­ca­no, dove era an­co­ra viva la me­mo­ria del­le sue bat­ta­glie com­bat­tu­te per anni in Su­da­me­ri­ca per l’in­di­pen­den­za del Rio Gran­de do Sul con­tro il Bra­si­le e del­l’U­ru­guay con­tro l’Ar­gen­ti­na.

Con que­sto espli­ci­to in­vi­to, le au­to­ri­tà nor­di­ste spe­ra­va­no an­che che un gran nu­me­ro di com­bat­ten­ti sa­reb­be­ro af­flui­ti ad raf­for­za­re i loro con­tin­gen­ti.

La que­stio­ne ro­ma­na

Da­van­ti a tut­te que­ste pro­po­ste e pur es­sen­do­ne lu­sin­ga­to, Ga­ri­bal­di non per­se il sen­so del do­ve­re di chie­de­re il per­mes­so al re Vit­to­rio Ema­nue­le II, es­sen­do un suo ge­ne­ra­le, con que­sto te­sto:” Sire, il Pre­si­den­te de­gli Sta­ti Uni­ti mi of­fre il co­man­do di quel­l’e­ser­ci­to ed io mi tro­vo in ob­bli­go di ac­cet­ta­re tale mis­sio­ne per un Pae­se di cui sono cit­ta­di­no. No­no­stan­te ciò, pri­ma di ri­sol­ver­mi, ho cre­du­to mio do­ve­re in­for­ma­re Vo­stra Mae­stà per sa­pe­re se cre­de che io pos­sa ave­re an­co­ra l’o­no­re di ser­vir­la. Ho il pia­ce­re di dir­mi di Vo­stra Mae­stà il de­vo­tis­si­mo ser­vi­to­re. G. Ga­ri­bal­di “.

La ri­spo­sta del re non si fece at­ten­de­re, to­glie­re di mez­zo una te­sta cal­da come Ga­ri­bal­di era una oc­ca­sio­ne da non per­de­re, dun­que, la ri­spo­sta fu af­fer­ma­ti­va per la sua par­ten­za.

Ga­ri­bal­di era fe­li­ce di po­ter con­tri­bui­re a que­sta guer­ra e ave­re la pos­si­bi­li­tà di com­bat­te­re, an­che se da lon­ta­no, l’o­dia­to Pio IX che ave­va be­ne­det­to il Con­fe­de­ra­ti come cat­to­li­ci con­tro i pro­te­stan­ti Unio­ni­sti.

Una guer­ra, quel­la ame­ri­ca­na, che ven­ne sen­ti­ta da mol­ti gio­va­ni eu­ro­pei.

Solo dal­l’I­ta­lia sal­pa­ro­no alla vol­ta di due cam­pi di bat­ta­glia con­trap­po­sti, ben 11­mi­la vo­lon­ta­ri che la­scia­ro­no sul cam­po ol­tre due­mi­la mor­ti.

Il no­stro eroe si pre­pa­ra­va, dun­que, alla par­ten­za, ma non era un in­ge­nuo e dei po­li­ti­ci poco si fi­da­va.

Chie­se del­le ga­ran­zie sul­le qua­li non avreb­be mai trat­ta­to, pri­ma di tut­to l’a­bo­li­zio­ne del­la schia­vi­tù, non solo per un prin­ci­pio uma­ni­ta­rio, ma è bene ri­cor­da­re che uno dei suoi ami­ci più cari, la sua guar­dia del cor­po, era un uomo di co­lo­re, Aguiar, li­be­ra­to con mol­ti al­tri du­ran­te le guer­re su­da­me­ri­ca­ne con­dot­te da Ga­ri­bal­di che lo ave­va vo­lu­to sem­pre con se an­che nel­l’av­ven­tu­ra del­la Re­pub­bli­ca Ro­ma­na dove morì nel 1849 com­bat­ten­do con i di­fen­so­ri del­la cit­tà con­tro i fran­ce­si.

Da ri­cor­da­re in pro­po­si­to che al di là del­le leg­gen­de Hol­ly­woo­dia­ne, la que­stio­ne abo­li­zio­ni­sta fu in­se­ri­ta solo ver­so la fine del­la guer­ra, ma fino ad al­lo­ra an­che per i pro­gres­si­sti unio­ni­sti era con­si­de­ra­ta una ri­sor­sa eco­no­mi­ca da cui non po­ter pre­scin­de­re.

Que­sta ri­chie­sta, in­sie­me alla pre­te­sa di ave­re il co­man­do non di una par­te, ma di tut­te le for­ze nor­di­ste, raf­fred­dò mol­to i rap­por­ti con Wa­shing­ton, tan­to che la ri­chie­sta ven­ne ab­ban­do­na­ta dal­lo stes­so Abra­mo Lin­coln

La se­con­da in­frut­tuo­sa ri­chie­sta

Ga­ri­bal­di for­se non ci ave­va mai cre­du­to di tor­na­re in Ame­ri­ca e pre­se la cosa con mol­ta cal­ma an­che per­ché or­mai po­te­va di nuo­vo pen­sa­re alla con­qui­sta del­lo Sta­to pon­ti­fi­cio e fare di Roma la ca­pi­ta­le del nuo­vo Re­gno ita­lia­no pur crean­do allo stes­so tem­po nuo­ve ap­pren­sio­ni al re sa­bau­do.

La­scia­ta, in­fat­ti, la vita tran­quil­la di Ca­pre­ra, un anno dopo que­sti fat­ti, nel 1862, lo tro­via­mo in Ca­la­bria, nell’Aspro­mon­te, dove si il­lu­de di po­ter ri­sa­li­re lo Sti­va­le e pren­de­re in un col­po Roma, ma vie­ne fer­ma­to pro­prio dai pie­mon­te­si, che non ave­va­no vo­glia in quel mo­men­to di crea­re at­tri­ti con la Fran­cia e in uno scon­tro a fuo­co ven­ne fe­ri­to ad una gam­ba e po­sto agli ar­re­sti pres­so il for­te mi­li­ta­re di Va­ri­gna­no, pro­prio nel gol­fo di La Spe­zia da­van­ti alle basi ame­ri­ca­ne.

Que­sta pre­sen­za del­l’E­roe non sfug­gi al com­mo­do­ro S.H. Strin­gham capo del­la for­za ma­rit­ti­ma ame­ri­ca­na di stan­za nel­la cit­tà li­gu­re.

Su­bi­to ri­fe­rì a Wa­shing­ton la pos­si­bi­li­tà di ri­con­tat­ta­re e ar­ruo­la­re l’E­roe dei due Mon­di tan­to più che Lin­coln si era de­ci­so fi­nal­men­te di ga­ran­ti­re l’a­bo­li­zio­ne del­la schia­vi­tù se l’U­nio­ne aves­se vin­to.

L’in­ca­ri­co di trat­ta­re con Ga­ri­bal­di fu as­se­gna­to que­sta vol­ta al­l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no a Vien­na, Teo­do­ro Ca­ni­sius, che, come ve­dre­mo, per poco con non si rese re­spon­sa­bi­le di una rot­tu­ra di­plo­ma­ti­ca tra la na­scen­te Ita­lia e gli Usa.

L’am­ba­scia­to­re dopo aver­gli in­via­to una let­te­ra nel­la qua­le ar­go­men­ta­va l’im­por­tan­za del­l’in­ca­ri­co e il va­lo­re del­la scel­ta di an­da­re ol­tre ocea­no a com­bat­te­re, Ga­ri­bal­di ri­spo­se: “Si­gno­re, sono pri­gio­nie­ro e gra­ve­men­te fe­ri­to: per con­se­guen­za mi è im­pos­si­bi­le di­spor­re di me stes­so. Cre­do però che se sarò mes­so in li­ber­tà e se le mie fe­ri­te si ri­mar­gi­ne­ran­no, sarà ar­ri­va­ta l’oc­ca­sio­ne fa­vo­re­vo­le in cui po­trò sod­di­sfa­re il mio de­si­de­rio di ser­vi­re la gran­de Re­pub­bli­ca Ame­ri­ca­na, che oggi com­bat­te per la li­ber­tà uni­ver­sa­le”.

Ca­ni­sius si­cu­ro del­la sua ac­cet­ta­zio­ne e vo­len­do­se­ne pren­de­re il me­ri­to ri­por­tò sui gior­na­li la que­stio­ne de­fi­nen­do: “gran­de ope­ra pa­triot­ti­ca la spe­di­zio­ne ga­ri­bal­di­na in Aspro­mon­te che l’e­ser­ci­to ita­lia­no ave­va in­ve­ce re­pres­so nel san­gue”, fa­cen­do pas­sa­re i pie­mon­te­si per dei ti­ran­ni e come ac­cen­na­to, met­ten­do in cri­si le re­la­zio­ni Ita­lia Usa.

L’ul­ti­ma pos­si­bi­li­tà di ave­re Ga­ri­bal­di in Ame­ri­ca era fal­li­ta mi­se­ra­men­te per l’in­ca­pa­ci­tà di Ca­ni­sius il qua­le fu im­me­dia­ta­men­te ri­chia­ma­to in pa­tria e per evi­ta­re al­tri sba­gli di­plo­ma­ti­ci.

Per la se­con­da vol­ta, ma que­sta vol­ta in ma­nie­ra de­fi­ni­ti­va, la ri­chie­sta di com­bat­te­re a fian­co dei nor­di­sti ven­ne de­fi­ni­ti­va­men­te scar­ta­ta da ambo due le par­ti e così la Guer­ra di Se­ces­sio­ne ame­ri­ca­na ebbe un eroe in meno da ri­cor­da­re.

La pre­sen­za del­la ma­ri­na ame­ri­ca­na nel Me­di­ter­ra­neo ri­sa­le agli ini­zi del­l’800, quan­do il fe­no­me­no dei pi­ra­ti, mai scom­par­so, era di­ven­ta­to mol­to gra­ve per i com­mer­ci spe­cial­men­te per quel­le im­bar­ca­zio­ni che non ave­va­no l’ap­pog­gio di navi mi­li­ta­ri e quel­le sta­tu­ni­ten­si era­no tra que­ste.

Wa­shing­ton de­ci­se al­lo­ra di met­te­re fine a que­sta si­tua­zio­ne man­dan­do for­ze ma­rit­ti­me in Ma­roc­co dove era­no le basi di que­sti pre­do­ni del mare e fu al­lo­ra che nac­que un cor­po mi­li­ta­re de­sti­na­to a di­ven­ta­re fa­mo­so in tut­to il mon­do: i ma­ri­nes.

L’im­pe­gno ame­ri­ca­no por­tò i suoi frut­ti scon­fig­gen­do i pi­ra­ti, ma per es­se­re si­cu­ri ave­va­no bi­so­gno di una base lo­gi­sti­ca di pron­to im­pie­go da dove po­ter ge­sti­re il con­trol­lo del mar Me­di­ter­ra­neo.

Il luo­go fu tro­va­to in Li­gu­ria nel gol­fo spez­zi­no di Pa­ni­ga­glia, al­lo­ra sot­to il Re­gno sa­bau­do.

Gli ame­ri­ca­ni chie­se­ro in af­fit­to par­te del­la baia che nel dia­let­to di La Spe­zia di­ven­ne:” er cam­po d’i gen­chi”, dove gen­chi sta in ma­nie­ra dia­let­ta­le per yan­kee.

Quel­la che do­ve­va es­se­re una per­ma­nen­za solo di al­cu­ni anni, si tra­sfor­mò, in­ve­ce, in una base lo­gi­sti­ca che ri­ma­se fino al 1861, l’an­no in cui scop­piò la Guer­ra di Se­ces­sio­ne ame­ri­ca­na che vide con­trap­po­sti in ma­nie­ra san­gui­no­sa i nor­di­sti, gli Unio­ni­sti, e i su­di­sti, i Con­fe­de­ra­ti, e non solo in Ame­ri­ca, ma an­che tra i mi­li­ta­ri di stan­za al­l’e­ste­ro il con­fron­to tra i due grup­pi era­no spes­so vio­len­to come fu an­che a La Spe­zia.

Pro­prio il 12 apri­le del 1861, il gior­no del­la pro­cla­ma­zio­ne di guer­ra, tra le ban­chi­ne del por­to spez­zi­no ci fu una zuf­fa sen­za esclu­sio­ne di col­pi con al­cu­ni fe­ri­ti tra unio­ni­sti e con­fe­de­ra­ti. Se non ci scap­pò an­che il mor­to fu solo per l’in­ter­ven­to dei ca­ra­bi­nie­ri che ri­sta­bi­li­ro­no l’or­di­ne non sen­za qual­che dif­fi­col­tà.

Fu pro­prio in quel­le gior­na­te così tu­mul­tuo­se che ar­ri­vò al­l’e­roe dei due mon­di, Giu­sep­pe Ga­ri­bal­di, nel­la sua iso­la di Ca­pre­ra, l’in­vi­to ad ar­ruo­lar­si con gli unio­ni­sti e co­man­da­re par­te del­l’e­ser­ci­to.

 La ri­chie­sta di Lin­coln a Ga­ri­bal­di

Per que­sto pri­mo con­tat­to ven­ne in­ca­ri­ca­to l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no a To­ri­no, P.H. Marsh.

Marsh era a co­no­scen­za del­la si­tua­zio­ne ita­lia­na, sa­pe­va che il ge­ne­ra­le era nel­la sua iso­la a ri­po­so, ma il suo era un ri­po­so for­za­to per­ché dopo l’im­pre­sa dei Mil­le, la sua in­tem­pe­ran­za, spe­cie per la que­stio­ne ro­ma­na, sta­va met­ten­do in se­ria dif­fi­col­tà il Pie­mon­te con le can­cel­le­rie di mez­za Eu­ro­pa, e spe­cial­men­te con l’al­lea­to fran­ce­se, pro­prio nel mo­men­to de­li­ca­to del­la pro­cla­ma­zio­ne del Re­gno d’I­ta­lia.

Dun­que, per il suo bene e quel­lo dei pie­mon­te­si era me­glio che Ga­ri­bal­di fos­se “esi­lia­to” nel­la sua iso­la tan­to da far dire al­l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no in uno spac­cio al suo go­ver­no: “Ora il con­qui­sta­to­re del­le Due Si­ci­lie si è ri­ti­ra­to nel­l’i­so­la di Ca­pre­ra, de­lu­so e im­bron­cia­to, ma non cer­to ras­se­gna­to a ri­ma­ne­re iner­te. Aver­lo quin­di al no­stro fian­co sa­reb­be per noi un gros­so suc­ces­so”. 

Cer­ta­men­te ave­re Ga­ri­bal­di sa­reb­be sta­to un vero suc­ces­so per i nor­di­sti; co­no­sciu­tis­si­mo ol­tre ocea­no e ap­prez­za­to per le sue doti di co­man­dan­te avreb­be cer­to ri­vi­ta­liz­za­to l’u­mo­re dei sol­da­ti nor­di­sti che pro­prio in quei pri­mi mesi di guer­ra non ave­va­no ot­te­nu­ti an­co­ra suc­ces­si sul cam­po, anzi, pur es­sen­do i Con­fe­de­ra­ti male ar­ma­ti e peg­gio equi­pag­gia­ti riu­sci­ro­no a in­flig­ge­re una se­rie di scon­fit­te al­l’e­ser­ci­to del­l’U­nio­ne, me­glio ar­ma­to ed equi­pag­gia­to, ma scar­so di buo­ni uf­fi­cia­li.

Lin­coln stes­so, da poco rie­let­to alla pre­si­den­za, lan­ciò un pub­bli­co ap­pel­lo in­vi­tan­do:” l’E­roe del­la li­ber­tà di pre­sta­re la po­ten­za del suo nome, il suo ge­nio e la sua spa­da alla cau­sa del­la Re­pub­bli­ca stel­la­ta” a di­mo­stra­zio­ne­del­la gran­de po­po­la­ri­tà di Ga­ri­bal­di nel con­ti­nen­te ame­ri­ca­no, dove era an­co­ra viva la me­mo­ria del­le sue bat­ta­glie com­bat­tu­te per anni in Su­da­me­ri­ca per l’in­di­pen­den­za del Rio Gran­de do Sul con­tro il Bra­si­le e del­l’U­ru­guay con­tro l’Ar­gen­ti­na.

Con que­sto espli­ci­to in­vi­to, le au­to­ri­tà nor­di­ste spe­ra­va­no an­che che un gran nu­me­ro di com­bat­ten­ti sa­reb­be­ro af­flui­ti ad raf­for­za­re i loro con­tin­gen­ti.

La que­stio­ne ro­ma­na

Da­van­ti a tut­te que­ste pro­po­ste e pur es­sen­do­ne lu­sin­ga­to, Ga­ri­bal­di non per­se il sen­so del do­ve­re di chie­de­re il per­mes­so al re Vit­to­rio Ema­nue­le II, es­sen­do un suo ge­ne­ra­le, con que­sto te­sto:” Sire, il Pre­si­den­te de­gli Sta­ti Uni­ti mi of­fre il co­man­do di quel­l’e­ser­ci­to ed io mi tro­vo in ob­bli­go di ac­cet­ta­re tale mis­sio­ne per un Pae­se di cui sono cit­ta­di­no. No­no­stan­te ciò, pri­ma di ri­sol­ver­mi, ho cre­du­to mio do­ve­re in­for­ma­re Vo­stra Mae­stà per sa­pe­re se cre­de che io pos­sa ave­re an­co­ra l’o­no­re di ser­vir­la. Ho il pia­ce­re di dir­mi di Vo­stra Mae­stà il de­vo­tis­si­mo ser­vi­to­re. G. Ga­ri­bal­di “.

La ri­spo­sta del re non si fece at­ten­de­re, to­glie­re di mez­zo una te­sta cal­da come Ga­ri­bal­di era una oc­ca­sio­ne da non per­de­re, dun­que, la ri­spo­sta fu af­fer­ma­ti­va per la sua par­ten­za.

Ga­ri­bal­di era fe­li­ce di po­ter con­tri­bui­re a que­sta guer­ra e ave­re la pos­si­bi­li­tà di com­bat­te­re, an­che se da lon­ta­no, l’o­dia­to Pio IX che ave­va be­ne­det­to il Con­fe­de­ra­ti come cat­to­li­ci con­tro i pro­te­stan­ti Unio­ni­sti.

Una guer­ra, quel­la ame­ri­ca­na, che ven­ne sen­ti­ta da mol­ti gio­va­ni eu­ro­pei.

Solo dal­l’I­ta­lia sal­pa­ro­no alla vol­ta di due cam­pi di bat­ta­glia con­trap­po­sti, ben 11­mi­la vo­lon­ta­ri che la­scia­ro­no sul cam­po ol­tre due­mi­la mor­ti.

Il no­stro eroe si pre­pa­ra­va, dun­que, alla par­ten­za, ma non era un in­ge­nuo e dei po­li­ti­ci poco si fi­da­va.

Chie­se del­le ga­ran­zie sul­le qua­li non avreb­be mai trat­ta­to, pri­ma di tut­to l’a­bo­li­zio­ne del­la schia­vi­tù, non solo per un prin­ci­pio uma­ni­ta­rio, ma è bene ri­cor­da­re che uno dei suoi ami­ci più cari, la sua guar­dia del cor­po, era un uomo di co­lo­re, Aguiar, li­be­ra­to con mol­ti al­tri du­ran­te le guer­re su­da­me­ri­ca­ne con­dot­te da Ga­ri­bal­di che lo ave­va vo­lu­to sem­pre con se an­che nel­l’av­ven­tu­ra del­la Re­pub­bli­ca Ro­ma­na dove morì nel 1849 com­bat­ten­do con i di­fen­so­ri del­la cit­tà con­tro i fran­ce­si.

Da ri­cor­da­re in pro­po­si­to che al di là del­le leg­gen­de Hol­ly­woo­dia­ne, la que­stio­ne abo­li­zio­ni­sta fu in­se­ri­ta solo ver­so la fine del­la guer­ra, ma fino ad al­lo­ra an­che per i pro­gres­si­sti unio­ni­sti era con­si­de­ra­ta una ri­sor­sa eco­no­mi­ca da cui non po­ter pre­scin­de­re.

Que­sta ri­chie­sta, in­sie­me alla pre­te­sa di ave­re il co­man­do non di una par­te, ma di tut­te le for­ze nor­di­ste, raf­fred­dò mol­to i rap­por­ti con Wa­shing­ton, tan­to che la ri­chie­sta ven­ne ab­ban­do­na­ta dal­lo stes­so Abra­mo Lin­coln

La se­con­da in­frut­tuo­sa ri­chie­sta

Ga­ri­bal­di for­se non ci ave­va mai cre­du­to di tor­na­re in Ame­ri­ca e pre­se la cosa con mol­ta cal­ma an­che per­ché or­mai po­te­va di nuo­vo pen­sa­re alla con­qui­sta del­lo Sta­to pon­ti­fi­cio e fare di Roma la ca­pi­ta­le del nuo­vo Re­gno ita­lia­no pur crean­do allo stes­so tem­po nuo­ve ap­pren­sio­ni al re sa­bau­do.

La­scia­ta, in­fat­ti, la vita tran­quil­la di Ca­pre­ra, un anno dopo que­sti fat­ti, nel 1862, lo tro­via­mo in Ca­la­bria, nell’Aspro­mon­te, dove si il­lu­de di po­ter ri­sa­li­re lo Sti­va­le e pren­de­re in un col­po Roma, ma vie­ne fer­ma­to pro­prio dai pie­mon­te­si, che non ave­va­no vo­glia in quel mo­men­to di crea­re at­tri­ti con la Fran­cia e in uno scon­tro a fuo­co ven­ne fe­ri­to ad una gam­ba e po­sto agli ar­re­sti pres­so il for­te mi­li­ta­re di Va­ri­gna­no, pro­prio nel gol­fo di La Spe­zia da­van­ti alle basi ame­ri­ca­ne.

Que­sta pre­sen­za del­l’E­roe non sfug­gi al com­mo­do­ro S.H. Strin­gham capo del­la for­za ma­rit­ti­ma ame­ri­ca­na di stan­za nel­la cit­tà li­gu­re.

Su­bi­to ri­fe­rì a Wa­shing­ton la pos­si­bi­li­tà di ri­con­tat­ta­re e ar­ruo­la­re l’E­roe dei due Mon­di tan­to più che Lin­coln si era de­ci­so fi­nal­men­te di ga­ran­ti­re l’a­bo­li­zio­ne del­la schia­vi­tù se l’U­nio­ne aves­se vin­to.

L’in­ca­ri­co di trat­ta­re con Ga­ri­bal­di fu as­se­gna­to que­sta vol­ta al­l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no a Vien­na, Teo­do­ro Ca­ni­sius, che, come ve­dre­mo, per poco con non si rese re­spon­sa­bi­le di una rot­tu­ra di­plo­ma­ti­ca tra la na­scen­te Ita­lia e gli Usa.

L’am­ba­scia­to­re dopo aver­gli in­via­to una let­te­ra nel­la qua­le ar­go­men­ta­va l’im­por­tan­za del­l’in­ca­ri­co e il va­lo­re del­la scel­ta di an­da­re ol­tre ocea­no a com­bat­te­re, Ga­ri­bal­di ri­spo­se: “Si­gno­re, sono pri­gio­nie­ro e gra­ve­men­te fe­ri­to: per con­se­guen­za mi è im­pos­si­bi­le di­spor­re di me stes­so. Cre­do però che se sarò mes­so in li­ber­tà e se le mie fe­ri­te si ri­mar­gi­ne­ran­no, sarà ar­ri­va­ta l’oc­ca­sio­ne fa­vo­re­vo­le in cui po­trò sod­di­sfa­re il mio de­si­de­rio di ser­vi­re la gran­de Re­pub­bli­ca Ame­ri­ca­na, che oggi com­bat­te per la li­ber­tà uni­ver­sa­le”.

Ca­ni­sius si­cu­ro del­la sua ac­cet­ta­zio­ne e vo­len­do­se­ne pren­de­re il me­ri­to ri­por­tò sui gior­na­li la que­stio­ne de­fi­nen­do: “gran­de ope­ra pa­triot­ti­ca la spe­di­zio­ne ga­ri­bal­di­na in Aspro­mon­te che l’e­ser­ci­to ita­lia­no ave­va in­ve­ce re­pres­so nel san­gue”, fa­cen­do pas­sa­re i pie­mon­te­si per dei ti­ran­ni e come ac­cen­na­to, met­ten­do in cri­si le re­la­zio­ni Ita­lia Usa.

L’ul­ti­ma pos­si­bi­li­tà di ave­re Ga­ri­bal­di in Ame­ri­ca era fal­li­ta mi­se­ra­men­te per l’in­ca­pa­ci­tà di Ca­ni­sius il qua­le fu im­me­dia­ta­men­te ri­chia­ma­to in pa­tria e per evi­ta­re al­tri sba­gli di­plo­ma­ti­ci.

Per la se­con­da vol­ta, ma que­sta vol­ta in ma­nie­ra de­fi­ni­ti­va, la ri­chie­sta di com­bat­te­re a fian­co dei nor­di­sti ven­ne de­fi­ni­ti­va­men­te scar­ta­ta da ambo due le par­ti e così la Guer­ra di Se­ces­sio­ne ame­ri­ca­na ebbe un eroe in meno da ri­cor­da­re.
Casalino Pierluigi