venerdì 30 ottobre 2020

Varigotti, una perla della Riviera.

Varigotti, il borgo italiano dei pirati
In Liguria esiste un borgo bellissimo dalle sfumature tropicali e che vanta una storia legata ai pirati saraceni.
   

Di borghi bellissimi e particolari ne esistono davvero molti nel nostro Paese. Ma ce n’è uno, in provincia di Savona, che è legato a una storia assolutamente unica e peculiare: quella dei pirati.


Il borgo in questione ha il nome di Varigotti ed è situato in un tratto di costa stretto tra il mare e la verdi colline dell’entroterra ligure.

Ma come detto poco sopra, ciò che rende questo luogo del Belpaese incredibilmente unico rispetto agli altri è la sua impronta saracena che caratterizza il così detto borgo vecchio. Un vero villaggio di pescatori, dove svettano una manciata di case colorate che costellano la spiaggia che costituisce il gioiello per eccellenza del paese.

E ciò che più sorprende è che quest’anima, lasciata in dote dai pirati, è possibile percepirla nelle classiche abitazioni a un piano dove il tempo sembra essersi straordinariamente fermato. Tante piccole dimore dalle tonalità accese che si affacciano direttamente sulla magica spiaggia e che brillano sotto la luce intensa del Mediterraneo.


Ed è proprio camminando per le tranquille e pittoresche stradine interne che è si è in grado di percepire il senso di allegria rilasciato da questi colori sgargianti, mentre i rumori del traffico si allontanano fino a essere persino dimenticati.

Palme, cactus, archi che si aprono sulle facciate delle basse case colorate e barchette di legno che riposano nelle piazzette piene di panchine o sulla sabbia, rendono il paesaggio stranamente esotico e l’atmosfera rilassata, ma vivace.

E come accennato poco sopra certamente imperdibili sono le sue straordinarie spiagge tra cui baia dei Saraceni, caratterizzata da acque particolarmente turchesi e Punta Crena, un lido raggiungibile esclusivamente via mare e assolutamente suggestiva. Un luogo bellissimo e dominato da una torre di avvistamento che fu fatta costruire dopo l’ultima invasione dei Turchi del 1559 sui resti dell’antico castello dei Marchesi Del Carretto. E da qui, tra antichi ruderi e ulivi secolari, si ha la possibilità di ammirare il più bel panorama di tutta la baia, un vista che arriva dritta al cuore.

Insomma, non resta che organizzarsi per fare un salto a Varigotti per scoprirne colori, bellezze, angoli naturali mozzafiato e la sua storia, profondamente legata ai pirati saraceni.
Casalino Pierluigi 

La Divina Commedia è il primo fantasy autobiografico della storia della letteratura occidentale?


Quando Dante scriveva i visionari e le visioni si moltiplicavano, il sacro, il mistero e l'oltretomba coinvolgevano più di oggi la vita quotidiana. E non solo nel mondo cristiano.Una presenza davvero assai diversa da quella che in questi giorni interessa la gente. La tesi, quindi, che la Divina Commedia e i sonni e i sogni danteschi avessero natura solo allegorica sarebbe ormai messa in discussione da nuove e recenti interpretazioni dell'opera dantesca. Dante si sarebbe pertanto inventato tutto, scrivendo il primo vero fantasy della storia e lui stesso era un visionario, come emerge non tanto dal Poema, ma dalle opere giovanili del Sommo Poeta. La questione del modo e del senso della visione di Dante nella Commedia si può perciò liquidare come una curiosità di eruditi? Si direbbe di no. Non sarebbe piu' il caso, allora, di insistere nel rinviare ad improbabili equilibrismi esegetici, atti a mostrare la natura meramente allegorica e metaforica dei sonni e dei sogni danteschi. Dante è un uomo che scrive un libro nel quale racconta di essersi perso in un bosco e di essersi ritrovato, senza sapere come, nell'aldilà e di aver visitato in compagnia di Virgilio l'inferno e il purgatorio, e poi il paradiso in compagnia di Beatrice, una ragazza che lui aveva amato, morta dieci anni prima, e alla fine di aver visto Dio da vivo (concetto ripreso dal suo maestro Averroe'). Cosa si deve pensare? Con Dante è tutto sempre più complicato, man mano che lo si approfondisce. Perché Dante non dovrebbe essere un malato che racconta la sua malattia? Eppure, i "nove di' " di amarissima pena sembrano alludere alla simbologia del numero 9, dilagante in tutto il libro della Vita Nova, dove il poeta parla di una malattia che lo immobilizza a letto: da questa infermità, narra lo stesso Dante, nasce tutta una immaginazione funebre che il lettore del libro ricorderà bene. Si tratta di un'esperienza reale, di una malattia reale trasformata in simbolo? Perché nella Visio Alberici, un testo che Dante probabilmente conosceva, si legge un passo sorprendentemente simile a quello della Vita Nova? Un altro modo, questo, di poter rileggere la Commedia nel tentativo di cambiarne in maniera sensibile l'interpretazione tradizionale, ma che mette subito in sospetto: possibile che generazioni di critici ed interpreti non abbiano visto la verità che emerge dopo rinnovati studi ? D'altra parte le idee su Dante non cessano di germinare nella mente di chi lo avvicina. 
Casalino Pierluigi 

Dante e il potere dei numeri.





La Divina Commedia è chiaramente basata anche sulla “mistica” dei numeri. La Divina Commedia, è infatti, suddivisa in tre parti dette “cantiche” ed ogni cantica è composta da 33 “canti” (l’Inferno ne ha uno in più, ma la prima cantica viene considerata il proemio all’opera). Ogni canto contiene un numero di versi endecasillabi da un minimo di 115 a un massimo di 160. Dante usa come struttura la terzina incatenata costituita da tre versi di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva. Ogni canto termina con un ulteriore verso, che chiude la rima con il secondo verso della terzina che lo precede. Perché questa attenzione maniacale, quasi patologica, all’armonia dei numeri? Sicuramente ai tempi di Dante la Matematica viveva un momento particolare. Si stava passando dal sistema di numerazione romano a quello arabo (o indiano come era indicato nel Medioevo). E’ vero che il sistema indiano era già noto da secoli. Già nel 980, Gerberto di Aurillac, che divenne successivamente Papa Silvestro, aveva iniziato a diffondere l’uso della numerazione araba. Del resto va ricordato che pare che lo stesso pontefice fosse proprio di origini arabe: da piccolo sarebbe stato posto in salvo sui gradini di un convento in Francia durante una sanguinosa guerra dinastica nella Spagna musulmana. Ma è solo con Fibonacci nel 1202 che di fatto i numeri arabi iniziarono realmente ad essere conosciuti.  Il nuovo sistema stentò parecchio ad essere accettato, tanto che, nel 1280, la città di Firenze proibì l’uso delle cifre arabe da parte dei banchieri. Nella Divina Commedia non vi è cenno di questo nuovo sistema di numerazione, ma è impossibile che uno spirito curioso come Dante non ne fosse a conoscenza. Sicuramente i numeri erano visti nell’antichità in modo molto diverso da adesso. Sicuramente il paradosso di Zenone di Achille e la Tartaruga era conosciuto da Dante e toccava argomenti che sarebbero stati capiti e studiati solo nei secoli futuri: ossia cosa significhi fare una somma infinita di numeri e se sia lecito considerare lo spazio-tempo come infinitamente divisibile, ossia lo spazio e il tempo hanno una struttura continua o granulare? La proiezione stereografica, introdotta da Ipparco di Nicea, usato dai cartografi ai tempi di Dante, era sicuramente uno strumento che generava suggestioni in quanto metteva in corrispondenza un insieme finito (la superficie di una sfera unitaria) con un insieme infinito (il piano). La questione se il V postulato di Euclide potesse essere dedotto dai primi quattro era una questione che aveva interessato i matematici greco-romani e avrebbe continuato ad interessare i matematici (compresi quelli medioevali) fino all’introduzione della geometria non euclidea nel 1826. Il significato esoterico dei numeri si sviluppò anche presso la comunità ebraica con il nascere della kabbalah. Questa tradizione esoterica e magica dei numeri si ritrova nel ritornello numerico della strega nel Faust di Goethe e, ancora oggi, nella tradizione popolare della smorfia. Ma forse la questione che più era interessante per un uomo del medioevo era l’irrazionalità dei numeri. Platone scriveva che la creazione del mondo da parte del Demiurgo era avvenuta in base ad una legge di armonia universale, alla quale si assimilavano in consonanza le leggi che stabiliscono l’armonia tra i numeri. Questo ci fa intuire lo stupore di Pitagora quando scoprì che il rapporto fra diagonale e lato di un quadrato non era razionale (ossia esprimibile come rapporto fra due numeri interi). Ma più che la irrazionalità di radice di due aveva certamente il suo fascino il pi greco. Lo si conosceva già nell’antichità (Pappo di Alessandria) ma la sua irrazionalità fu provata solo nel 1770 da Lambert. L’impossibilità di quadrare il cerchio fu provata solo nel 1882 da Lindemann, anche se Rousseau la credeva possibile in politica. Ma allora cosa voleva dire Dante (Paradiso XXXIII, 133-136) con:



«Qual è il geometra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova.»?

A mio avviso Dante non aveva anticipato teoremi di Matematica, che sarebbero stati dimostrati solo secoli dopo, ma esprimeva l’idea che è vero che si possa approssimare la lunghezza della circonferenza con il perimetro di poligoni regolari iscritti con un numero di lati sempre più crescente. Ma, essendo questo un procedimento che richiede un numero infinito di passi, come Achille non raggiungeva la tartaruga così il matematico non riusciva a quadrare il cerchio. Questa idea che pi greco potesse essere definito in una serie infinita di passi entusiasmò Leibnitz quando nel 1676 scoprì che pi greco su quattro era pari alla serie infinita 1 -1/3 + 1/5 -1/7 + 1/9 etc etc. Questa scoperta spinse Leibnitz a smettere di esercitare la professione di avvocato e a diventare il filosofo e lo scienziato che tutti noi conosciamo.Quindi il razionale e l’irrazionale sono uniti da procedure “infinite”. Ma cosa è l’infinito? Come si fa a misurarlo? E’ facile contare un insieme finito di elementi, ma un insieme infinito? Si può dire che due insiemi infiniti sono “uguali” se esiste una applicazione che li fa coincidere. Supponiamo di avere un albergo con infinite stanze e supponiamo che sia al completo. Arriva un nuovo cliente. Come facciamo a sistemarlo? Semplice: mando il cliente che sta nella stanza 1 nella stanza 2, quello della stanza 2 nella stanza 3, etc, così metto il nuovo cliente nella stanza uno e non sfratto nessun altro cliente. Abbiamo così dimostrato che infinito è uguale a infinito più uno. Con lo stesso ragionamento si può dimostrare che infinito è uguale a due per infinito. Infatti mandando il cliente che sta nella stanza “n” nella stanza “2n” libero tutte le stanze dispari che sono infinite. Si può infine dimostrare che infinito per infinito è uguale ad infinito. Ma allora tutti gli infiniti sono uguali? No i numeri naturali (che sono discreti) sono un infinito molto più piccolo di quello dei numeri reali che stanno nell’intervallo (0,1) (infinito del continuo). Infatti assumiamo per assurdo che esistesse una applicazione che mandi i numeri naturali su tutti i numeri reali che stanno nell’intervallo (0,1) e costruiamo un numero reale x che non venga raggiunto da questa applicazione. Prendiamo un numero naturale (ad esempio 127). L’applicazione mi assocerà 127 a un numero reale y. Vediamo la 127-esima cifra decimale di y. Se non è 7, il nostro numero x avrà come 127-esima cifra decimale proprio 7 mentre in caso contrario (cioè 7 è la 127-esima cifra decimale di y) avrà come cifra decimale il numero 7+1=8 (in generale noi seguremo la regola 9+1=0). E’ facile provare che il numero x così costruito non può essere raggiunto dalla applicazione presa in esame.Notiamo due cose: la prima è che i numeri irrazionali sono stati introdotti per tappare i buchi che ci sono tra le mattonelle dei razionali. Inoltre nella fisica moderna l’Universo ha una struttura granulare (piccoli granelli spazio-temporali che non possono essere ridotti sotto le dimensioni della costante di Planck). Ma allora l’Universo ha una struttura granulare e discreta e quindi ha lo stesso ordine di un infinito . Quindi, in un certo senso, l’intervallo (0,1) (costruito nella nostra mente) è più grande che tutto l’Universo…Incredibile.Ai tempi di Dante, si accettava, con granitica certezza il messaggio religioso e si lasciava ai numeri un’aurea mistica ed esoterica. Nei tempi moderni, abbiamo assunto come dogma “religioso” che la Matematica è lo strumento con cui è stato scritto il libro dell’Universo, per cui abbiamo fede granita nella Scienza e nella Matematica e lasciamo alla religione il misticismo, l’esoterismo e i dubbi. Ma è proprio così? O abbiamo semplicemente sostituito ai dogmi della fede dei nostri padri dei dogmi scientifici altrettanto non dimostrabili e forse arbitrari. Siamo coscienti di ciò? Non è forse questo il segno della nostra ennesima perversa prova di orgoglio, oltre che di uno sconfinato delirio di onnipotenza? Il Covid 19 si manifesta oggi come un limite a tale atteggiamento irrazionale e faustiano di fede nel futuro, senza valutare i rischi di un progresso squilibrato. Il futuro è aurorale ed oracolare, non ha un prima e non ha un dopo, il credere in esso fa parte della natura dell'uomo e del suo guardare avanti. Si tratta di una dimensione di grande respiro che ci sfugge, se pur la inseguiamo.Tuttavia il futuro deve rappresentare sempre un sogno fondato sull'intelligenza e sulla misura della prudenza.
Casalino Pierluigi 

L'Islam mistico. L'amore visto dai sufi


I sufi classificarono per secoli i vari livelli dell’amore umano come riflesso dell'amore divino, in modo poetico, maturo ed immaturo al contempo o, come direbbero loro, al contempo "sobrio ed intossicato". L’amore sarebbe allora al contempo strumento di crescita interiore e scopo della crescita stessa, più della conoscenza in sé.L’amore secondo i sufiIl sufismo è considerato spesso come un sistema mistico religioso connesso con l’islamismo o, più spesso, come il lato mistico ed esoterico dell’islamismo stesso.A dire il vero non è così poi ben conosciuto al di fuori dei paesi islamici se non per alcuni suoi poeti, come Gialal al-Din Rumi e la setta dei dervisci rotanti da lui fondata nel 1200.La pratica del sufismo, come tutte le pratiche mistiche ed esoteriche, e’ di difficile interpretazione, e come la sua poesia mistica e il suo approccio al Corano, si basa su metafore comprensibili solo agli iniziati.Non bastasse, la letteratura sufi si è espressa nel tempo solo in persiano, in arabo, in turco ed in urdu, lingue relative ai paesi attraverso i quali si estese nel tempo, dall’Egitto e dall’Anatolia in Occidente, fino al nord dell’India in Oriente.I sufi sono stati attivi per un periodo classico che va dalle sue origini nel 700 fino a Rumi nel 1300, fino ad un periodo chiamato medievale, ovvero fino al 1500.La conoscenza e la raffinatissima cultura dei Sufi ha interagito, influenzando e facendosi influenzare, con molte delle maggiori culture di quella epoca lunga oltre 7 secoli: la cultura protoscientifica araba, quella della filosofia greca, quella yogica indiana, quella dualistica zoroastriana, quella cabalistica ebraica, molti aspetti di quella monastica cristiana, comprese alcune sue scuole orientali, soprattutto quella bogomila e quella catara col suo “amor cortese”. L'amore come leitmotivE’ proprio l’amore uno dei leitmotiv della cultura mistica del sufismo, specie in un epoca in cui persino attraverso tutto il cosiddetto Occidente, il matrimonio era un istituzione regolata tra famiglie, per mera convenienza e non ci si sposava mai per vero amore.I sufi prima ed i catari poi con l’amor cortese e i cicli arturiani, sono stati i primi a celebrare l’amore come strumento spirituale non in contrasto con la mistica.Molti sufi avevano moglie e, anche tra quelli che non ne avevano, molti si innamoravano ed avevano una musa durante la loro vita. L’amore vero arriva a prevalere sul sacramento del matrimonio, specie se combinato, e lo struggimento clandestino delle anime diventa un comune strumento metaforico del progresso spirituale. Leggi anche Poliamore, amara più persone consapevolmente >> Le fasi dell'amore nella mistica sufiIn questo i sufi sono stati maestri inarrivati, senza paura di toccare un argomento spesso tabù in molte religioni, specie quelle di origine semitica e soprattutto in un contesto islamico, dal quale oggigiorno ci si aspetterebbe una estrema chiusura mentale sul tema.I sufi hanno analizzato a fondo il fenomeno dell’amore usandolo come strumento per raffinare l’anima e rivolgerla al Divino per il proprio progresso. La mera conoscenza sarebbe niente senza l’intossicazione dei sentimenti divini, e veri e propri trattati sono stati scritti per analizzare le varie fasi e tappe dell’amore.Le classificazioni mistiche sotto forma di tributo all’amore ne parlano come dello scopo più alto e l’apice più elevato di tutte le condizioni spirituali.L’amore tra umani è solo il riflesso di quello tra l’uomo e il Divino. La condizione di amore (mahabba) e di intimita’ (hus) sarebbero la “primavera della gnosi”.Il paradiso è una condizione nella quale il cuore vive come in un giardino di amore e nel suo cielo si susseguono le costellazioni dell’amore nelle sue diverse fasi psicologiche: la fede, la gnosi, la certezza, la sottomissione, la bontà, il timore del perdere il contatto con l’amato, la speranza di mantenerlo, il costante desiderio dell’amato, la delizia del contatto.L’amore è quindi una forma di ricerca di ciò che ci appartiene e al quale sentiamo di appartenere, forma che puo’ essere piena di passione (ishq) anche quando relativa al Divino.Questa fase di amore non è affatto impura, ma solo transitoria, in quanto all’amore per un oggetto segue infine l’amore in sé come condizione eterna, in cui l’uomo e la donna sono uno, e l’umano è anche il Divino e non ha più bisogno di un oggetto esteriore da desiderare, l’amore si consuma e si rigenera in sé stesso.Questo è il paradiso dei sufi. Per raggiungerlo tutti gli stadi sono concessi: la confidenza, l’intimità, l’affetto, l’amore fisico, la compilicità, gli eccessi amorosi, l’infatuazione, la temerarietà, l’estasi, la perdita dei propri sensi.
Casalino Pierluigi 


Dante e i numeri. Una riflessione attuale.





La Divina Commedia è chiaramente basata anche sulla “mistica” dei numeri. La Divina Commedia, è infatti, suddivisa in tre parti dette “cantiche” ed ogni cantica è composta da 33 “canti” (l’Inferno ne ha uno in più, ma la prima cantica viene considerata il proemio all’opera). Ogni canto contiene un numero di versi endecasillabi da un minimo di 115 a un massimo di 160. Dante usa come struttura la terzina incatenata costituita da tre versi di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva. Ogni canto termina con un ulteriore verso, che chiude la rima con il secondo verso della terzina che lo precede. Perché questa attenzione maniacale, quasi patologica, all’armonia dei numeri? Sicuramente ai tempi di Dante la Matematica viveva un momento particolare. Si stava passando dal sistema di numerazione romano a quello arabo (o indiano come era indicato nel Medioevo). E’ vero che il sistema indiano era già noto da secoli. Già nel 980, Gerberto di Aurillac, che divenne successivamente Papa Silvestro, aveva iniziato a diffondere l’uso della numerazione araba. Del resto va ricordato che pare che lo stesso pontefice fosse proprio di origini arabe: da piccolo sarebbe stato posto in salvo sui gradini di un convento in Francia durante una sanguinosa guerra dinastica nella Spagna musulmana. Ma è solo con Fibonacci nel 1202 che di fatto i numeri arabi iniziarono realmente ad essere conosciuti.  Il nuovo sistema stentò parecchio ad essere accettato, tanto che, nel 1280, la città di Firenze proibì l’uso delle cifre arabe da parte dei banchieri. Nella Divina Commedia non vi è cenno di questo nuovo sistema di numerazione, ma è impossibile che uno spirito curioso come Dante non ne fosse a conoscenza. Sicuramente i numeri erano visti nell’antichità in modo molto diverso da adesso. Sicuramente il paradosso di Zenone di Achille e la Tartaruga era conosciuto da Dante e toccava argomenti che sarebbero stati capiti e studiati solo nei secoli futuri: ossia cosa significhi fare una somma infinita di numeri e se sia lecito considerare lo spazio-tempo come infinitamente divisibile, ossia lo spazio e il tempo hanno una struttura continua o granulare? La proiezione stereografica, introdotta da Ipparco di Nicea, usato dai cartografi ai tempi di Dante, era sicuramente uno strumento che generava suggestioni in quanto metteva in corrispondenza un insieme finito (la superficie di una sfera unitaria) con un insieme infinito (il piano). La questione se il V postulato di Euclide potesse essere dedotto dai primi quattro era una questione che aveva interessato i matematici greco-romani e avrebbe continuato ad interessare i matematici (compresi quelli medioevali) fino all’introduzione della geometria non euclidea nel 1826. Il significato esoterico dei numeri si sviluppò anche presso la comunità ebraica con il nascere della kabbalah. Questa tradizione esoterica e magica dei numeri si ritrova nel ritornello numerico della strega nel Faust di Goethe e, ancora oggi, nella tradizione popolare della smorfia. Ma forse la questione che più era interessante per un uomo del medioevo era l’irrazionalità dei numeri. Platone scriveva che la creazione del mondo da parte del Demiurgo era avvenuta in base ad una legge di armonia universale, alla quale si assimilavano in consonanza le leggi che stabiliscono l’armonia tra i numeri. Questo ci fa intuire lo stupore di Pitagora quando scoprì che il rapporto fra diagonale e lato di un quadrato non era razionale (ossia esprimibile come rapporto fra due numeri interi). Ma più che la irrazionalità di radice di due aveva certamente il suo fascino il pi greco. Lo si conosceva già nell’antichità (Pappo di Alessandria) ma la sua irrazionalità fu provata solo nel 1770 da Lambert. L’impossibilità di quadrare il cerchio fu provata solo nel 1882 da Lindemann, anche se Rousseau la credeva possibile in politica. Ma allora cosa voleva dire Dante (Paradiso XXXIII, 133-136) con:



«Qual è il geometra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova.»?

A mio avviso Dante non aveva anticipato teoremi di Matematica, che sarebbero stati dimostrati solo secoli dopo, ma esprimeva l’idea che è vero che si possa approssimare la lunghezza della circonferenza con il perimetro di poligoni regolari iscritti con un numero di lati sempre più crescente. Ma, essendo questo un procedimento che richiede un numero infinito di passi, come Achille non raggiungeva la tartaruga così il matematico non riusciva a quadrare il cerchio. Questa idea che pi greco potesse essere definito in una serie infinita di passi entusiasmò Leibnitz quando nel 1676 scoprì che pi greco su quattro era pari alla serie infinita 1 -1/3 + 1/5 -1/7 + 1/9 etc etc. Questa scoperta spinse Leibnitz a smettere di esercitare la professione di avvocato e a diventare il filosofo e lo scienziato che tutti noi conosciamo.Quindi il razionale e l’irrazionale sono uniti da procedure “infinite”. Ma cosa è l’infinito? Come si fa a misurarlo? E’ facile contare un insieme finito di elementi, ma un insieme infinito? Si può dire che due insiemi infiniti sono “uguali” se esiste una applicazione che li fa coincidere. Supponiamo di avere un albergo con infinite stanze e supponiamo che sia al completo. Arriva un nuovo cliente. Come facciamo a sistemarlo? Semplice: mando il cliente che sta nella stanza 1 nella stanza 2, quello della stanza 2 nella stanza 3, etc, così metto il nuovo cliente nella stanza uno e non sfratto nessun altro cliente. Abbiamo così dimostrato che infinito è uguale a infinito più uno. Con lo stesso ragionamento si può dimostrare che infinito è uguale a due per infinito. Infatti mandando il cliente che sta nella stanza “n” nella stanza “2n” libero tutte le stanze dispari che sono infinite. Si può infine dimostrare che infinito per infinito è uguale ad infinito. Ma allora tutti gli infiniti sono uguali? No i numeri naturali (che sono discreti) sono un infinito molto più piccolo di quello dei numeri reali che stanno nell’intervallo (0,1) (infinito del continuo). Infatti assumiamo per assurdo che esistesse una applicazione che mandi i numeri naturali su tutti i numeri reali che stanno nell’intervallo (0,1) e costruiamo un numero reale x che non venga raggiunto da questa applicazione. Prendiamo un numero naturale (ad esempio 127). L’applicazione mi assocerà 127 a un numero reale y. Vediamo la 127-esima cifra decimale di y. Se non è 7, il nostro numero x avrà come 127-esima cifra decimale proprio 7 mentre in caso contrario (cioè 7 è la 127-esima cifra decimale di y) avrà come cifra decimale il numero 7+1=8 (in generale noi seguremo la regola 9+1=0). E’ facile provare che il numero x così costruito non può essere raggiunto dalla applicazione presa in esame.Notiamo due cose: la prima è che i numeri irrazionali sono stati introdotti per tappare i buchi che ci sono tra le mattonelle dei razionali. Inoltre nella fisica moderna l’Universo ha una struttura granulare (piccoli granelli spazio-temporali che non possono essere ridotti sotto le dimensioni della costante di Planck). Ma allora l’Universo ha una struttura granulare e discreta e quindi ha lo stesso ordine di un infinito . Quindi, in un certo senso, l’intervallo (0,1) (costruito nella nostra mente) è più grande che tutto l’Universo…Incredibile.Ai tempi di Dante, si accettava, con granitica certezza il messaggio religioso e si lasciava ai numeri un’aurea mistica ed esoterica. Nei tempi moderni, abbiamo assunto come dogma “religioso” che la Matematica è lo strumento con cui è stato scritto il libro dell’Universo, per cui abbiamo fede granita nella Scienza e nella Matematica e lasciamo alla religione il misticismo, l’esoterismo e i dubbi. Ma è proprio così? O abbiamo semplicemente sostituito ai dogmi della fede dei nostri padri dei dogmi scientifici altrettanto non dimostrabili e forse arbitrari. Siamo coscienti di ciò? Non è forse questo il segno della nostra ennesima perversa prova di orgoglio, oltre che di uno sconfinato delirio di onnipotenza? Il Covid 19 si manifesta oggi come un limite a tale atteggiamento irrazionale e faustiano di fede nel futuro, senza valutare i rischi di un progresso squilibrato. Il futuro è aurorale ed oracolare, non ha un prima e non ha un dopo, il credere in esso fa parte della natura dell'uomo e del suo guardare avanti. Si tratta di una dimensione di grande respiro che ci sfugge, se pur la inseguiamo.Tuttavia il futuro deve rappresentare sempre un sogno fondato sull'intelligenza e sulla misura della prudenza.
Casalino Pierluigi 

domenica 25 ottobre 2020

Dante e il fascino esoterico dei numeri



La Divina Commedia è chiaramente basata anche sulla “mistica” dei numeri. La Divina Commedia, è infatti, suddivisa in tre parti dette “cantiche” ed ogni cantica è composta da 33 “canti” (l’Inferno ne ha uno in più, ma la prima cantica viene considerata il proemio all’opera). Ogni canto contiene un numero di versi endecasillabi da un minimo di 115 a un massimo di 160. Dante usa come struttura la terzina incatenata costituita da tre versi di cui il primo e il terzo rimano tra loro, mentre il secondo rima con il primo e il terzo della terzina successiva. Ogni canto termina con un ulteriore verso, che chiude la rima con il secondo verso della terzina che lo precede. Perché questa attenzione maniacale, quasi patologica, all’armonia dei numeri? Sicuramente ai tempi di Dante la Matematica viveva un momento particolare. Si stava passando dal sistema di numerazione romano a quello arabo (o indiano come era indicato nel Medioevo). E’ vero che il sistema indiano era già noto da secoli. Già nel 980, Gerberto di Aurillac, che divenne successivamente Papa Silvestro, aveva iniziato a diffondere l’uso della numerazione araba. Del resto va ricordato che pare che lo stesso pontefice fosse proprio di origini arabe: da piccolo sarebbe stato posto in salvo sui gradini di un convento in Francia durante una sanguinosa guerra dinastica nella Spagna musulmana. Ma è solo con Fibonacci nel 1202 che de facto i numeri arabi iniziarono realmente ad essere conosciuti.  Il nuovo sistema stentò parecchio ad essere accettato, tanto che, nel 1280, la città di Firenze proibì l’uso delle cifre arabe da parte dei banchieri. Nella Divina Commedia non vi è cenno di questo nuovo sistema di numerazione, ma è impossibile che uno spirito curioso come Dante non ne fosse a conoscenza.Sicuramente i numeri erano visti nell’antichità in modo molto diverso da adesso. Sicuramente il paradosso di Zenone di Achille e la Tartaruga era conosciuto da Dante e toccava argomenti che sarebbero stati capiti e studiati solo nei secoli futuri: ossia cosa significhi fare una somma infinita di numeri e se sia lecito considerare lo spazio-tempo come infinitamente divisibile, ossia lo spazio e il tempo hanno una struttura continua o granulare? La proiezione stereografica, introdotta da Ipparco di Nicea, usato dai cartografi ai tempi di Dante, era sicuramente uno strumento che generava suggestioni in quanto metteva in corrispondenza un insieme finito (la superficie di una sfera unitaria) con un insieme infinito (il piano). La questione se il V postulato di Euclide potesse essere dedotto dai primi quattro era una questione che aveva interessato i matematici greco-romani e avrebbe continuato ad interessare i matematici (compresi quelli medioevali) fino all’introduzione della geometria non euclidea nel 1826. Il significato esoterico dei numeri si sviluppò anche presso la comunità ebraica con il nascere della kabbalah. Questa tradizione esoterica e magica dei numeri si ritrova nella filastrocca numerica della strega nel Faust di Goethe e, ancora oggi, nella tradizione popolare della smorfia. Ma forse la questione che più era interessante per un uomo del medioevo era l’irrazionalità dei numeri. Platone scriveva che la creazione del mondo da parte del Demiurgo era avvenuta in base ad una legge di armonia universale, alla quale si assimilavano in consonanza le leggi che stabiliscono l’armonia tra i numeri. Questo ci fa intuire lo stupore di Pitagora quando scoprì che il rapporto fra diagonale e lato di un quadrato non era razionale (ossia esprimibile come rapporto fra due numeri interi). Ma più che la irrazionalità di radice di due aveva certamente il suo fascino il pi greco. Lo si conosceva già nell’antichità (Pappo di Alessandria) ma la sua irrazionalità fu provata solo nel 1770 da Lambert. L’impossibilità di quadrare il cerchio fu provata solo nel 1882 da Lindemann. Ma allora cosa voleva dire Dante (Paradiso XXXIII, 133-136) con:



«Qual è il geometra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova.»?

A mio avviso non aveva anticipato teoremi di Matematica che sarebbero stati dimostrati solo secoli dopo, ma esprimeva l’idea che è vero che si possa approssimare la lunghezza della circonferenza con il perimetro di poligoni regolari iscritti con un numero di lati sempre più crescente. Ma essendo questo un procedimento che richiede un numero infinito di passi, come Achille non raggiungeva la tartaruga così il matematico non riusciva a quadrare il cerchio. Questa idea che pi greco potesse essere definito in una serie infinita di passi entusiasmò Leibnitz quando nel 1676 scoprì che pi greco su quattro era pari alla serie infinita 1 -1/3 + 1/5 -1/7 + 1/9 etc etc. Questa scoperta spinse Leibnitz a smettere di esercitare la professione di avvocato e a diventare il filosofo e scienziato che tutti noi conosciamo.
Quindi il razionale e l’irrazionale sono uniti da procedure “infinite”. Ma cosa è l’infinito? Come si fa a misurarlo? E’ facile contare un insieme finito di elementi, ma un insieme infinito? Si può dire che due insiemi infiniti sono “uguali” se esiste una applicazione che li fa coincidere. Supponiamo di avere un albergo con infinite stanze e supponiamo che sia al completo. Arriva un nuovo cliente. Come facciamo a sistemarlo? Semplice mando il cliente che sta nella stanza 1 nella stanza 2, quello della stanza 2 nella stanza 3, etc così metto il nuovo cliente nella stanza uno e non sfratto nessun altro cliente. Abbiamo così dimostrato che infinito è uguale a infinito più uno. Con lo stesso ragionamento si può dimostrare che infinito è uguale a due per infinito. Infatti mandando il cliente che sta nella stanza “n” nella stanza “2n” libero tutte le stanze dispari che sono infinite. Si può infine dimostrare che infinito per infinito è uguale ad infinito. Ma allora tutti gli infiniti sono uguali? No i numeri naturali (che sono discreti) sono un infinito molto più piccolo di quello dei numeri reali che stanno nell’intervallo (0,1) (infinito del continuo). Infatti assumiamo per assurdo che esistesse una applicazione che mandi i numeri naturali su tutti i numeri reali che stanno nell’intervallo (0,1) e costruiamo un numero reale x che non venga raggiunto da questa applicazione. Prendiamo un numero naturale (ad esempio 127). L’applicazione mi assocerà 127 a un numero reale y. Vediamo la 127-esima cifra decimale di y. Se non è 7, il nostro numero x avrà come 127-esima cifra decimale proprio 7 mentre in caso contrario (cioè 7 è la 127-esima cifra decimale di y) avrà come cifra decimale il numero 7+1=8 (in generale noi seguremo la regola 9+1=0). E’ facile provare che il numero x così costruito non può essere raggiunto dalla applicazione presa in esame.Notiamo due cose: la prima è che i numeri irrazionali sono stati introdotti per tappare i buchi che si formano fra le mattonelle dei razionali (costruzione di Dedekind) ma le buche sono molto più delle mattonelle (non ditelo alla Raggi, per carità, che prova questa costruzione sulle strade di Roma). Inoltre nella fisica moderna l’Universo ha una struttura granulare (piccoli granelli spazio-temporali che non possono essere ridotti sotto le dimensioni della costante di Planck). Ma allora l’Universo ha una struttura granulare e discreta e quindi ha lo stesso ordine di un infinito . Quindi, in un certo senso, l’intervallo (0,1) (costruito nella nostra mente) è più grande che tutto l’Universo…Incredibile.Ai tempi di Dante, si accettava, con granitica certezza il messaggio religioso e si lasciava ai numeri un’aurea mistica ed esoterica. Nei tempi moderni, abbiamo assunto come dogma “religioso” che la Matematicaè lo strumento con cui è stato scritto il libro dell’Universo, per cui abbiamo fede granita nella Scienza e nella Matematica e lasciamo alla religione il misticismo, l’esoterismo e i dubbi. Ma è proprio così? Stiamo agendo bene? O abbiamo semplicemente sostituito ai dogmi della fede dei nostri padri dei dogmi scientifici altrettanto non dimostrabili e forse arbitrari. Siamo coscienti di ciò? Non è forse questo il segno della nostra ennesima perversa prova di orgoglio, oltre che di uno sconfinato delirio di onnipotenza? Il Covid 19 si manifesta oggi come un limite a tale atteggiamento irrazionale e faustiano di fede nel futuro, senza valutare i rischi di un progresso squilibrato. Il futuro è aurorale ed oracolare, il credere in esso fa parte della natura dell'uomo e del suo guardare avanti. Tuttavia deve rappresentare un sogno supportato dalla misura dell'intelligenza e della prudenza.
Casalino Pierluigi 

Il tempo è la misura dell'anima.



Il tempo assoluto non esiste. Così le masse lo dilatano (o lo restringono)
di Tommaso De Lorenzo Marisa Saggio
Il tempo assoluto non esiste. Così le masse lo dilatano (o lo restringono)
25 Ottobre 2020 - 15:31
In relatività generale non esistono più lo spazio e il tempo, esistono stelle, asteroidi, persone ed oggetti che interagiscono con lo spaziotempo


Il tempo assoluto tanto caro a Newton e che ci sembra tanto naturale non esiste. Le teorie della relatività, ristretta prima e generale poi, ci hanno insegnato, teoricamente prima e a suon di esperimenti poi, che il tempo corre in maniera totalmente diversa a seconda di dove mi trovo, di come mi muovo, e di cosa c’è intorno a me. Al mare scorre più lentamente che in montagna e addirittura si fermerebbe se riuscissi a raggiungere e “cavalcare” un buco nero (leggi qui e qui).

Soffermiamoci un po’ di più su questo punto: che cosa vuol dire che il tempo scorre diversamente a seconda di dove sono, di come mi muovo e di cosa succede attorno a me? Vuol dire che l’intervallo temporale tra due eventi è diverso a seconda di dove sono, di come mi muovo e di cosa succede attorno a me tra quei due stessi eventi. Se durante una gara di velocità tra lumache, noi rimaniamo a sonnecchiare a bordo pista fino alla fine, mentre tu, stufo di aspettare, ti fai un giro in macchina nei monti vicini per tornare solo allo “sprint finale”, l’intervallo temporale tra l’inizio e la fine della gara sarà diverso per noi e per te. Il nostro intervallo temporale sarà minore del tuo, ovvero per noi sarà passato meno tempo e tu sarai invecchiato di più. La lumaca sulla quale avevamo puntato tutto potrebbe aver battuto il record della pista per noi, ma non per te. L’unità di tempo, il secondo, per una persona sulla Terra non è un secondo per una persona sulla stazione spaziale internazionale. Il metro temporale, quindi, non è unico e si modifica in maniera dinamica a seconda di quanto vicino io sia ad una massa, di quanto veloce mi muova e di come masse ed energia si muovono attorno a me. Questo è la grande rivoluzione sull’idea di tempo cominciata un secolo fa.


E lo spazio? Beh lo sappiamo: la relatività generale ci dice che una grande massa lo curva. È anche facile da capire e da immaginare, basta mettere un peso su di un tappeto elastico ed ecco che quest’ultimo si curva. Muovo quella massa, o ne aggiungo un’altra facendole danzare una intorno alla prima, ed ecco che la curvatura del tappeto cambia continuamente, anche producendo onde (l’equivalente delle onde gravitazionali). Le cose in realtà non sono poi così semplici. L’esempio del tappeto ha infatti i suoi grandi meriti per aiutarci a visualizzare la curvatura dello spazio, ma bisogna stare attenti: lo spazio tridimensionale infatti si curva senza andare ad occupare una quarta dimensione spaziale (che fino a prova contraria non esiste) come invece fa il tappeto bidimensionale invadendo la terza dimensione. In termini tecnici lo spazio si curva intrinsecamente e non estrinsecamente. Non entriamo in ulteriori dettagli perché proprio sulla curvatura dello spazio è interamente dedicato il nostro precedente articolo (leggi qui).

Ricapitoliamo: la relatività generale ha preso il tempo e lo spazio assoluti newtoniani che tanto ci piacciono e ci sembrano intuitivi, e li ha resi concetti fluidi, cangevoli e apparentemente controintuitivi. Sotto l’effetto di grandi masse ed energie lo spazio viene curvato (con le dovute accortezze di cui sopra), e il metro temporale perde la sua unicità, dilatandosi e restringendosi. Bene. Più o meno chiaro? Ottimo, allora riconfondiamoci le idee.


Avrete sicuramente sentito dire, infatti, che nella rivoluzione einsteiniana dell’inizio del secolo scorso spazio e tempo smettono di essere entità distinte. Essi si fondono a formare lo spaziotempo, il tessuto quadridimensionale che, modificandosi sotto la presenza di masse ed energia, produce quello che noi chiamiamo attrazione gravitazionale. Abbiamo visto infatti che il tempo si modifica a seconda di dove sono nello spazio, così come lo spazio si modifica dinamicamente nel tempo, rendendo i due totalmente interconnessi e sullo stesso piano. In relatività generale non esistono più lo spazio e il tempo, esistono stelle, asteroidi, persone ed oggetti che interagiscono con lo spaziotempo, si muovono nello spaziotempo, modificano lo spaziotempo, e vengono tirati e strattonati dallo spaziotempo.

Se quindi spazio e tempo sono così interconnessi, come è possibile che il loro modificarsi a causa della presenza di grandi masse sia così diverso?


La risposta è che modifiche nella curvatura intrinseca e modifiche del metro sono in realtà due facce della stessa medaglia. Così come spazio e tempo sono entità inscindibili, così lo sono il metro temporale e quello spaziale: assieme formano il metro spazio-temporale. Più precisamente, formano l’oggetto fisico fondamentale del quale la relatività generale descrive la dinamica, ovvero la metrica spazio-temporale che definisce le distanze (spaziali e temporali) tra due eventi. Ricordate che a scuola vi hanno insegnato che la distanza tra due punti di coordinate (x1,y1,z1) e (x2,y2,z2) nello spazio è √[(x1 - x2)² + (y1 - y2)² + (z1 - z2)²]?

Questa è la distanza definita dalla comune metrica euclidea. Se cambia la metrica cambiano le distanze tra i due punti con le stesse coordinate. Se ci aggiungo la dimensione temporale, ecco che avrò ottenuto una metrica spazio-temporale in grado di definirmi distanze spazio-temporali. Il punto è che matematicamente la curvatura intrinseca è totalmente determinata dalla metrica. Se cambia la metrica cambia la curvatura, e se la curvatura cambia, allora vuol dire che è cambiata la metrica. Quello che abbiamo capito quindi è che la relatività generale dice che l'effetto della presenza e del moto di masse ed energia sullo spaziotempo è quello di cambiare dinamicamente la metrica spaziotemporale. E questo implica che lo spaziotempo si curva, nel senso che la curvatura intrinseca del tessuto quadridimensionale cambia di conseguenza.


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Saladino, il sultano laico amato dai cristiani.




La sua statua svetta ancora davanti alla cittadella di Damasco. In groppa al destriero travolge le truppe dei «franchi» e punta deciso verso la riconquista di Gerusalemme. Questo guerriero era un simbolo - un tempo convincente, ora decisamente fuori tempo massimo - per il regime di Assad della possibilità di vincere sull'Occidente. Ma anche in Occidente Salah al-Din (1137-1193), che per noi è Saladino, ha sempre goduto di buona stampa tanto che Dante lo mette, musulmano e nemico dei crociati, tra gli spiriti magni del Limbo. Non parliamo poi dei curdi, visto che il suo clan di origine, gli Ayyubidi, veniva dal Kurdistan, essi ne hanno una vera e propria venerazione, come un'incarnazione di un islam diverso, aperto, magnanimo e tollerante. Qualche critica in più arriva solo dal mondo sciita, visto che Saladino pose termine al potere dei Fatimidi in Egitto riportando il Paese sotto il controllo sunnita. Ma contando il livello di tensione tra le due versioni dell'islam si tratta di reprimende moderate e di prammatica.Ma come è nato il mito di questo condottiero che nel 1187 riconquistò Gerusalemme alle forze crociate dopo la grande vittoria nella battaglia di Hattin? E soprattutto com'era il vero Salah al-Din, cosa ci resta del personaggio storico? Un'epoca molto meno intransigente e polarizzata la sua di quanto si possa immaginare, forse meno intransigente e polarizzata della nostra. Il Medio oriente era in lotta forse più di quanto lo sia adesso ma molti degli attori di questo scontro per il potere avevano un atteggiamento fluido e prammatico. Giusto per fare un esempio, il regno crociato di Gerusalemme a più riprese si trovò ad essere alleato dell'Egitto sciita per contenere le forze sunnite del primo grande mentore di Saladino, il potente condottiero turco Nur al-Din. Crociata e Jihad erano concetti molto usati dai predicatori di entrambe le religioni ma poi la politica la faceva, fortunatamente potremmo dire, da padrona. Più di una volta a poche ore da una battaglia o un assedio concluso arabi e crociati passavano subito alla continuazione della guerra con altri mezzi: il commercio e lo scambio.Di sicuro Saladino, non se ne abbiano i cultori dell'eroe guerriero presenti in Occidente e in Oriente, ebbe come caratteristica principale proprio di essere il campione di questo pragmatismo. Entrato in Egitto con forze sunnite fu abilissimo a saldare i suoi interessi con quelli delle grandi famiglie locali e si guardò bene dal prendere di punta, almeno all'inizio, la potente componente sciita del Paese. Dal 1169 riuscì a diventare il visir dell'ultimo signore fatimide d'Egitto, Al-Adid. Quando questo morì nel 1171 Saladino privilegiò la componente sciita ma si guardò bene dal porre il Nord Africa di cui ora aveva il controllo alle dipendenze di Nur al-Din, che tanto lo aveva favorito. Con molto tatticismo si rifiutò anche di combattere con troppo impegno i «franchi» di Amalrico prima e di Baldovino IV dopo. Il regno di Gerusalemme gli veniva comodo come cuscinetto rispetto al suo ex signore, Nur al-Din, che stava a Damasco. E anche dopo la morte di Nur al-Din (nel 1174) tra i principali scopi di Saladino ci fu quello di prendere il controllo della Siria, cosa che lo portò allo scontro anche contro la famosa setta degli «assassini». Gerusalemme restava decisamente in secondo piano. Tanto per dire, ad un certo punto Saladino intratteneva notevoli rapporti con la corte di Federico Barbarossa in Germania e si arrivò a pensare a un matrimonio con una figlia dell'imperatore. Alla fine non se ne fece nulla e Federico partecipò alla terza crociata che gli costò la vita. Ma il Saladino che emerge da tutta la vicenda è un principe capace di essere «golpe e lione» come avrebbe detto Machiavelli. A differenza però di Cesare Borgia Saladino riuscì a radicare il suo Stato. Per farlo usò anche la violenza, una rivolta di truppe nubiane a Il Cairo venne sedata nel sangue con una strage tremenda, ma fu soprattutto abile ad usare la generosità. E anche le pubbliche relazioni. Per dimostrare che era impegnato nella Jihad fece circolare la voce che aveva smesso di bere vino, meglio un bicchiere in meno che una vera guerra al momento sbagliato.
I risultati della sua accortezza si vedono ancora, a secoli di distanza, nel mito che gli è rimasto cucito addosso. L'uomo è diverso dal mito, Saladino usò moltissimo le logiche del clan favorendo la sua famiglia, ma è più interessante. Soprattutto perché dimostra che la vera grandezza non è mai fanatica. Risoluta forse, anche spietata, ma mai intransigente o inutilmente crudele. Questo Saladino lo aveva intuito, come lo aveva intuito Baldovino IV, il suo ultimo sfortunato rivale a Gerusalemme. Ma la loro lezione, in Medio oriente e non solo, è ancora poco seguita a più di 800 anni di distanza. Una lezione che fu invece apprezzata da San Francesco d'Assisi e dallo stesso Dante Alighieri.
Casalino Pierluigi 
 

Quando la Francia voleva annettersi anche la provincia di Imperia.

 Nella primavera del 1945 sulla costa ligure i soldati francesi occuparono Ventimiglia, Camporosso e Vallecrosia, arrivando fino a Bordighera. Un plotone di coloniali senegalesi si spinse addirittura  fino a Imperia per qualche giorno. I francesi adottarono sistemi duri, comportandosi in maniera arrogante anche con atti tipici di pulizia linguistica (così era avvenuto a Nizza nel 1861, provocando la reazione di Garibaldi e della gran parte dei Nizzardi rimasti in città dopo il cosiddetto esodo nizzardo). Nei loro piani era di  annettersi una fascia territoriale fino a Ranzi di Pietra Ligure. Ma i francesi si ritirarono dopo quasi tre mesi, il 18 luglio 1945, in seguito a un ultimatum del presidente Usa Truman verso il troppo esuberante De Gaulle. Il quale aveva anche vagheggiato di rivendicare in Piemonte metà val Susa, val Chisone e val Varaita, francesi fino al trattato di Utrecht del 1713. Ma alla fine si dovette accontentare di Briga, Tenda, e dei passi Monginevro e Moncenisio. Un ruolo decisivo nella orgogliosa difesa dei confini patrii in Liguria ebbe Paolo Emilio Taviani, che si batté con il coraggio di grande livello diplomatico, ma anche con la determinazione dei combattenti partigiani che vedevano nei francesi comportamenti non diversi da quelli delle peggiori bande nere e dei loro alleati nazisti. L'Italia liberata non perdeva, infatti, quel senso di amore per la patria che supera ogni divisione partitica. Circostanza che in Val d'Aosta aveva costretto i partigiani a trovare persino un'intesa con i repubblichini pur di non subire la tracotanza delle truppe francesi e contrastarne l'avanzata. Lo storico valdostano Federico Chabod si distinse, al pari di Taviani, in questa opera di tutela dei valori di autonomia e di libertà che furono poi stesi nella nuova Costituzione repubblicana italiana. 
Casalino Pierluigi. 

giovedì 15 ottobre 2020

L'Italia di Dante.



L’Italia di Dante: sulle orme del Sommo Poeta.
Alla scoperta di borghi, città d’arte e paesaggi legati alla vita e alle opere del padre della lingua italiana. Viaggiare in Italia sulle orme di Dante Alighieri, il Sommo Poeta nonché padre della lingua italiana, andando alla scoperta di borghi e di città d’arte, attraversando panorami mozzafiato e uno straordinario patrimonio letterario, artistico, storico e naturalistico.Nel 2021, in occasione del VII centenario dantesco, nascerà il primo itinerario sulle orme di Dante del nostro Paese. Valorizzerà tutti quei luoghi legati all’autore della “Divina commedia”, facendone risaltare la storia e le bellezze.
Il nuovo progetto “L’Italia di Dante”, ideato dalla Società Dante Alighieri in collaborazione con il Comitato nazionale Mibact, prenderà il via a marzo. Le località visitate dal Poeta o da lui citate nella Commedia saranno proposte secondo itinerari che seguono le tracce dantesche, richiamando elementi di storia della letteratura e dell’arte, proponendo le eccellenze locali e promuovendo un calendario di iniziative della rete Dante per il Poeta. Si tratta di un progetto che ha lo scopo la promozione dei territori in chiave turistico-letteraria, ispirato al racconto di viaggio di Giulio Ferroni il cui diario è diventato “L’Italia di Dante. Viaggio nel Paese della Commedia”. Il libro è una guida molto dettagliata dei luoghi e ciascuno può partire da dove vuole. È un tour dantesco da Nord a Sud dell’Italia dove vengono raccontate le città, i paesi, gli scorci, i passaggi e tutte quelle zone legate alla “Divina Commedia”, riprendendo anche i personaggi danteschi che vi sono collegati. Non solo Firenze, dove è nato, e Ravenna, dove è morto (e dove ci sarebbe la sua tomba), ma anche luoghi minori, dimore che lo hanno ospitato durante il suo esilio, come il Castello dei Malaspina (o di Fosdinovo), e alcune delle più belle e nobili città d’Italia dove trovò riparo, come Verona, Mantova e Bologna. Un Gran Tour di Dante che attraversa territori come la Lunigiana la valle di confine tra Toscana e Liguria, il Casentino, tra Arezzo e le foreste dell’Appennino tosco-romagnolo fino al Delta del Po e poi le Marche con il Castello di Gradara, teatro dell’amore (e della tragedia) di Paolo e Francesca, narrati nel Canto V dell'Inferno. Per la Liguria dantesca rimando ai miei articoli su tale argomento.
Casalino Pierluigi 

sabato 10 ottobre 2020

Dante e la teologia nella Divina Commedia.





Il valore e il senso della Commedia superano l’ambito religioso cristiano, nel quale il poema affonda le radici e del quale intende essere testimonianza; lo stesso fine dichiaratamente didascalico dell’opera suona per tutti gli uomini un richiamo energico all’azione, all’assunzione di responsabilità, al rigore etico. Dante si professa ripetutamente credente in un’epoca come la sua in cui era facile essere accusati di eresia (contro i dogmi); tanto Dante ha inteso mantenersi fedele alla dottrina della Chiesa, quanto si è comportato con una estrema libertà. Il fondamento della fede di Dante sono le Sacre Scritture, che egli considera rivelazione divina, quindi ispirata, in tutte le parti dell’Antico e del Nuovo Testamento; dalla Bibbia quindi trae gran parte delle citazioni presenti nel poema. La struttura della Divina commedia di Dante propone lo stesso Autore Dante di fronte a Dio. Il primo accadimento che si registra nel tempo è la creazione, alla quale segue il peccato, espressione di opposizione dell’uomo, nella sua libertà, allo stesso Dio, con la conseguente condanna all’infelicità; l’ultimo avvenimento della storia sarà la fine dell’universo creato con il seguente giudizio, che riconoscerà le colpe e l’impegno, il bene e il male, mentre ciascuno verrà risuscitato e vivrà l’eternità nella condizione che Dio gli riserva. Viene poi proposto il rapporto tra la Divina Commedia e la Chiesa  Tracce di inferno e paradiso sono desumibili dalla Bibbia, il purgatorio è una creazione della Chiesa, che trova ampi consensi nel culto e nella pratica dei riti di suffragio; il purgatorio infatti è destinato a sparire insieme a tutta la creazione dopo il giudizio universale. Alla conclusione del regno della luce, Dante riceve una particolare folgorazione che gli consente di contemplare Dio in tre diverse successive visioni; le immagini presenti nel testo poetico non intendono essere immagini di Dio, ma tentativi, di creare attraverso la poesia qualche comunicabilità di una straordinaria esperienza. Il canto 5 dell'Inferno viene a sua volta affrontato con la narrazione che ci porta nel II cerchio, dove il guardiano Minasse ascolta la confessione delle anime in arrivo e assegna loro la zona dell’inferno in cui dovranno scontare la dannazione; superato Minasse, i due viaggiatori si trovano al cospetto dei lussuriosi; essi, secondo la legge del contrappasso sono trascinati da una perpetua bufera, così come in vita furono trascinati dalle loro passioni. Dante incontra chi ha subordinato la ragione al desiderio: i lussuriosi; vederli all’inferno per Dante non è una sorpresa eppure è sorpreso e sgomentato perché vede tra questi le donne antiche e i cavalieri: i protagonisti della letteratura d’amore come Didone (aveva giurato sulla tomba del marito di non stare con un altro uomo, invece andò con Enea), Paride, Achille, Elena, i protagonisti della storia di Tristano e Isotta; collocare qui loro vuol dire demolire l’ideologia della tradizione poetica lirica e romanziera: mezzo di perfezione che conduce a Dio. L’amore condotto non in sintonia con la morale cristiana conduce all’Inferno ed il vero amore è quello divino; La coppia Paolo e Francesca e la loro vicenda è differente dalle altre: mette Dante in condizione particolare e gli fa fare 2 eccezioni: rimangono insieme e la pena si interrompe per alcuni attimi (la bufera si ferma). Francesca percepisce che Dante ha un atteggiamento di compassione verso loro e gli racconta la propria storia con linguaggio riconoscibile: forme tipiche stilnovistiche. I versi centrali sono:
-    v.100, è facile risalire al manifesto dello Stilnovo con Guinizzelli; l’amore accende il cuore a chi non sa amare.
-    v.101, una persona ricambia l’amore che viene dato dall’altra.
-    v.102, l’amore conduce alla morte fisica e spirituale nel peccato. Dante pensa al desiderio e al doloroso passo nella morte e nel peccato. Il Sommo Poeta  crea un vero e proprio incastro letterario: l’occasione che avrebbe favorito l’amore sarebbe stata offerta da un testo medievale con la vicenda di Lancillotto e la regina Ginevra dove l’amore fra i due era favorito dallo scudiero Galeot perché il bacio tra Paolo e Francesca sarebbe stato favorito dalla lettura di quella pagine; qui Galeot è il libro stesso che favorisce l’incontro. Dante prova dolore per la sorte di queste due persone, considera giusto il loro destino e ha un senso di disagio verso sé stesso perché si sente compassionevole. La regina Didone morì suicida e Dante la vede in questo cerchio, non per il suicidio, ma per l’amore verso Enea, che più la caratterizza.
Casalino Pierluigi.



Dante teologo.Dante e la teologia nella Divina Commedia.Commedia.-2





Il valore e il senso della Commedia superano l’ambito religioso cristiano, nel quale il poema affonda le radici e del quale intende essere testimonianza; lo stesso fine dichiaratamente didascalico dell’opera suona per tutti gli uomini un richiamo energico all’azione, all’assunzione di responsabilità, al rigore etico. Dante si professa ripetutamente credente in un’epoca come la sua in cui era facile essere accusati di eresia (contro i dogmi); tanto Dante ha inteso mantenersi fedele alla dottrina della Chiesa, quanto si è comportato con una estrema libertà. Il fondamento della fede di Dante sono le Sacre Scritture, che egli considera rivelazione divina, quindi ispirata, in tutte le parti dell’Antico e del Nuovo Testamento; dalla Bibbia quindi trae gran parte delle citazioni presenti nel poema. La struttura della Divina commedia di Dante propone lo stesso Autore Dante di fronte a Dio. Il primo accadimento che si registra nel tempo è la creazione, alla quale segue il peccato, espressione di opposizione dell’uomo, nella sua libertà, allo stesso Dio, con la conseguente condanna all’infelicità; l’ultimo avvenimento della storia sarà la fine dell’universo creato con il seguente giudizio, che riconoscerà le colpe e l’impegno, il bene e il male, mentre ciascuno verrà risuscitato e vivrà l’eternità nella condizione che Dio gli riserva. Viene poi proposto il rapporto tra la Divina Commedia e la Chiesa  Tracce di inferno e paradiso sono desumibili dalla Bibbia, il purgatorio è una creazione della Chiesa, che trova ampi consensi nel culto e nella pratica dei riti di suffragio; il purgatorio infatti è destinato a sparire insieme a tutta la creazione dopo il giudizio universale. Alla conclusione del regno della luce, Dante riceve una particolare folgorazione che gli consente di contemplare Dio in tre diverse successive visioni; le immagini presenti nel testo poetico non intendono essere immagini di Dio, ma tentativi, di creare attraverso la poesia qualche comunicabilità di una straordinaria esperienza. Il canto 5 dell'Inferno viene a sua volta affrontato con la narrazione che ci porta nel II cerchio, dove il guardiano Minasse ascolta la confessione delle anime in arrivo e assegna loro la zona dell’inferno in cui dovranno scontare la dannazione; superato Minasse, i due viaggiatori si trovano al cospetto dei lussuriosi; essi, secondo la legge del contrappasso sono trascinati da una perpetua bufera, così come in vita furono trascinati dalle loro passioni. Dante incontra chi ha subordinato la ragione al desiderio: i lussuriosi; vederli all’inferno per Dante non è una sorpresa eppure è sorpreso e sgomentato perché vede tra questi le donne antiche e i cavalieri: i protagonisti della letteratura d’amore come Didone (aveva giurato sulla tomba del marito di non stare con un altro uomo, invece andò con Enea), Paride, Achille, Elena, i protagonisti della storia di Tristano e Isotta; collocare qui loro vuol dire demolire l’ideologia della tradizione poetica lirica e romanziera: mezzo di perfezione che conduce a Dio. L’amore condotto non in sintonia con la morale cristiana conduce all’Inferno ed il vero amore è quello divino; La coppia Paolo e Francesca e la loro vicenda è differente dalle altre: mette Dante in condizione particolare e gli fa fare 2 eccezioni: rimangono insieme e la pena si interrompe per alcuni attimi (la bufera si ferma). Francesca percepisce che Dante ha un atteggiamento di compassione verso loro e gli racconta la propria storia con linguaggio riconoscibile: forme tipiche stilnovistiche. I versi centrali sono:
-    v.100, è facile risalire al manifesto dello Stilnovo con Guinizzelli; l’amore accende il cuore a chi non sa amare.
-    v.101, una persona ricambia l’amore che viene dato dall’altra.
-    v.102, l’amore conduce alla morte fisica e spirituale nel peccato. Dante pensa al desiderio e al doloroso passo nella morte e nel peccato. Il Sommo Poeta crea, in proposito, un incastro letterario: l’occasione che avrebbe favorito l’amore sarebbe stata offerta da un testo medievale con la vicenda di Lancillotto e la regina Ginevra dove l’amore fra i due era favorito dallo scudiero Galeot perché il bacio tra Paolo e Francesca sarebbe stato favorito dalla lettura di quella pagine; qui Galeot è il libro stesso che favorisce l’incontro. Dante prova dolore per la sorte di queste due persone, considera giusto il loro destino e ha un senso di disagio verso sé stesso perché si sente compassionevole. La regina Didone morì suicida e Dante la vede in questo cerchio, non per il suicidio, ma per l’amore verso Enea, che più la caratterizza.
Casalino Pierluigi.



L'enigma ligure. Le oscure origini dei Liguri.


Sulle origini dei Liguri gli studiosi restano dall'incertezza, anche se non mancano crescenti elementi di identificazione al riguardo. Menzionati a partire da Ecateo come la popolazione indigena confinante con i Greci di Marsiglia, il territorio degli antichi Liguri comincia ad essere definito chiaramente da storici come Polibio e Livio all'epoca della espansione romana nell'Italia settentrionale durante il III secolo a.C. In quel tempo i Liguri erano in genere alleati dei Celti e occupavano le terre ad essi adiacenti: lungo la costa dal Rodano all'Arno e nell'interno fino alla Durance e ai monti a sud del Po. La fascia geografica che, a quanto se ne sa, storicamente conteneva le genti liguri antiche, congiungeva l'odierna penisola iberica ai Balcani. Le conquiste romane sottomisero progressivamente tutte le tribù liguri. Le più importanti vittorie dei Romani furono quelle contro i cisalpini Ingauni e gli Apuani (tra il 238 e il 117 a.C), contro gli Alpini Statielli, contro i Deciati e gli Ossibii intorno a Nizza nel 154 (dopo che Marsiglia aveva chiesto aiuto contro i pirati liguri) e contro i celto liguri Salluvii e i loro alleati nei pressi dell'odierna Aix nel 123 (dopo altre richieste di aiuto da parte dei Marsigliesi). Rimanevano da sottomettere soltanto alcune tribù liguri minori, e venne fondata la prima provincia romana ligure. A quell'epoca sicuramente i Liguri occidentali( e tra essi anche gli intemelii) si erano completamente celtizzati (nella zona di Dolceacqua i Nervii erano stati già da tempo precedente assimilati ai Celti), e Strabone (IV 6,3) allude ai Salluvii e ad altre tribù presso Marsiglia come celto-liguri o più semplicemente celti. La Liguria formava poi una delle regioni augustee dell'Italia. La storia dei Liguri prima del III secolo a.C è, a dire il vero, comunque prevalentemente oscura. Gli scrittori classici contemporanei si limitano a ricordarli di passaggio e le descrizioni tradizionali contenute nelle opere tarde (soprattutto nel libro XLIII di Giustino) sono semimitiche. Gli scrittori dai più antichi ai più tardi ci forniscono scarsi particolari etnografici. La principale trattazione o fonte, quella di Diodoro Siculo (V, 39), insiste sulla durezza dei costumi liguri e sull'asprezza della loro terra. Analogamente si esprimono Tacito, Plutarco e persino autori di teatro greco, come Eschilo, che definiscono i Liguri popolo bellicoso e fiero: Eschilo, infatti, nel Prometeo liberato fa annunciare ad Eracle in viaggio per compiere le sue proverbiali fatiche che presto avrebbe incontrato sul suo cammino il popolo dei Liguri e con esso si sarebbe misurato. Greci e Romani ritenevano, d'altra parte, i Liguri una stirpe forte e combattiva, di arditi marinai e commercianti e la loro parlata diffusa tra il mare di Sardegna e quello Libico proprio a tali scopi, oltre che nel rimanente Mare Nostrum. Malgrado alcuni vocaboli o toponimi siano stati considerati liguri (ad esempio quelli terminanti in -asco, come Giubiasco), l'esistenza di una lingua ligure antica (e comune a tutti gli antichi Liguri) è ancora ipotetica. Le testimonianze archeologiche pertinenti sono scarse e imprecise e non è possibile identificare alcuna civiltà archeologica con i Liguri di età storica, se pur si possa comunque affermare che si tratta di una delle genti più antiche della storia. Tuttavia alcune tradizioni tipiche dei Campi d'urne, come quelle dei vicini gruppi alpini e villanoviani sono evidenti in tutta l'area ligure all'inizio dell'età del ferro, con successivi influssi dei coloni greci e della cultura di La Tène a nord delle Alpi. Le teorie di una persistente tradizione neolitica mediterranea in questa area non sono ancora, peraltro, suffragate da sufficienti testimonianze. Resta tuttora fondamentale, in proposito, uno studio alquanto datato, ma utile sull'argomento, quello dello studioso francese A.Berthelot, pubblicato su "Revue d'Études Ligures", Bordighera,1933.
Casalino Pierluigi.

Come giudicavano i Liguri gli antichi Greci e Romani.



Della reputazione dei Liguri nell’antichità abbiamo testimonianze di storici come
Tacito, Svetonio, Posidonio, Diodoro Siculo, Tito Livio e Sallustio, fino ad arrivare a Plutarco. Sono tutti concordi nel descrivere i Liguri come una selvaggia e combattiva popolazione montana: racconta, ad esempio, Diodoro: “I Liguri che abitano questa regione coltivano una terra sassosa e del tutto sterile che, in cambio delle cure e degli sforzi sofferti dai nativi, offre pochi frutti utili alla sopravvivenza. Perciò gli abitanti sono resistentissimi alle fatiche e, per il continuo esercizio fisico, vigorosi; giacché, ben lontani dall’indolenza generata dalle dissolutezze, sono sciolti nei movimenti ed eccellenti per vigore negli scontri di guerra”. Anche il celebre tragico greco Eschilo, nel suo “Prometeo Liberato”, ne narra, come già ricordato in precedente occasione, le caratterische quando il protagonista, per ricompensare Ercole, il quale ha ucciso L’Aquila che lo tormentava, gli preannuncia il cammino che dovrà percorrere e le insidie che incontrerà nel sostenere le ultime fatiche: “Incontrerai l’intrepido esercito dei Liguri, contro i quali, sappilo, per quanto tu sia forte, la lotta non ti sarà facile. È destino che nel combattimento ti vengano a mancare i dardi, né sul terreno potrai trovare alcuna pietra con cui difenderti, poiché colà il suolo è tutto acquitrinoso. Ma, vedendoti in difficoltà, Zeus avrà pietà di te: adunerà sotto il cielo cupi e pesanti nembi e coprirà il terreno con una grandine di pietre arrotondate con cui potrai respingere e inseguire l’esercito dei Liguri.”
Posidonio, invece, si sofferma sui Liguri marittimi, i genovesi, che: “… sono coraggiosi e nobili non solo in guerra ma anche in quelle circostanze della vita non scevre di pericolo. Come mercanti solcano il mare di Sardegna e quello Libico, slanciandosi coraggiosamente in pericoli senza soccorso. Sopportano le più paurose condizioni atmosferiche che l’inverno crea tremendamente”.
Per i Greci, i Liguri erano degni di Ercole, per i Romani erano signori del mare, secoli prima che intorno al vessillo di Genova tutte le marinerie liguri dominavano i mari e, in qualche modo, anche le terre lontane dove ardimento e commerci le spingevano. Virgilio nelle “Georgiche” definisce il ligure “adsueto malo ligurem”, avvezzo alle difficoltà.
Non a caso, Asterix e Obelix, quelli veri, erano Liguri, ed hanno respinto Roma per oltre un secolo, risultando, fra tutte, la più ostica fra le conquiste imperiali.
Piacciono queste descrizioni leggendarie (ma fino a un certo punto) dei Liguri che ne confermano le virtù civili e morali. Anche gli antichi Greci e Romani riconoscono che i Liguri erano uomini forti, grandi combattenti, esperti marinai ed abili commercianti. 
Casalino Pierluigi. 



venerdì 9 ottobre 2020

Dante teologo.




Ci può essere vera poesia e approfondimento culturale, filosofico, scientifico e teologico contemporaneamente? Secondo un pregiudizio formalistico, sostenuto a suo tempo soprattutto dalla scuola crociana, no: anzi, nella Divina Commedia, quanto più spazio si concede alla teologia, tanto meno è presente la lirica ossia la vera poesia. Il rapporto tra l’ortodossia  cattolica di Dante e la sua arte letteraria è stato quindi studiato per molto tempo sotto questa visione negativa. E in larga misura sulla base di una impostazione ideologica.Circostanza in sé inaccettabile data la assoluta simbiosi di fede e poesia nel Sommo Poeta. Ai nostri giorni il modo di intendere la poesia come “sentimento”, ossia come qualcosa di indipendente dal “concetto” e da ogni contenuto in generale, non è più condiviso da molti critici letterari, in particolare dantisti: a dire il vero la grandezza di Dante va ben oltre tutte le interpretazioni restrittive che limitano ingiustamente il genio dell'Autore. Si fa strada oggi una diversa lettura della poesia del Sommo Poeta, una lettura che scopre (o riscopre) la profondità, ad un tempo, della sua straordinaria lezione teologica e della altrettanto sua stratosferica arte poetica: ne emerge una lezione che testimonia la sua eterna attualità e che ci manifesta nel contempo una inaspettata ed insospettata apertura moderna, che si pone in perfetta sintonia persino con il messaggio del Concilio Ecumenico Vaticano II. Un Dante, dunque, sempre più collocato aldilà del suo tempo, nonostante il permanere delle sue radici nella tradizione. Quindi si può riprendere a parlare della teologia di Dante, senza essere tacciati di occuparsi di “non-poesia”. Ed in Dante, infatti, la teologia riveste un ruolo fondamentale, tanto che si può addirittura parlare di una “riduzione in forma poetica” della Summa Teologica di san Tommaso d’Aquino. E che rapporto c'e' tra la poesia di Dante e la sua teologia, ossia tra la sua personale interpretazione della fede cattolica, da lui peraltro sinceramente professata e coerentemente vissuta e la sua geniale arte? A questa domanda si risponde ormai esaustivamente, dimostrando come l’immaginazione poetica nella Divina Commedia interpreti l’escatologia cristiana con piena libertà creativa e insieme con assoluta fedeltà al Magistero della Chiesa. Si introduce, così un analisi letteraria con alcune considerazioni epistemologiche sulla teologia come interpretazione del dogma. Per rendersene conto basta pensare alla divisione dell’Inferno e del Purgatorio ed alla diversa punizione delle colpe: in ordine di gravità crescente vengono considerati i peccati commessi per incontinenza, violenza, frode. In particolar modo la frode è a sua volta divisa in due settori a seconda di chi siano le vittime: persone che non si fidano o persone che si fidano. Quest’ultima fattispecie è quella del tradimento da Dante (e da tutto il mondo passato) considerato come l’atto più grave e spregevole che si potesse immaginare: sintesi originale di dati filosofici, teologici e giuridici, questa classificazione riflette sostanzialmente l’insegnamento tomista.
Importanti le recenti considerazioni sul Purgatorio, tutt’altro che una “invenzione” medioevale, ma presente nelle Scritture (sia nell’Antico Testamento che in san Paolo, nonché in molti passaggi della Tradizione). Il monte su cui le anime si “affinano” in attesa di essere accolte in Paradiso è costruito in senso inverso rispetto all’Inferno: in basso il peccato più grave (la superbia, elemento presente in ogni mancanza, in quanto ognuna di esse rappresenta una ribellione all’autorità divina) ed in alto i meno gravi (gola e lussuria). I temi teologici più complessi, naturalmente, sono trattati nella terza cantica: la difficoltà di una prima lettura dei versi danteschi è oggettiva, ma una volta superato il primo scoglio ci si trova di fronte ad una poesia di immensa bellezza, che ci consente di apprezzare pienamente anche i passaggi che Croce aveva troppo sbrigativamente liquidato come autenticamente non poetici. Sul congiungersi mirabile della sublime esperienza  poetica di Dante con la totale fedeltà alla sua confessione religiosa da' atto, del resto, il Santo Pontefice Paolo VI con la lettera apostolica Altissimi cantus. Paolo VI, animato da spirito illuminato e amore per la conoscenza celebra le virtù di ingegno e di umanità di Dante, proclamandone le qualità di intellettuale anche laico. E se la Commedia è veramente, da cima a fondo , il percorso di un iniziato, di un uomo toccato dalla Grazia, l'opera dantesca appare protesa a quella ricerca di quel sapere al quale solo l'intelligenza umana può aspirare. Una conclusione questa che una magistrale ed indimenticabile edizione speciale de l'Osservatore romano dell'autunno del 1965 conferma, esaltando l'ardito e multiforme ingegno di Dante. Un Dante, pertanto, che si esprime, è vero, nei vertici della teologia, ma al tempo stesso, recupera la grande anima della cultura classica e dell'ansia speculativa di essa.
Casalino Pierluigi 

giovedì 8 ottobre 2020

Quella Roma onde Cristo è romano ovvero la ricezione di Dante nel Magistero della Chiesa.

Nel 1965 l'Osservatore romano dedicò un numero speciale a Dante e ne celebrò la grandezza, già esaltata da un documento pontificio a firma di Papa Paolo VI. Quella particolare edizione approfondi' la straordinaria lezione culturale e morale del Sommo Poeta, sottolineandone la grande intuizione teologica. Un messaggio quest'ultimo che appare di tale spessore didattico da apparire non solo in conformità alla ortodossia della Chiesa, ma aperto anche a quelle istanze di aggiornamento nella continuità fatte proprie dal Concilio Ecumenico Vaticano II. 
Casalino Pierluigi 

mercoledì 7 ottobre 2020

Dante politico


Dante arriva all'idea di una monarchia universale dopo un percorso che coincide con le diverse tappe ed esperienze della sua vita, oltre che segnato dagli eventi di cui fu testimone. Questa visione politica nasce, in particolare, di fronte all'umanità smarrita e discorde del suo tempo che può trovare conforto e ordine solo con l'instaurarsi di una autorità forte e sovranazionale ( l'Impero) che regga le sorti degli avvenimenti, indirizzandoli verso mete sagge e sicure che siano a tutela della armoniosa e pacifica convivenza dei popoli. Si tratta di un sogno di straordinario livello morale e civile al tempo stesso. Non condividendo la tesi agostiniana che contrappone la Civitas terrena alla Civitas celestis, la Città di Dio e la città del diavolo (Sant'Agostino aveva severamente condannato l'Impero romano, prodotto, come tutti gli imperi, della superbia umana e della sete di dominio), Dante afferma dunque, e invece, un fine di felicità terrena dell'uomo, al limite, o oltre il limite, della stessa ortodossia. In una duplice prospettiva: da un lato perché la beatitudo huius vite appare inammissibile, secondo la lezione dei Padri della Chiesa, come fine autonomo della vita, se pur ordinata alla beatitudo vite esterne (III 15, 7, Monarchia); dall'altro perché, assegnando alla società umana il fine di realizzare collettivamente l'intelletto possibile, facilmente si può cadere nell'errore in cui cadde Averroe' (Ibn Rushd), pensatore ben più "saggio" di Dante (e comunque stimato suo Maestro), che aveva identificato quest'ultimo con l'intelligenza universale, separata dall'anima individuale, perciò privata del requisito dell'immortalità. Di qui la chiosa che Dante stesso ha sentito, forse, la necessità di portare proprio a questo punto della Monarchia, nel canto del Purgatorio in cui Stazio spiega la generazione dell'uomo e l'infusione dell'anima nel corpo (Purgatorio, XXV, 62-65). Specificazione che, se si ammette a chiarimento del possibile equivoco su questo concetto fondamentale della Monarchia, sarebbe da assumere come prova della anteriorità di questa almeno al canto XV del Purgatorio. Legata ad una problematica tipicamente medievale e da tempo ormai anacronistica, la Monarchia può sembrare a prima vista l'opera di Dante più lontana dalla nostra sensibilità moderna: se non poco attraente, soprattutto interessante come documento della riflessione del Poeta e delle ragioni profonde del suo impegno e della sua passione politica. E ciò non di meno spunti di modernità, a dire il vero, si riscontrano anche nella Monarchia: basti pensare alla soluzione data nel XIX secolo al problema dei rapporti Stato Chiesa, fondata dall'intuizione dantesca non solo circa la separazione delle due sfere di potere, ma anche, e in maggior misura, circa l'esigenza di una autorità superiore ai singoli Stati, che garantisca pace e giustizia fra i popoli. Lampi impensabili di modernità, che coinvolgono la coscienza dell'uomo di oggi. Una visione certamente ottimistica della Storia e del destino umano. 
Casalino Pierluigi 

La Divina Commedia e il pensiero arabo






 
Già in più occasioni sul web mi sonno intrattenuto con i miei articoli sulla vexata quaestio di Dante e l’Islam e a tali articoli rimando sulla rete. Qui desidero solo brevemente ricordare che la Divina Commedia ci dà la prima chiave della struttura dei cieli, come l’ordine paradisiaco. Ma è il Convivio ad essere più esplicito. Dante enumera otto cieli, da quello della Luna a quello delle stelle fisse, cui si aggiunge un nono, di cui lo stesso Dante ci dà una descrizione ed una interpretazione assai circostanziata: in proposito i motori dei cieli  sono sostanze separate dalla materia, sono cioè Intelligenze, le quali la gente comune chiama Angeli; i cieli mobili, che sono nove, cui si aggiunge il decimo che annunzia l’unità e la stabilità di Dio, rivelano numeri, ordini e gerarchie. Tutte considerazioni che non possono non essere state ispirate dai filosofi arabo-islamici, se pur Dante non faccia apertamente riferimento ad una concezione immanentistica.

Casalino Pierluigi 

domenica 4 ottobre 2020

Dante e la letteratura francese e provenzale



 
Il contesto storiografico delle letterature romanze, soprattutto, quella volgare, rappresentato nel De Vulgari Eloquentia, qua e là variamente integrato nella Commedia, ci offre lo spunto per tentare un consuntivo delle letture e delle conoscenze dantesche nelle contemporanee letterature d’oil, d’oc e del si. Le tendenze formali e di stile nella Toscana del Duecento risentono dell’influenza delle letterature transalpine. e depongono per un’informazione approfondita di Dante di tali correnti creative. La fortuna del Roman de la Rose e di opere non della linea alta della lirica romanza (un solo troviero, Thibaut de Champagne) e italiana trova riscontro in Dante e non solo nella Divina Commedia. Notizie di quel mondo culturale, dal ciclo brettone a quello divulgativo e storicodidattico (Lancelot, Mort le Roi Artù, Roman de Tristan),  si ritrovano nel Sommo Poeta, pur escludendo conoscenze dantesche dirette di Chrétien de Troyes. Più ampie, invece, le influenze su Dante dei rimatori provenzali, compresi Folchetto da Marsiglia e Bertran.

Casalino Pierluigi.


 


Le celebrazioni dantesche 2015-2020. Riflessioni su Dante oltre il suo tempo.

Dante Alighieri si sarebbe molto meravigliato se gli avessero detto che nel 2015 e nel 2021 non solo in Italia, ma nel mondo intero, ci sarebbero stati i festeggiamenti rispettivamente del settecentesimo anniversario della sua nascita e del settecentocinquantesimo anniversario della sua morte. Non che avesse dubbi circa il proprio valore o circa la durata della propria fama. Dante sapeva di essere un genio, e non che questa consapevolezza  fosse temperata dalla modestia. Chi l'ha letto conosce le sue candide dichiarazioni di eccellenza. E non pensava soltanto di possedere un talento fuori del comune, pensava pure che gli fosse stato riservato un destino fuori del comune, anche post morte, e cioè che la sua vita personale trascorresse all'ombra di eventi e alla presenza di enti  la cui importanza andava molto aldilà della sua semplice persona e persino oltre la sua stessa esistenza. Era convinto che le sue opere sarebbero state lette per molto tempo dopo la sua fine fisica. Perché allora Dante avrebbe dovuto meravigliarsi di queste celebrazioni del 2015-2021 (egualmente anche di quelle passate, però)? Perché Dante viveva in un mondo in cui a scuola e all'università non si studiavano i poeti, e certamente non i poeti volgari. E' vero che Boccaccio legge ed espone la Commedia di Dante a mezzo secolo di distanza dalla sua morte; ed è vero che le letture pubbliche della Commedia si cominciano a svolgere già nel XIV secolo, e poi diventano una specie di rito nel secolo successivo, con l'Accademia Fiorentina. Ma all'università si studiavano altri libri, di epoche più remote, e quel poco spazio che si dava alle sententiae modernorum toccava eruditi come Pietro Lombardo o Tommaso d'Aquino, non ai trovatori o agli stilnovisti. Perciò, per quanto alta fosse la considerazione che Dante aveva di sé stesso, sicuramente non avrebbe potuto immaginare che settecentocinquanta anni dalla sua nascita e settecento dalla sua morte, Dante Alighieri e Lerteratura italiana sarebbero stati sinonimi in molte università del mondo; che un discreto numero di persone si sarebbero chiamate dantisti, cioè suoi studiosi, e che questa specialità avrebbe permesso a molti di loro di campare più dignitosamente grazie a commenti alle sue opere, e che ogni anno sulla sua vita e sui suoi libri si sarebbero pubblicati articoli, libri, tesi di laurea e di dottorato, riviste dedicate interamente a lui, e poi spettacoli teatrali, reading e addirittura videogiochi, Greenaway, Dan Brown, Gassman, Benigni, un indotto da far impallidire i più grandi imperi industriali. E si sarebbe meravigliato anche per un'altra ragione, ancor più elementare: perché Dante non pensava che il mondo sarebbe durato fino all'anno 2015 oppure all'anno 2021. Da buon cristiano, sapeva che un bel giorno il mondo era stato creato e che un altro bel giorno sarebbe finito (non un brutto giorno, perché sarebbe stato il preludio alla vita eterna). E lo stesso Dante, inoltre, pensava (e tanti come lui al suo tempo e prima ancora), forte anche di certe affermazioni di santi, come Agostino e l'Aquinate, che la parabola finale del mondo era cominciata. Quindi pure Dante riteneva vicine la persecuzione finale, la venuta dell'Anticristo e l'Apocalisse. Ci credevano tutti, in un certo senso. Invece oggi il mondo è ancora in piedi, nonostante le serie minacce alla sua integrità e salute(vedi Covid-19), nonostante le follie della corsa agli armamenti ed altre calamità umane e naturali. Gli esseri umani se la passano meglio ai giorni nostri di come se la passavano al tempo del Sommo Poeta. Non solo. Dante si meraviglierebbe davvero molto a sentire che all'università, invece di glossare le glosse di Pietro Lombardo, si legge la Divina Commedia, segno che il progresso esiste. Un progresso in cui Dante fermamente credeva, al punto da mettere in bocca a Ulisse quell'ansia di conoscenza e di futuro ( fatti non foste....) che rende l'intellettuale che stiamo celebrando un uomo che va ben oltre il suo tempo (vedi il mio "Dante futurista", Neofuturismo).
Casalino Pierluigi.

Il parlar ligure da Levante a Ponente e oltre.



Il mondo ligure era localizzato anticamente tra la Spagna e i Balcani, ma occupava anche altre aree del Mediterraneo, insulari e non, come l'Italia meridionale. La Liguria romana si spingeva in profondità a Occidente fino  ai confini della Gallia, rientrando nei limiti della provincia dell'Italia. Caratteri liguri permangono oggi in zone del Piemonte e dell'Emilia, in parte retaggio del dominio della Superba. Ad est i tratti liguri si ritrovano intorno a Sarzana nel tipo lunigianese, diffuso nella regione storica e comprendente gran parte della provincia di Massa, e caratterizzato da tratti comuni soprattutto con l’emiliano; a ovest sono ancora liguri la val Roia, oggi in territorio francese (Briga, Tenda e Breglio), e il Principato di Monaco; la parlata di Mentone ha caratteri di transizione verso il dialetto nizzardo: se pur quest'ultimo subi' nel tempo la pressione del provenzale e del francese (e del piemontese sabaudo), senza perdere una certa base ligure e ligure-genovese. Isole linguistiche liguri, ora estinte, frutto di ripopolamenti quattrocenteschi, interessavano ancora, come ricordato in precedenti occasioni, ai primi del XX secolo punti provenzali più a ovest (Mons, Biot, ecc.). Tali aspetti non hanno alcun rapporto con il contributo dato dal tipo ligure alla formazione dei dialetti galloitalici del Meridione, né con l’affermazione di varietà di ligure ‘coloniale’ di derivazione prevalentemente genovese: il tabarchino in Sardegna, il bonifacino in Corsica, dove, peraltro, si riscontrano tuttora tracce del dialetto di Ventimiglia e dei territori ingauni, onegliesi e portorini, nonché savonesi. Componenti liguri, non solo di natura lessicale, si trovano poi in diverse varietà di contatto: yanito (dialetto andaluso di Gibilterra), neogreco di Chios, varietà urbane della Corsica, sassarese e dialetti delle isole Capraia e Maddalena, sempre in Sardegna. L’emigrazione ha favorito, nel XIX secolo, una presenza del genovese e in genere dei vari dialetti liguri anche in Argentina, Cile e Perù. I ripetuti viaggi commerciali di laiguegliesi e alassini a Cuba, a Santo Domingo e in Uruguay nel XIX secolo hanno, a loro volta, lasciato tracce linguistiche anche in tali regioni. La distribuzione territoriale del ligure prova il legame dei dialetti liguri col retroterra, ma ne testimonia anche il ruolo di collegamento tra le varietà romanze a est (toscano) e ovest (provenzale), e sottolinea l’espansione legata al ruolo di Genova nel Mediterraneo (e aldila' anche di tali limiti), dove il ligure "standard" era la vera e propria lingua franca . Nella classificazione corrente, infine, le parlate liguri si considerano parte della famiglia gallo- italica, entro la quale si presentano tuttavia con caratteri assai particolari. Oltre alla diversa base, alle modalità di romanizzazione e al tardivo legame col settentrione longobardo, l'avvio della organizzazione di uno stato regionale intorno a Genova (a partire del XII secolo) aiuta a capire l’originalità linguistica del territorio ligure rispetto al retroterra, fissata già da  Dante, che nel De vulgari eloquentia situa il solo genovese, tra i volgari settentrionali, a destra dell’ideale spartiacque appenninico.
Casalino Pierluigi.

venerdì 2 ottobre 2020

Misticismo ebraico e nell'islam

Negli articoli sul web dello scrittore e studioso ligure di Imperia Casalino Pierluigi, nato a Laigueglia il 29 giugno 1949.

Ancora sulla questione delle fonti arabo-islamiche della Divina Commedia di Dante. L'influenza di Ibn Sina (l'Avicenna dei Latini).

Sulla questione delle fonti arabo islamiche della Divina Commedia e sul complesso delle influenze del pensiero arabo sull'opera di Dante ho avuto modo di intrattenermi con diversi interventi sul web. Non solo sulla vasta letteratura mistica ed esoterica dell'Islam, ma anche e soprattutto sugli influssi della filosofia araba sul Sommo Poeta, in particolare Ibn Rushd (l'Averroe' dei Latini). Meno noti gli elementi del pensiero di Ibn Sina (l'Avicenna dei Latini) presenti in Dante, se pur di notevole importanza: tra essi primeggia la teoria della luce, soprattutto quella che pervade la rappresentazione delle anime nelle Cantiche del Poema, ma anche quella di una certa visione escatologica che viene recepita da Dante tramite gli studi presso l'Università bolognese. Visione che si identifica sia nel mondo delle idee che nella certa lettura da parte dell'Alighieri di testi avicenniani che riproducono momenti del pensiero del filosofo iranico circa le realtà ultramundane. 
Casalino Pierluigi 

Il parlare ligure


Caratteri liguri si riscontrano in aree del Piemonte meridionale (alta val Tanaro, parte del Monregalese e della val Bormida, retroterra dei centri storicamente genovesi di Ovada, Gavi e Novi Ligure in provincia di Alessandria) e in Emilia (valli piacentine con Ottone, parmensi con Bedonia e Compiano). A est i tratti liguri digradano intorno a Sarzana nel tipo lunigianese, diffuso nella regione storica comprendente gran parte della provincia di Massa, e caratterizzato da tratti comuni soprattutto con l’emiliano; a ovest sono ancora liguri la val Roia, oggi in territorio francese (Briga, Tenda e Breglio), e il Principato di Monaco; la parlata di Mentone ha caratteri di transizione verso il dialetto nizzardo. Isole linguistiche liguri ora estinte, frutto di ripopolamenti quattrocenteschi, interessavano ancora ai primi del XX secolo punti provenzali più a ovest (Mons, Biot, ecc.). Tali episodi non hanno rapporto col contributo dato dal tipo ligure alla formazione dei dialetti galloitalici del Meridione, né con l’affermazione di varietà di ligure ‘coloniale’ a base genovese: il tabarchino in Sardegna, il bonifacino in Corsica. Componenti liguri, non solo di natura lessicale, si riscontrano poi in diverse varietà di contatto: yanito (dialetto andaluso di Gibilterra), neogreco di Chios, varietà urbane della Corsica, sassarese, dialetti delle isole Capraia e Maddalena. L’emigrazione ha radicato nel XIX secolo una presenza del genovese anche in Argentina, Cile e Perù. La distribuzione areale rende conto del legame dei dialetti liguri col retroterra, ma ne accredita anche il ruolo di ponte tra le varietà romanze a est (toscano) e ovest (provenzale), e sottolinea l’espansione legata al ruolo di Genova nel Mediterraneo e oltre. Nella classificazione corrente le parlate liguri si considerano parte del gruppo galloitalico, entro il quale si presentano tuttavia con caratteri particolari. Oltre al diverso sostrato, alle modalità di romanizzazione e al tardivo collegamento col settentrione longobardo (643), la precoce organizzazione di uno stato regionale intorno a Genova (XII secolo) aiuta a comprendere l’originalità linguistica del territorio ligure rispetto al retroterra sancita già da  Dante, che nel De vulgari eloquentia colloca il solo genovese, tra i volgari settentrionali, a destra dell’ideale spartiacque appenninico.

Casalino Pierluigi