martedì 30 marzo 2021

La censura di Dante al tempo del conformismo all'insegna del politically correct.


Il regime staliniano e quello nazista misero in cantina quella che essi consideravano arte controrivoluzionaria o degenerata, eclissando capolavori dell'umanità. Analogamente le guardie rosse della Cina di Mao distrusseo opere d'arte e di cultura che celebravano la civiltà cinese e così fecero nel nome del fanatismo islamico i talebani afghani e l'Isis, distruggendo monumenti dell'intelligenza mondiale. Perché poi non dimenticare le bombe alleate su Dresda? Ora tocca a questi ottusi seguaci del politically correct a sbizzarrirsi nel censurare Dante e il suo profetico messaggio di speranza non solo religiosa, ma anche autenticamente laica, come lo stesso Sommo Poeta interpretava. Se è vero, infatti, che la meta ultima di Dante e' la visione suprema di Dio, un Dio fatto uomo, che ha preso la condizione nostra di combattenti per la libertà di coscienza. Ecco ora che l'Europa pavida dei nostri giorni cede i propri valori sull'altare del conformismo e della vigliaccheria culturale, censurando Dante, uno dei pilastri della nostra eredità civile e morale.
Casalino Pierluigi 


Il sonno della ragione genera mostri ovvero la censura di Dante al tempo del politically correct.


Il regime staliniano e quello nazista misero in cantina quella che essi consideravano arte controrivoluzionaria o degenerata, eclissando capolavori dell'umanità. Analogamente le guardie rosse della Cina di Mao distrusseo opere d'arte e di cultura che celebravano la civiltà cinese e così fecero nel nome del fanatismo islamico i talebani afghani e l'Isis, distruggendo monumenti dell'intelligenza mondiale. Perché poi non dimenticare le bombe alleate su Dresda? Ora tocca a questi ottusi seguaci del politically correct a sbizzarrirsi nel censurare Dante e il suo profetico messaggio di speranza non solo religiosa, ma anche autenticamente laica, come lo stesso Sommo Poeta interpretava. Se è vero, infatti, che la meta ultima di Dante e' la visione suprema di Dio, un Dio fatto uomo, che ha preso la condizione nostra di combattenti per la libertà di coscienza. Ecco ora che l'Europa pavida dei nostri giorni cede i propri valori sull'altare del conformismo e della vigliaccheria culturale, censurando Dante, uno dei pilastri della nostra eredità civile e morale.
Casalino Pierluigi 

lunedì 29 marzo 2021

articolo sulle comunicazioni in Liguria da rielaborare



Tra il 264/265 gli ALAMANNI distrussero molte città della Liguria, tra cui “Ventimiglia Romana“, come risulta attestato anche dall’archeologia viste le tracce di incendi e crolli, con susseguenti restauri, individuati in parecchi importanti centri liguri anche costieri> L’intervento degli Alamanni dovette incidere notevolmente sull’economia ligure ed in particolare a parere di F.Pallarés (Alcune considerazioni sulle anfore del Battistero di Albenga in “Rivista di Studi Liguri”, 1987, pp.280-281) il grave saccheggio avrebbe determinato, a giudizio non del tutto condiviso dell’autrice, l’arresto della COLTIVAZIONE DELL’OLIVO in Liguria con l’incentivazione dell’importazione (l’analisi delle anfore e di altri reperti, oltre che più generali considerazioni di storia economica, sembrerebbe avallare l’idea che fino a metà III secolo l’Italia avesse importato olio d’oliva dalla Spagna -dalla Boetica in particolare- e che invece dalla metà di quello stesso secolo in Italia ed in Liguria si prendesse ad importare il più economico e concorrenziale olio africano, specie quello delle grandi aziende della Tripolitania gestite da famiglie di rango senatorio).
L’indagine sul sito di Ventimiglia romana offre qualche dato: l’analisi dei reperti e la presenza in loco di rozzi restauri – son evidenti quelli bizantini e Longobardi in una Parodos del teatro – suggeriscono l’ idea di un degrado, dell’alternarsi di saccheggi e dominazioni con un calo demografico e l’interruzione (per il timore di predoni e la distruzione di numerosi ponti) della via Julia Augusta. Si sta altresì sviluppando l’ipotesi che, difronte ai pericoli delle invasioni barbariche, la popolazione costiera sia andata concentrandosi in siti riparati, come il Cavo di Ventimiglia (già sede di complessi romani imperiali, ove si rinvennero 8 tombe romane a cappuccina, altri tumuli medievali e resti murari di un edificio che han fatto pensare allo sviluppo di una villa rustica d’epoca imperiale se non di un sobborgo tardoromano: U.MARTINI, Nuovi ritrovamenti sul “Cavo” di Ventimiglia Alta in “R.S.L.”, XI, 1945, nn. 1-3, pp. 31-36).
Peraltro nel sito di Ventimiglia alta, nel 1857, “Nel taglio della trincea che s’apriva sotto l’oratorio di S.Giovanni Battista per le costruzioni della nuova traversa… (G. ROSSI, Notizie degli Scavi, 1887, p. 289) si rinvenne un sigillo romano imperiale di ottima fattura, uno strumento (del II sec.d.C., di forma ellittica -cm.2×4- con impugnatura ad anello) utilizzato per vidimare sulla ceralacca, col nome del personaggio loro propietario, documenti pubblici o privati. Nel sigillo, su tre linee, si legge M(arci)/ Aemili(i)/ Bassi quasi unanimente identificato con uno dei più importanti cittadini romani di Ventimiglia Romana, appunto Marco Emilio Basso.


Oratorio di San Giovanni Battista a Ventimglia (IM)
V’è peraltro da dire che l’oratorio di S. Giovanni Battista, un tempo intitolato a S. Chiara, sorgeva in un sito particolare della città alta, cioè prossimo al porto del Roia ed alla via imperiale sin a far pensare che vi potesse sorgere un qualche edificio pubblico, con funzioni doganali, amministrative o comunque di valenza sociale: tutte queste considerazioni hanno bisogno di ulteriori, non facili, verifiche archeologiche ma sembra ormai abbastanza certo che, a prescindere dalle ipotetiche dimensione urbane del sito, i residenti intemeli che, ai tempi delle lotte fra barbari e bizantini, presero a sistemarsi nel luogo riparato di Ventimiglia Alta, si spostassero non tanto su aree relativamente deserte ma su un sistema suburbano romano imperiale non privo di strutture e di complessi d’utilità pubblica e sociale evolutisi da tempo [la popolazione dei fondi dell’ entroterra prese intanto a concentrarsi dal V sec. in nuclei di fondovalle sì da abbandonare quelle Villae, di singoli ceppi di famiglia, che sorgessero lontane, in luoghi anche ottimali, favorevoli e assolati su mezzacosta, ma isolati in rapporto alle nuove strategie.
Secondo il Formentini (Genova nel Basso Impero e nell’ Alto Medioevo in Storia di Genova dalle origini al tempo nostro, Milano, 1941, I , p. 68) il re ALARICO I nel 400, a capo dei VISIGOTI o GOTI VALOROSI, distrutta Aquileia e cercato invano di occupare Milano, avrebbe devastata l’Italia fino alla terra dei Tusci. Poi, minacciato dal condottiero imperiale Stilicone, si sarebbe mosso verso le Gallie, passando per la Liguria di cui sarebbero state distrutte vie e città, sin alla sconfitta patita a Pollenzo per opera dello stesso Stilicone nel 402.

A parere del Barocelli, ALARICO avrebbe invece posto a sacco le città liguri e del Basso Piemonte, poi durante la II invasione, del 408-410 (quella che portò alla presa ed al sacco di Roma da parte dello stesso Alarico), una seconda armata di VISIGOTI, guidati da ATAULFO, alla ricerca di un’uscita verso le Gallie, avrebbe devastato il municipio di Albintimilium (il poeta latino Claudiano, nel De sexto cons. Honor. Aug. pp. 440-4, scrisse che Alarico aveva mosso le armate profittando dell’inverno contro le trepidanti città liguri).
Tale esercito visigotico dovette seguire la via imperiale di costa, sul cui percorso esistevano nuclei insediativi senza difese, ove era semplice far saccheggi e rifornire l’armata: il caso più celebre fu quello di Albenga, ormai divenuta centro paleocristiano, che pei gravi danni subiti venne riedificata fra 414 e 417 dall’imperatore Costanzo III.


Uno scorcio della Val Roia
Lo spostamento dei Visigoti si sviluppò tuttavia su un fronte assai ampio, fra costa ligure e Piemonte cispadano, perché, seguendo con probabilità i tragitti e le diramazioni delle vie Postumia e Julia Augusta, vennero investiti molti centri del Piemonte centro-meridionale ed in particolare le città di Libarna, Industria, Pollenzo (anche Alba Pompeja ed Hasta) senza escludere il nodo viario di Acqui (Aquae Statiellae) da cui la Giulia Augusta scendeva al mar ligure per fondersi, presso Vado (Vada Sabatia) con l’Aurelia, che proveniva da Luni e Genova, e sostituirla quale strada di commercio verso la Provenza (E.COLLA, Gli Statuti Comunali Acquesi, Cavallermaggiore, 1987, Appendice di ritrovamenti archeologici).

Si potrebbe ritenere, sulla base di riscontri di onomastica gotica, che il grosso delle forze di Ataulfo fosse avanzato su 2 direttrici, di cui quella costiera conduceva ai siti portuali di Albenga, Capo Don di Taggia e Ventimiglia mentre la “piemontese” arrivava a Pedo. Al centro di questa “tenaglia barbarica” fu gravemente colpita la città di COEBA (oggi Ceva), già insediamento degli Ingauni e quindi colonia romana e forse anche municipio: secondo l’interpretazione di alcuni storici, oltre che dalle invasioni barbariche, la città, di cui si sa purtroppo poco, sarebbe stata cancellata -prima di risorgere nel Medioevo ed essere eretta in Marchesato da Bonifacio del Vasto in favore del figlio Anselmo- dai predoni saraceni.

Ai Visigoti successero per poco (476) gli ERULI (antico popolo germanico) che, appoggiando Odoacre, gli consentì di incorporare la Liguria nel suo regno barbarico (i VANDALI, per quanto citati dalla storia, procedettero più a saccheggi della Liguria con la loro flotta, nel V sec. operando dalla base di Cartagine specie all’epoca del vigoroso re Genserico). Sempre nel V sec. giunsero poi gli OSTROGOTI di Teodorico che, distrutti i nemici, impose un ordinamento germanico alle contrade italiche e, essendo di fede ariana, in contrapposizione alla Chiesa di Roma, che in molte pubbliche funzioni aveva ormai surrogato lo Stato, procedette ad una distribuzione di terre, anche ecclesiastiche, ai suoi militi congedati od Arimanni, sistemandoli in zone strategiche come la Val Nervia e contrapponendo le chiese ariane a quelle cattolico-romane attorno a cui gli italici andavano recuperando una guida unitaria ( ENNOD., Vita Epiph., 130,138,132: L. CRACCO RUGGINI, Esperienze economiche e sociali nel mondo romano in Nuove questioni di storia antica, Milano, 1969, p. 787).


Una diramazione della Val Nervia
Al pari dei Visigoti, e come avrebbero fatto molti invasori compreso i Saraceni, anche gli OSTROGOTI erano scesi al mare intemelio dal territorio di Borgo S. Dalmazzo e come i predecessori si erano trovati nella necessità di seguire il percorso mare-monti del periodo classico, quello che portava a Tenda e quindi a Briga, Saorgio (in Val Roia), Passo Muratone al tragitto imperiale di Val Nervia (Marcora, Veonegi, ” Portu”) giungendo a Dolceacqua e Camporosso (area di S.Andrea – S.Pietro).
La toponomastica prova che i GOTI raggiunsero un buon controllo del territorio e dei suoi nodi viari. Discreta importanza fu riconosciuta al quadrivio di Marcora. Dal sito i germani sarebbero penetrati nel vecchio fondo romano di Oggia o sistemarsi come coloni nel pignasco, nei piccoli insediamenti tardo-romani di Argeleu e del Marburgu (sul vallone che limita a Sud la spianata della chiesa di San Tommaso), del vicino Marbuscu o bosco cattivo e della supposta area sacrale di Lago Pigo.
Grazie ai rami viari i Barbari non avrebbero trovato ostacoli a raggiungere l’ area di Apricale (tragitto Val Nervia – Isolabona – Apricale – Summus Vicus \ Semoigo); da lì sarebbero potuti arrivare in VALLE ARGENTINA (direttrice di Apricale-Baiardo-S.Romolo).
L’importanza di questa II^ valle, crocevia di scambi sin al tardo Impero, anche per l’approdo portuale di Costa Beleni \ Balena in Riva Ligure-Arma di Taggia, induce però a credere che i Goti vi siano piuttosto giunti in modo autonomo rispetto alla val Nervia.
Procedendo da Pedona sin a Briga era una trasversale, da “Madonna delle Fontane” al Colle Ardente fino a Triora, donde era facile raggiungere i latifondi tra Sanremo e Valle Argentina.


Uno scorcio di Valle Argentina
Il castello di Campomarzio/S.Giorgio, ove son riconoscibili costruzioni bizantine su resti di un avamposto romano a sua volta eretto sul cuspidale di un castelliere ligure, restò per secoli a guardia del percorso vallivo dell’Argentina.


La zona di Costa Beleni
Dai primi del 1800 una serie di scavi archeologici ha fatto individuare come la stazione stradale romana di Costa Beleni, si sia evoluta in un nucleo urbano e portuale del medio Impero e poi in un insediamento paleocristiano, ove si son individuate 2 basiliche primigenie ed una necropoli.
Documenti di varia antichità si son reperiti per questo territorio né mancano tracce di distruzioni e restauri, con qualche scoperta riguardante sia il periodo gotico del V sec. che della riconquista bizantina del VI (N.CALVINI-A.SARCHI, Il Principato di Villaregia, Sanremo, 1977, Introduzione storica di Aldo Sarchi).

da Cultura-Barocca

8 SETTEMBRE 2015
L’estremo Ponente Ligure agli inizi del Medio Evo
Il Teatro Romano a Ventimiglia (IM), Frazione Nervia - antica Albintimilium -, dove in una parte delimitata  venne eretta una chiesa paleocristiana, ormai scomparsa.
Il Teatro Romano a Ventimiglia (IM), Frazione Nervia – antica Albintimilium -, dove in una parte delimitata venne eretta una chiesa paleocristiana, ormai scomparsa.
Non è possibile affermare se dal IV sec., come in altre aree del Nord Italia in crisi socio-economica e poi anche demografica, si siano costituiti dei latifondi nel territorio ingauno ed intemelio: al riguardo mancano troppi dati. E’ più facile sostenere che dal V sec. la Chiesa (uscita con Costantino dall’illegalità), ormai sempre più collaboratrice di uno Stato sempre meno forte, abbia assimilato alcune di queste proprietà; e che ciò si sia verificato in occasione di crisi belliche o di carestie, quando molti fedeli donavano parte dei beni (spesso fondiari) alla Chiesa, ricevendone “tuitio” o patronato (cioè protezione). Nel V sec. le popolazioni della costa ligure presero poi a migrare verso l’interno, terrorizzate delle devastazioni dei Visigoti di Alarico (410) e dei Vandali di Genserico (429-435).
Nel 476 la LIGURIA MARITIMA venne incorporata nel regno di Odoacre; funzionari barbari amministravano le città, mentre gli antichi possedimenti erano depauperati di un terzo, assegnato agli “hospites” cioè a famiglie di barbari invasori.
Tutte le aree agricole tra Ventimiglia ed Albenga patirono questa sorte, in particolare quando si trattava di terre favorevoli a buoni insediamenti stabili. Non sussistono molti dati archeologici su queste trasformazioni (per quanto tracce di parecchi fondi rurali – “visitati” dalla buona età dell’Impero all’epoca medievale – siano stati rintracciati da ricerche nella valle del Nervia) comunque sia in media ed Alta Val Nervia (al pari che in quella dell’Argentina) si individuano (dai documenti più antichi reperibili sino ad oggi) cognomi provenienti dalla buona latinità o dalla grecità bizantina (come Balbo, Basso, Ceriani da una gente Coelia, Maccario/Macario, Filippi e via dicendo) posti a confronto (in un clima tuttavia ormai pienamente pacifico per quanto riportato dai più antichi atti scritti reperibili) con genti dai cognomi di derivazione germanica, che fanno riferimento a gruppi di invasori stanziatisi su territori rurali, trasformandosi spesso da guerrieri in agricoltori e pastori (si ricordino cognomi come “Arnaldi, Airaldi, Garibaldi, Lanteri, Lombardi” ecc.).  Qualche considerazione si può fare per le grosse VILLE RURALI (o “pseudourbane”) della bassa valle Argentina e site tra Sanremo, Riva Ligure e Bussana (della I e della III sopravvivono tracce archeologiche, sotto forma di ruderi di complessi residenziali e rurali). Ma se abbiamo queste referenze della villa “Matuciana” (in qualche modo matrice di Sanremo) e di quella di Bussana (forse nominata da una famiglia “Vibia”), altrettanto rilevanti dovevano essere le “ville imperiali”, circondate da fertili ed ampi territori (forse frutto di donativi terrieri a legionari), denominate “POMPEIANA” (donde poi si staccò il peculiare complesso di “TERZORIO”), “Porciana” (S.Stefano al mare), “Ceriana” (poco o nulla si può dire delle ville “Periana” e “Luvisiana” su cui N. Lamboglia dette vaghe supposizioni e, verisimilmente, di altre proprietà ruotanti intorno alla strada romana, la “STAZIONE STRADALE” sulla via Giulia Augusta – oggi l’Aurelia, grossomodo – nominata nelle carte imperiali “COSTA BELENI” o “BALENA” centro ingauno ai confini dell’area intemelia, sede di un certo inurbamento e di un interessante attivismo commerciale, per la presenza di un porto e la prossimità sia alla via di costa che a quella di penetrazione, per la valle Argentina, in Padania, oppure, con una deviazione da Baiardo, nel territorio di Ventimiglia romana). I fondi rurali di val Nervia, le ville suburbane che si succedevano da questo torrente, sin al territorio di Bordighera ed Ospedaletti, e le antiche VILLE del Tabia fluvius subirono delle trasformazioni marcate , peraltro accentuate dall’ostrogoto Teodorico, che, di fede ariana, procedette ad una spoliazione dei beni della CHIESA TRINITARIA DI ROMA.
Questa finì per dover appoggiare Bisanzio (nonostante l’ambiguo comportamento di imperatori come Costanzo II e Valerio, non estranei – per contrapporre il loro clero fedele a quello “troppo” autonomo di Roma – dal far concessioni a barbari ariani nel IV sec.). L’ambizioso GIUSTINIANO, che progettava la restaurazione dell’Impero di Roma, in cui anche la Chiesa occidentale fosse dipendente dallo Stato, colse l’occasione di riprendere l’Italia e Roma, che nell’opinione mondiale pur sempre erano ancora il “centro del tutto” : così i generali greci Narsete e Belisario, nel corso della GUERRA GRECO-GOTICA (535-553), riuscirono nell’impresa. Dopo la vittoria bizantina fu emanata la Prammatica Sanzione per cui Giustiniano restituì agli antichi proprietari le terre confiscate dai Goti. Fra tali conquiste si annoverò, senza dubbio, con la LIGURIA MARITIMA ITALORUM l’ancora importante base di Ventimiglia. Pochi fra i vecchi possessores erano superstiti e spesso non si trovavano neppure loro eredi: i Bizantini donarono poi alla Chiesa, nel caso alla Diocesi di Genova, quei territori che risultavano ormai privi di legittimi padroni o pretendenti. Gli storici hanno visto in tali concessioni una contropartita per l’atteggiamento filobizantino dei Vescovi genovesi durante la GUERRA GRECO-GOTICA, nel corso della quale i re goti Totila e Teia si scontrarono contro formidabili ma feroci truppe greco-bizantine, spesso reclutate tra selvaggi popoli di frontiera, vassalli dell’Impero orientale: come un proverbio (riportato da Paolo Diacono) per decenni – viste le angherie fatte da contingenti greci alla popolazione locale, serpeggiò fra gli indigeni la frase che “era meglio esser servi dei Goti che alleati dei Greci”.  Per comprendere queste REGALIE BIZANTINE alla Chiesa di Genova bisogna tenere conto delle condizioni socio-politiche e della radicale trasformazione dei contingenti greci in truppe di occupazione più che di liberazione. All’ epoca dello SCISMA TRICAPITOLINO, nel 537 Giustiniano, volendo accentuare il controllo sull’ episcopato italiano che cercava di sfuggire al controllo dei suoi ministri e governatori, costrinse Papa Vigilio a condannare i Tre Capitoli (le dottrine di Teodoreto di Ciro, Teodoreto di Mopsuestia, Iba di Edessa), le quali stavano alla base del cristianesimo trinitario occidentale e vennero sancite dal Concilio Calcedonese del 451. La Liguria costiera o Maritima Italorum aderì alla condanna dei “Tre Capitoli”, anche perchè quasi obbligata dalla dominazione bizantina (gran parte dell’Italia dal 568 passò invece sotto il controllo dei Longobardi). A Genova dal 569 risiedeva il fuggiasco arcivescovo di Milano, che, allacciati contatti con le filo-greche Roma e Ravenna, condannò quella dottrina dei Tre Capitoli, che gran parte d’Italia, Milano compresa, professava. L’atteggiamento della Diocesi genovese indusse i Bizantini, bisognosi di alleati, non solo a compensarla ma a potenziarla, in previsione di una sua contrapposizione alla Diocesi milanese. Nell’area fra “Albintimilium” ed “Albingaunum”, in particolare nei territori di “COSTA BELENI” le donazioni alla Chiesa genovese furono di rilievo.

da Cultura-Barocca


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Sulle lettere di Carlo Roberto Dati ad Angelico Aprosio
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domenica 28 marzo 2021

Il collare della colomba ovvero il trattato sull'amore e gli amanti di Ibn Hazm

Il testo arabo di questo trattato amoroso del severo teologo e polemista andaluso Ibn Hazm ( 994-1064) fu pubblicato nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale. Divulgato nei vent'anni tra le due guerre, esso suscitò vasto interesse, per le prospettive che apriva sul costume e la vita sociale della Spagna musulmana, ma ancor più per la sua incidenza sui dibattiti relativi all'influsso letterario e concettuale dell'organismo spagnolo sulla Romania medievale. La geniale operetta, a parte il suo valore documentario, riflette infatti la concezione filosofica e il rigorismo giuridico della visione islamica circa i rapporti affettivi e sessuali: problemi teoretici e religiosi di ascendenza greca coesistono qui con sviluppi talvolta assai crudi di casistica fisiologico, e la concezione dell'amor cortese, di così larga diffusione nel Medioevo europeo e latino, trova qui una formulazione di suggestiva cronologica. Su tutto questo incombe quell'atmosfera di religiosa pieta', tanto più notevole in questo autore che fu per altri lati un dissidente dell'ortodossia ufficiale islamica, e come tale perseguitato e bandito.
Casalino Pierluigi 

Dante e il Liber Scalae, oltre ogni polemica pretestuosa e strumentale.


Il Liber Scalae è opera araba ispirata alla leggenda dell'ascensione (miraj) di Maometto, attraverso le sfere celesti fino al trono divino, e attribuita, secondo la tradizione, allo stesso Profeta dell'Islam. L'ispirazione della storia, da cui si svilupparono molti successivi (tra i quali uno dei più importanti è un poema mistico di Ibn Arabi, morto nel 1240), viene dall'allusione del primo versetto della Sura XVII del Corano. Il testo originale arabo è andato perduto, ma ne resta la traduzione in castigliano, compilata nel 1264 dal medico ebreo Abraham Alfuquim, presso la Corte di Alfonso X il Savio, da cui Bonaventura da Siena trasse due versioni in latino (appunto Liber Scalae) ed una in francese antico ( Livre de l'Eschiele Mahometi). Si discute ancora se Dante abbia potuto conoscere il Libro della Scala, che, secondo l'orientalista spagnolo Miguel Asin Palacios, costituisce una delle principali fonti della Divina Commedia. Dante, tuttavia, ne sentì quasi certamente parlare da Brunetto Latino, suo maestro, il quale fu ambasciatore di Firenze presso Alfonso il Savio e poi esule alla sua Corte. La polemica tra i sostenitori e i negatori delle fonti araboislamiche del poema dantesco sembrano ormai superate dagli studi recenti improntati ad una consapevole e scientifica analisi delle fonti dantesche. Tra questi quelli dell'italiana Maria Corti, che sottolinea l'attendibilità delle sorprendenti analogie tra la Divina Commedia e il Libro della Scala. Pur nell'innegabile diversità delle fantastiche rappresentazioni dei due immaginari (quello dantesco graniticamente cristiano e classico), la Corti si sofferma sulla rilevante coincidenza tra narratore e protagonista  tra le due strutture generali del viaggio, iniziato di notte, i comuni elementi dell'ascesa e cioè da un monte ripido e inaccessibile, la separazione dei dannati in varie categorie ( poste tanto più in basso quanto più grave è il peccato), la legge del contrappasso, la visione finale di Dio (e da vivo, condividendo tale tesi con Averroe'). Una conferma, peraltro, si pensa decisiva sulla prova che Dante abbia letto i testi escatologici islamici, compreso lo stesso Liber Scalae o Livre Mahometi, viene dalle ricerche di Luciano Gargan. I domenicani di Bologna possedevano nel 1321 il Libro della Scala e quindi nell'inventario bolognese Dante assai probabilmente attinse l'esistenza del libro, durante i suoi soggiorni in quella città. In proposito si invita a leggere, infine, di Luciano Gargan, recentemente scomparso, "Dante e la sua biblioteca e lo Studio di Bologna", ed. Antenore, Bologna, 2014, che segue la bellissima e fortunata opera di Maria Corti del 1981, "Dante a un nuovo crocevia". Un'ulteriore dimostrazione dell'incontro del Sommo Poeta con l'Averroismo latino, di cui lo stesso Dante fu poi convinto discepoli, se pur già entusiasta ammiratore di Averroe' (Ibn Rushd) nella Divina Commedia. Su queste e non su altre pretestuose e strumentali considerazioni si può avviare un serio dibattito sul rapporto tra Dante e il pensiero islamico.


Il Dom 28 Mar 2021, 12:29 Pierluigi Casalino <pierluigicasalino49@gmail.com> ha scritto:
Il Liber Scalae è opera araba ispirata alla leggenda dell'ascensione (miraj) di Maometto, attraverso le sfere celesti fino al trono divino, e attribuita, secondo la tradizione, allo stesso Profeta dell'Islam. L'ispirazione della storia, da cui si svilupparono molti successivi (tra i quali uno dei più importanti è un poema mistico di Ibn Arabi, morto nel 1240), viene dall'allusione del primo versetto della Sura XVII del Corano. Il testo originale arabo è andato perduto, ma ne resta la traduzione in castigliano, compilata nel 1264 dal medico ebreo Abraham Alfuquim, presso la Corte di Alfonso X il Savio, da cui Bonaventura da Siena trasse due versioni in latino (appunto Liber Scalae) ed una in francese antico ( Livre de l'Eschiele Mahometi). Si discute ancora se Dante abbia potuto conoscere il Libro della Scala, che, secondo l'orientalista spagnolo Miguel Asin Palacios, costituisce una delle principali fonti della Divina Commedia. Dante, tuttavia, ne sentì quasi certamente parlare da Brunetto Latino, suo maestro, il quale fu ambasciatore di Firenze presso Alfonso il Savio e poi esule alla sua Corte. La polemica tra i sostenitori e i negatori delle fonti araboislamiche del poema dantesco sembrano ormai superate dagli studi recenti improntati ad una consapevole e scientifica analisi delle fonti dantesche. Tra questi quelli dell'italiana Maria Corti, che sottolinea l'attendibilità delle sorprendenti analogie tra la Divina Commedia e il Libro della Scala. Pur nell'innegabile diversità delle fantastiche rappresentazioni dei due immaginari (quello dantesco graniticamente cristiano e classico), la Corti si sofferma sulla rilevante coincidenza tra narratore e protagonista  tra le due strutture generali del viaggio, iniziato di notte, i comuni elementi dell'ascesa e cioè da un monte ripido e inaccessibile, la separazione dei dannati in varie categorie ( poste tanto più in basso quanto più grave è il peccato), la legge del contrappasso, la visione finale di Dio (e da vivo, condividendo tale tesi con Averroe'). Una conferma, peraltro, si pensa decisiva sulla prova che Dante abbia letto i testi escatologici islamici, compreso lo stesso Liber Scalae o Livre Mahometi, viene dalle ricerche di Luciano Gargan. I domenicani di Bologna possedevano nel 1321 il Libro della Scala e quindi nell'inventario bolognese Dante assai probabilmente attinse l'esistenza del libro, durante i suoi soggiorni in quella città. In proposito si invita a leggere, infine, di Luciano Gargan, recentemente scomparso, "Dante e la sua biblioteca e lo Studio di Bologna", ed. Antenore, Bologna, 2014, che segue la bellissima e fortunata opera di Maria Corti del 1981, "Dante a un nuovo crocevia". Un'ulteriore dimostrazione dell'incontro del Sommo Poeta con l'Averroismo latino, di cui lo stesso Dante fu poi convinto discepoli, se pur già entusiasta ammiratore di Averroe' (Ibn Rushd) nella Divina Commedia. Su queste e non su altre pretestuose e strumentali considerazioni si può avviare un serio dibattito sul rapporto tra Dante e il pensiero islamico.
Casalino Pierluigi 

Averroes discussion of tyranny and the ideal constitution

Averroes' discussion of tyranny seems to assume not Plato's scheme of transition of democracy to tyranny, but rather Aristotle's view of tyranny as perversion of monarchy. Averroes (Ibn Rushd) seems to have been ignorant of Plato's distinction of two forms of monarchy: royalty and tyranny Averroes' distinction of service between rulers and ruled is significant: the common basis and purpose are maintained. Whereas the tyrant  gives orders and masters slaves, the king guides and leads free citizens. Also, there is and interesting instance of applying Platonic argument to the Islamic State, past and present, in Averroes' view. It appears that the Ideal constitution is identified with the rule of the four Khulafa Rashidun and that with Muawiya the perversion of this Ideal rule set in this quite in keeping with the traditional Muslim interpretation. As far as Averroes (Ibn Rushd) is concerned, it shows clearly that and Platonic observations fully valid as general principles applicable to Islamic civilization. The analogy is not simply an illustration and an approximation but the outcome of the recognition of the Greek political thinking as relevant to Islsmic thought and practice. It refers no doubt to the Almohad State of the Maghreb. From other contemporary references we know that Averroes (Ibn Rushd) looked upon the founders of the Almohade (ed even of the Almoravid) dynasty as very near to the ideal State ( both of Islam, built on the Sharia and Plato).This holds good for initiator of the Almohad movement, Ibn Tumart, and first Almohad ruler, Abd alk Mumin, but just as the early stages of Islam the four Khulafa Rashidun were replaced by Muawiya, so was Abdal al Mumin followed by "timocratic" son and grandson. Averroes (Ibn Rushd) could safely go further in his critique of the State of his patrons Abu Ya qub bin Ysuf bin Yaqubal Mansur.
Casalino Pierluigi 

sabato 27 marzo 2021

Dante e la ragione.

Sembra che Dante abbia continuato a considerare la ragione, rappresentata da Aristotele e, in subordine  da Averroe' (Ibn Rushd), tramite la mediazione di Sigieri di Brabante, una rilevante, se non la più importante, fonte di verità persino in ordine ad argomenti di natura teologica. La citazione che il Poeta fa nel Canto XXVI  46-48, del Paradiso, è coerente con i passi del Convivio che affidano alla ragione il potere di innalzare la mente verso la verità che non è mai pienamente accessibile alla ragione.
Casalino Pierluigi 

Dante e l'escatologica musulmana.

"La escatologica musulmana en la Divina Comedia" di Don Miguel Asin Palacios, pubblicato nel 1919, è il libro che ha dato fuoco alle polveri della polemica sulle possibili influenze del pensiero arabo-islamico su Dante Alighieri e sui suoi contemporanei. Il suo autore, sacerdote cattolico ed arabista spagnolo, paragona sistematicamente la visione dell'aldilà di Dante con altri immaginari ultramondani descritti in opere letterarie, mistiche e religiose arabe. L'ascensione ultraterrena di Dante e Beatrice, attraverso le sfere del Paradiso, e quella di Maometto da Gerusalemme al trono di Dio, preceduta anch'essa da un viaggio notturno lungo le dimore infernali, si rivelano sorprendentemente affini; l'architettura stessa dell'oltretomba dantesco troverebbe, secondo Asin Palacios, un illustre precedente nella tradizione musulmana. Pur suonando quasi sacrilega, la tesi dell'orientalista spagnolo, ha trovato crescente consenso tra gli studiosi. Le considerazioni formulate da Enzo Cerulli e, soprattutto, da Maria Corti e infine anche da Luciano Gargan, per citare solo i dantisti italiani, hanno finito per abbattere il muro di scetticismo, inserendo la questione nell'ampio dibattito che coinvolge la storia delle relazioni tra l'Europa cristiana e l'Islam nel Medioevo e nei secoli successivi. Brunetto Latini, maestro di Dante ed esule in terra spagnola, fu quasi certamente da tramite da quello che si chiama il Liber Scalae e la Divina Commedia nel contesto di un intreccio di scambi culturali e morali tra l'Islam e l'Occidente latino. Un tema dunque che va ulteriormente approfondito nel contesto delle cosiddette fonti orientali di Dante. Un Dante che poggia sicuramente e graniticamente dell'eredità giudaicocristiana e greco romana.
Casalino Pierluigi 

The reception of Ibn Rushd (Averroes) into Dante Alighieri's philosophy.

Halfway through the Middle Ages, with equal gift of literary and philosophical genius, came the Italian philosopher-poet Dante Alighieri. In his Commedia, where Ibn Rushd (Averroes is called the Commentator of Aristotle, of course) par excellence, he is held in high esteem, being placed in a circle reserved for greatest men of Science from the Ancient World. In another of Dante's works, Convivio, where there are prevailing philosophical problems, some topics of clearly Averroist origin can be found. A special attention we must pay to Monarchia, because it can be described as political Averroism, although without the harsh of Marsilius. Besides the philosophical influence we must not forget Dante's political praxis. He agreed Averroes (Ibn Rushd) in his Commentary on the De Anima.
Casalino Pierluigi 

giovedì 25 marzo 2021

Perché si deve ancora studiare Dante


La disistima verso gli studi umanistici nella nostra società si accompagna alla crescita di una mentalità ascientifica in virtù della quale proliferano terrapiattisti, no vax e santoni d’ogni tipo.Italo Calvino in un bel volume intitolato Perché leggere i classici argomentava le sue riflessioni per rispondere a quella domanda. In questa sede rincariamo la dose chiedendoci: Che cosa significa fare ricerca in campo umanistico? Perché studiare Dante a 700 anni dalla sua morte? Studiare dico, e non piuttosto celebrare, come si fa con le cose morte. Per rispondere a questa domanda ci concediamo il lusso di ragionare del trattato di diritto pubblico che Dante scrisse in vista della speranza di pacificazione dell’Italia, afflitta dal mos partium et fationum, allora come oggi: la Monarchia.La Monarchia è l’opera nella quale Dante ha riflettuto con realismo politico circa la sovranità, il popolo e la pace muovendo dall’esperienza concreta dell’Impero romano e della sua esemplarità: nella Roma imperiale la sovranità era ceduta dal popolo all’imperatore in virtù della così detta lex regia (Lex de imperio Vespasiani). Per Dante si trattava di individuare un’unità di comando utile a comporre gli interessi delle parti e garante della pace. Il monarca Di Dante, o principio direttivo, avrebbe avuto la caratteristica di non essere soggetto a cupidigia d’avere e, possedendo già tutto, d’essere potentissimo e perciò capace di realizzare la giustizia.La chiara distinzione tra la sfera spirituale e quella temporale anticipava tempi e dottrine politiche che hanno trionfato in epoche successive. Per Dante il papa doveva esercitare la sua auctoritas nelle questioni spirituali, l’imperatore la sua potestas nelle questioni civili. Le due autorità, civile e spirituale, dovevano inoltre essere limitate l’una dall’altra. Nel paradigma medievale inoltre l’imperatore liberamente si sottomette alla legge pur essendo libero dalla legge.Dal Convivio alla Monarchia alla Commedia Dante ha riflettuto sul giusto giudizio, sul bene comune e sul destino della comunità civile sulle orme di Aristotele e Cicerone dei quali aveva studiato la filosofia politica con Brunetto Latini, suo maestro. L’Etica a Nicomaco e il primo libro del De officiis furono le fondamenta sulle quali egli formò il suo pensiero politico. (In proposito si legga Claudia Di Fonzo, Dante e la tradizione giuridica, Roma, Carocci, 2016).Cosa allora ci allontana e ci avvicina a un classico e cosa ancora può esserci da sapere su un poeta del quale si parla da 700 anni? In che modo giunge a noi un testo e che cosa può cambiare in quel testo nel corso del tempo? Qualcosa può cambiare, soprattutto se di quell’autore non custodiamo alcun autografo. Della Commedia, non possedendo l’autografo, abbiamo una ricostruzione frutto del lavorio di molti studiosi. Neppure della Monarchia possediamo l’autografo. Anzi per quanto concerne questo trattato, la questione è ancora più complessa poiché fu censurato e bruciato in piazza e il suo titolo fu espunto da tutti i manoscritti.A volte tornare a studiare un manoscritto cambia le carte in tavola: è il caso del codice Additional 6891 della British Library di Londra. La disamina attenta di quel manoscritto ha permesso di risolvere una crux del testo del trattato e di retrodatarlo in modo da poterne poi cogliere il significato complessivo con maggiore accuratezza. Nelle mani di Diego Quaglioni, studioso esperto, quel manoscritto si è trasformato in un testimone autorevole. L’Additional 6891 è un manoscritto composito che contiene la Monarchia di Dante (carte 1r-17v) e la Bolla Unigenitus del 18 agosto 1349, con cui Clemente VI ha indetto il Giubileo del 1350 (carte 18r-20v). Due sono le scritture impiegate: il testo del trattato dantesco è in gotica italiana, la bolla in cancelleresca. Il copista del codice Additional ha vergato con cura il suo testo, introducendo due serie di rubricature: una prima serie per indicare la partizione in tre libri e una seconda per indicare la divisione in capitoli. Egli è andato a capo in modo da formare un motivo a forma di scala all’inizio di ogni paragrafo affinché la partizione del testo fosse immediatamente percepibile.
Il giurista Francesco Amadi che ha posseduto quel codice, ha avuto cura di apporre la nota di possesso all’inizio e alla fine del manufatto (alle carte 1r e 20v). Amadi è uno di quegli intellettuali che testimoniano quanto sia feconda, non solo sul piano materiale, l’intersezione tra diritto e letteratura. Giurista di pregio scrisse un dialogo sulla lingua pubblicato a Venezia nel 1821: Della lingua italiana dialogo. Scrisse anche un’opera che affronta il tema della nobiltà della città, nel caso precipuo Bologna, ricompresa nel suo Specchio della Nobiltà d’Europa. L’opera fu pubblicata a Cremona nel 1888 presso Christoforo Draconi. In lui vivissima fu la coscienza della funzione retorica e politica della poesia e «quanta forza habbia a mover gli affetti humani».
Alla British Library di Londra si scopre con sorpresa che si tratta di un «palinsesto».Che cosa è un palinsesto? Si chiama palinsesto un manoscritto le cui carte pergamenacee sono state erase (cancellate) per poterci scrivere sopra nuovamente. Chi ha 
esaminato il codice con l’ausilio della lampada di Wood mi resi conto che a partire dalla carta 21 il codice recava le tracce di una scrittura precedente che era stata abrasa.In poche ore mi resi conto che la scrittura sottostante non era uniforme e che sotto il testo della Monarchia (da carta 1r a carta 11v) s’intravedevano riscritti notarili e documenti di cancelleria. Dalla carta 12v alla carta 20v, la scrittura prior appariva essere verticale rispetto al ductus. Sulla base della scriptura prior si capiva che il codice era composto da due fascicoli: un sesterno e un quaterno. La legatura del codice confermava l’osservazione: il primo fascicolo risultava composto da 6 fogli per un totale di dodici carte (da carta 1r a carta 12), il secondo fascicolo da 4 fogli per un totale di 8 carte (dalla carta 13 r alla 20). I due fascicoli erano tenuti insieme da una carta di guardia.
Palinsesto o meno, l’esame di questo codice ha cambiato le carte in tavola per quel che riguarda la data di composizione della Monarchia poiché l’editore moderno (Diego Quaglioni) ha potuto constatare che l’inciso «sicut in Comediae Paradiso iam dixi» che compariva in Monarchia I, xii, 6,  sulla base del quale molti studiosi avevano datato il trattato posponendolo alla data di scrittura del quinto canto del Paradiso, non compariva nel manoscritto di Londra. In quel punto il testo del manoscritto Additional 891 era corrotto e permetteva di ipotizzare una corruttela nell’antigrafo. Pier Giorgio Ricci, l’editore della Monarchia che aveva ascritto il trattato al 1317, si era basato tanto sull’infittirsi delle diatribe della pubblicistica sulla giurisdizione imperiale all’indomani dell’elezione di Giovanni XXII (7 agosto 1316) quanto sulla presunta auto-citazione del Paradiso («sicut in Paradiso Comediae iam dixi» di Mn I, xii, 6). Diego Quaglioni, portando alla luce la corruttela del testo della Monarchia in quel punto, ha riaperto la questione ascrivendo la Monarchia al 1312 come pure aveva fatto Boccaccio nel suo Trattatello in lode di Dante.Cos’altro può significare tutto questo per il lettore moderno se non che valga ancora la pena studiare i nostri classici? Non solo l’oggetto di studio non è materialmente esaurito. Ma lo spirito dello studioso, la sua attenzione e la sua abitudine alla riflessione razionale e alla osservazione dei fatti sarebbero un valido vaccino contro il virus della mentalità ascientifica e di quell’opinionismo basato su una communis opinio non fondata sulla razionalità ma sui sensi. Contro questa degenerazione del concetto aristotelico già tuonava Dante nel quarto trattato del Convivio.
Casalino Pierluigi 

domenica 21 marzo 2021

Nuove considerazioni su Ventimiglia e la Riviera dall'epoca napoleonica all'unità d'Italia.




 

 Il XIX secolo iniziava con l’occupazione delle Riviere da parte delle truppe Austro-Sarde, che le tenevano libere dagli armati filofrancesi. Ventimiglia entrata pertanto a far parte della ricostituita Contea Sabauda di Nizza, diventava capoluogo cantonale delle Otto Ville, all’interno della Giurisdizione della Roia, inglobata in quella delle Palme, con capoluogo Sanremo. In giugno, tuttavia, con gli esiti della battaglia di Marengo, si ripropose  l’occupazione francese della Repubblica Ligure e cosi' Ventimiglia fece parte del Dipartimento degli Ulivi nella Prefettura di Porto Maurizio.  I rivoluzionari cacciarono molti ordini religiosi, cedendo i loro beni al Comune intemelio. La Diocesi veniva, a sua volta, smembrata, concedendo alla Diocesi di Nizza le parrocchie oltre Ponte San Luigi. A quella di Ventimiglia ne restarono soltanto quindici. La città, con le frazioni, contava tremilaottocento abitanti. La moneta in uso era il Franco francese. L’editto napoleonico di Sait Cloud raccolse poi in un unico corpo le norme disposte per il funzionamento dei cimiteri, stabilendo che venissero collocati fuori delle mura cittadine. Veniva regolamentata la Banca di San Giorgio e venivano soppressi i Magistrati delle Dogane e del Sale.Nel 1805, La Repubblica Ligure entrava a far parte dell’Impero Francese e la Giurisdizione delle Palme era assegnata al Dipartimento delle Alpi Marittime. Per la prima volta, dopo oltre cinque secoli, Ventimiglia non era più una città di confine; mentre i fondi agrari delle istituzioni religiose venivano messi a disposizione delle maestranze agricole. Napoleone decideva intanto la costruzione della “Strada di Cornice” da Nizza a Ventimiglia e insieme alla strada da Ventimiglia e Bordighera, progettava una strada carrozzabile lungo la Valle Roia.  Oltre a reintrodurre il precedente Calendario Gregoriano, la Diocesi ventimigliese era staccata dalla quella metropolitana di Milano e resa suffraganea a quella di Aix in Provenza. Abdicando Napoleone, nel 1814, peraltro, Ventimiglia venne a trovarsi nel ripristinato Regno di Francia, ma meno d’un mese dopo, il 26 aprile, rientrava nuovamente far parte della Repubblica di Genova. Per dare buona prova di sé, la Repubblica genoves avvio' i decisi progetti stradali napoleonici, ma il Congresso di Vienna, il 12 dicembre, annetteva la Liguria al Regno di Sardegna. Ventimiglia entrava quindi nella Divisione di Nizza, Provincia di Oneglia, Mandamento di San Remo, diventando Porto Franco sabaudo. Il 20 novembre, il Principato di Monaco venne passato sotto il protettorato del Regno sardo.Sui successivi sviluppi nel Ponente ligure già mi sono occupato in precedenti occasioni. Ricordo soltanto che la cessione di Nizza alla Francia in seguito agli accordi di Plombierès che precedettero la seconda guerra di indipendenza, comportò cambiamenti ancor più radicali per il Ponente ligure. Questo avvenimento, infatti, per altri versi doloroso, poneva Ventimiglia  - in un primo tempo destinata a diventare definitivamente francese  - nella situazione di città di frontiera del nuovo Regno d’Italia e le apriva prospettive di sviluppo che, fino a quel momento, le erano state precluse soprattutto dal fatto di essere rimasta per lunghi secoli un centro medievale, arroccato su un colle e chiuso fra le montagne e il mare. La condizione di Ventimiglia, ormai parte del Regno d'Italia, era condivisa dall'intera Riviera.
Casalino Pierluigi 

domenica 14 marzo 2021

Lo spirito di Versailles e il mondo di oggi.



All'alba del 1º settembre 1939, l'esercito tedesco aggredì la Polonia. La Francia e la Gran Bretagna dichiararono guerra al III Reich. Erano trascorsi più di vent'anni dalla fine della prima guerra mondiale. I contemporanei considerarono il secondo conflitto mondiale la conseguenza inevitabile del primo. Questa tesi fu sostenuta ancor più dopo il 1945 dagli storici e dagli osservatori di cose internazionali. La responsabilità dei protagonisti di Versailles fu, secondo tale visione, direttamente proporzionale allo scoppio del conflitto del 1939 soprattutto a motivo della pace cartaginese imposta alla Germania sconfitta, evento che portò al potere Hitler e alla sua volontà di vendetta nei confronti dei vincitori della Grande Guerra. Altri studiosi, tuttavia, non mancarono di indicare nell'equilibrismo delle potenze occidentali tra Russia sovietica e Germania nazista un ulteriore elemento di responsabilità storica a riguardo della seconda guerra mondiale. Nel 2019 non pochi analisti hanno voluto, inoltre, indicare nel primo ventennio del Terzo Millennio molte analogie con quel periodo storico. Circostanza, quest'ultima, che ha,  peraltro, coinciso con il manifestarsi della pandemia di Coronavirus, che è apparsa una replica aggravata dell'influenza spagnola che imperverso' dagli ultimi mesi del primo conflitto mondiale al 1920. A rigori, tuttavia, per tornare all'eredità di Versailles, va riconosciuta la buona volontà prevalente di quanti stesero le linee del progetto di ricostruzione del mondo lacerato dalla guerra. Certamente molti dei diritti dei nuovi popoli che sorgevano dalle ceneri degli imperi smembrati non trovarono riconoscimento e la circostanza comportò l'avvio di rivendicazioni non ancora sopite ai giorni  nostri. Ad esse si aggiungono le scelte improvvide che anche dopo la caduta dell'ordine di Yalta hanno visto le democrazie rendere ancor più difficile la ricostruzione di un mondo più giusto e solidale. L'ansia idealistica di Versailles dovette giungere a compromessi che ci sembrano oggi inaccettabili, ma si dimostra, a posteriori, di ben più alto profilo della deriva del sistema internazionale negli anni seguiti alla fine della guerra fredda. Le stesse contestazioni a Versailles fatte proprie dall'avventura fiumana e dalle avveniristiche proposizioni della Carta del Carnaro testimoniano della fede nel riscatto e dell'eguaglianza dei popoli che si affermarono in quel momento e che ancora valgono come un tentativo indimenticabile e lodevole verso un ordine mondiale migliore.
Casalino Pierluigi 

Covid 19 e questione ambientale.


Si ricorderà sopratutto il 2020 come l'anno della pandemia targata covid 19, ma verrà ricordato anche per l'inattesa riduzione dell'emissione di anidride carbonica nell'atmosfera. Con il mondo chiuso in casa per mesi, sono diminuite le emissioni di gas serra, specialmente quelle relative alla mobilità. Nonostante che, tuttavia, si sia registrato un nuovo aumento, alla fine del più generale confinamento, il 2020 si è concluso con una riduzione delle emissioni di ben oltre il 6% rispetto al 2019. Un chiaro segnale di quanto le nostre abitudini siano importanti e tangibili sulla salute del nostro pianeta. Un segnale che, purtroppo, sarà dimenticato quando la pandemia verrà superata definitivamente. Le quote di emissione di CO2 sono, infatti, divenute uno strumento finanziario che rischia di far prevalere la logica del profitto a danno della tutela dell'ambiente. Si impone, a questo punto, una seria necessità di conciliare sviluppo e difesa ambientale. Ed eventualmente correggere le conseguenti storture di un non ben meditato percorso a quel principio di sussidiarietà orizzontale che viene sancito anche dall'articolo 18, ultimo comma della nostra Costituzione. Non esiste, infatti, un vaccino contro l'emergenza ambientale che viene considerata dal 60% degli intervistati, sparsi nel mondo, dall'Ufficio per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, la prima delle preoccupazioni. D'altra parte, molti Paesi cominciano a porre la questione ambientale come aspetto centrale della stessa sicurezza nazionale. La speranza è che un simile nuovo atteggiamento si collochi nel quadro di una ritrovata politica di solidarietà internazionale.
Casalino Pierluigi 

venerdì 12 marzo 2021

Quale Machiavelli ?


Si è parlato spesso di Niccolò Machiavelli come di uno spregiudicato interprete del realismo politico, accostandolo ad autori come l'antico indiano Kautilya. Recenti studi, tuttavia, approfondiscono meglio la lezione del Fiorentino, facendo di lui, o meglio scoprendo in lui, un sostenitore di una ricetta contro la deriva oligarchica della democrazia e soprattutto della democrazia occidentale dei nostri giorni  già alle prese con le insidie dei dispotismo autocratici o ideologici del tempo presente. Machiavelli viene perciò restituito con un appello al risveglio morale ai moderni democratici. Non più dunque un alfiere di un repubblicanesimo neo romano, scettico verso le aspirazioni egualitarie della democrazia ateniese, ma il primo pensatore politico ad aver affermato con chiara convinzione e determinazione che non è dai cittadini comuni che vengono le minacce alla libertà di tutti, ma dai più ricchi. È questo che nel mondo anglosassone viene chiamato democratic turn di Machiavelli. Una visione, questa, che rivoluziona la tradizionale, e un po' troppo convenzionale, immagine del suo pensiero politico. Machiavelli viene così presentato ora come il capofila di una concezione conflittualista che vede nelle lotte sociali e non nella concordia artificiale la vera forza degli stati e nella rendita finanziaria un pericolo degenerativo in vista di un regime demagogico. Il potere del popolo e il controllo delle élites  in Machiavelli rompe anche con la distrazione con la quale gli stessi marxisti avevano guardato al suo pensiero. La sensibilità per le istituzioni che emerge in Machiavelli costituisce probabilmente il momento di maggior rottura del pensiero radicale del XXI secolo rispetto al secolo scorso. Forse qualche lettura estrema di questa interpretazione di Machiavelli può apparire visionaria, ma, a dire il vero, la nuova scuola di studi machiavellici non solo contribuisce ad una migliore comprensione dell'eredità di Machiavelli, ma anche alla elaborazione degli opportuni anticorpi intellettuali contro tutti i nemici del governo "del popolo, dal popolo, per il popolo". La tradizione teorica alternativa e antiaccademica che prende corpo ci trasporta verso una prospettiva fieramente filo popolare. Non pochi autori, infatti, a partire dal Mc Cormick insistono sulla figura dei tribuni della plebe, i quali, grazie al potere di veto, per secoli rappresentarono una spina nel fianco del Senato, offrendo al popolo romano un elemento prezioso per arginare le mire dei patrizi, senza però trovare un equivalente nel moderno costituzionalismo di stampo liberale.
Casalino Pierluigi 

martedì 9 marzo 2021

Roma eterna

Roma eterna! Anche i turchi si definivano romani, perché i rumi erano i cittadini di Roma d'Oriente, e quindi cittadini della Roma eterna e della sua civiltà. Roberto Trizio e Alessandro Barbero superstars, ave atque vale.
Casalino Pierluigi 

lunedì 8 marzo 2021

Riflessioni di Laura Marabello sull'8 marzo

L' 8 marzo non può consistere in una tradizionale celebrazione un po' ripetitiva e sotto molti aspetti retorica della femminilità. Dietro l'offerta di mimose e le stucchevoli galanterie, espressioni di un consumismo privo di  sensibilità, si cela infatti l'incapacità di un  autentico e consapevole omaggio alle virtù delle donne, virtù da non lasciare agli stereotipi di maniera, ma da promuovere con la profondità del cuore. Non a caso Laura Marabello, presidente delle pari opportunità, ricorda il sacrificio di Alessia, una bimba di 11 anni, sottratta dalla violenza alla vita nel 2014. Coloro che si  ricordano delle donne solo in questa data dovrebbero dunque riflettere sulle parole della Marabello, che, anche per esperienza personali, ha conosciuto le sofferenze della vita. Marabello, madre, ricorda agli uomini tutti il valore delle madri, delle figlie, delle sorelle e delle spose, come patrimonio indivisibile dell'umanità. Se le donne, con un antico adagio, sono identificate nell'altra metà del Cielo, è  anche vero che nella visione provvidenziale di Dio si uniscono in piena sintonia la paternità e la maternità. Proprio per rispetto di questa immagine divina, oggi come ogni giorno, sembra dirci la Marabello, donna e uomo devono ritrovare quell'antica armonia che stava alla radice delle generazioni. La donna non è dunque solo un fiore da cogliere, ma un prezioso regalo di Dio alla solitudine dell'uomo. In tutto questo sta il messaggio di Alessia che Laura Marabello desidera lanciare ad un mondo distratto e infelice.
Pierluigi Casalino

giovedì 4 marzo 2021

Dante, 700 anni dopo.


Il recentissimo eBook per i 700 anni di Dante, edito dalla ferrarese Asino Rosso) del geopolitico ligure Pierluigi Casalino, è stato ampiamente segnalato in Liguria (Casalino è di Imperia) oltre che sul Corriere Nazionale e Pensa Libero di Firenze.
Dalle testate liguri:

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Per l'autore "Dante può rappresentare un grande antidoto psicologico e sociale poichè l'allegoria dantesca costituisce un antidoto e una speranza nel momento presente. Il trattato di diritto pubblico che Dante scrisse con la Monarchia, nella speranza di pacificare l'Italia vale ancora nella tormenta che il Bel Paese attraversa. Tale allegoria si distingue per il carattere cosmico della poesia di Dante. E sicuramente per il carattere anticonvenzionale. La stessa distinzione tra la sfera temporale e quella spirituale fanno di Dante anche un profeta laico".

Ma cosa farebbe oggi Dante con i computer? A questa domanda Casalino risponde che "il suo amore per il sapere accoglierebbe con entusiasmo questa innovazione, stiamone certi". 

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Quest'ultimo libro su Dante, anche in chiave futuribile è dedicato al profeta storico dei media,  Marshall McLuhan.

"L'integrazione psichica collettiva, resa possibile finalmente dai media elettronici, potrebbe creare l'universalità della coscienza prevista da Dante quando profetizzò che gli uomini continueranno a essere dei frammenti spezzati finché non si saranno unificati in una coscienza inclusiva. Nel senso cristiano, questo è semplicemente una nuova interpretazione del corpo mistico di Cristo. E Cristo, in fin dei conti, è l'estensione ultima dell'ultima". 

L'autore dichiara che “il Covid-19 si manifesta oggi come un limite a tale atteggiamento irrazionale e faustiano di fede nel futuro, senza valutare i rischi di un progresso squilibrato. Il futuro è aurorale ed oracolare, deve rappresentare sempre un sogno fondato sull'intelligenza e sulla misura della prudenza.” 




https://www.imperianews.it/2021/02/25/leggi-notizia/argomenti/attualita-5/articolo/dante-700-dopo-computer-on-line-per-asino-rosso-il-nuovo-libro-di-pierluigi-casalino.html


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martedì 2 marzo 2021

L'occupazione francese della Liguria di Ponente al tempo di Napoleone Bonaparte



La  Repubblica di  Genova ( e con essa tutta la Liguria) fu tra i primi Paesi a ricevere le notizie della RivoluzioneFrancese.  A  favorire  la  diffusione  delle informazioni contribuivano sia la vicinanza geografica che il continuo muoversi delle persone, specie  nelle  zone   del  Ponente:   naviganti  che  facevano  il  cabotaggio   tra   Liguria  e Provenza o erano in contatto con loro comunità stabilitesi in Francia (tra essi si distinguevano alassini, laiguegliesi, sanremesi, ventimigliesi e  portorini); contadini, artigiani e mercanti che per lavoro si spostavano continuamente da un lato all’altro di una frontiera che – a quei tempi – era molto meno rigida di quanto sarebbe stata nell’Ottocento e nel Novecento. Temevano la Rivoluzione le popolazioni liguri? Forse non tanto, visto che si trattava di gente dura, abituata da tempo ai problemi che potevano venire dal mare (i pirati barbareschi) o dall’entroterra (i piemontesi); e del resto dei grandi temi dibattuti a Parigi ben poco  importava  agli abitanti  dei piccoli  centri della  Riviera. Nel 1792,  però,  la Francia era entrata in guerra – oltreché contro l’Austria e la Prussia – contro il Piemonte, e presto le sue truppe avevano occupato sia la Savoia, sia la contea di Nizza: questa era stata  annessa  alla  Francia  il  31  gennaio  1793,  ed era   subito  divenuta  –  grazie  alla presenza di accesi giacobini quali Cristoforo Saliceti e Augustin Robespierre, fratello del più famoso Maximilien – una centrale di propaganda rivoluzionaria che si indirizzava in primo luogo proprio alla Riviera ligure di Ponente. Frattanto  Genova –  che non  amava  la Francia repubblicana, ma  faceva con essa buoni affari, e che amava ancor meno gli austriaci e i piemontesi, suoi tradizionali nemici – cercava ad ogni costo di mantenersi neutrale nel grande conflitto che si era acceso in Europa;  ma non era certo in grado  di opporsi militarmente  a un’invasione,  anche se sapeva bene che la Riviera di Ponente faceva gola, come punto strategico fondamentale, ad entrambe le parti in guerra. L’iniziativa la presero nell’aprile 1794 i francesi, che – col pretesto di attaccare le enclave piemontesi di  Oneglia e Loano – occuparono tutta la costa da  Ventimiglia a  Savona  e avanzarono nelle principali vallate  (Roia, Argentina, Impero, Arroscia), le quali erano vie d’accesso  al Piemonte ben  più agevoli dei passi alpini. L’esercito era comandato dal vecchio generale Dumerbion, ma sotto di lui c’erano due giovani ufficiali destinati a una brillante carriera (il nizzardo Andrea  Massena e il corso  Napoleone  Bonaparte,  il  quale ultimo  era  l’autore  del  piano  di  guerra),  e gli stavano  accanto  in qualità di  «commissari» o di agenti politici personaggi come il già citato Augustin Robespierre, o Filippo Buonarroti, che per più di quarant’anni sarebbe stato uno dei più famosi rivoluzionari europei. Proprio il Buonarroti si insediò a Oneglia come «commissario nazionale» dei territori occupati; e sotto di lui, per qualche mese, la città  divenne una  vera  e  propria capitale  del  robespierrismo:  vi  fu celebrata  la festa dell’Ente   Supremo,  secondo   la  liturgia   che   Robespierre  voleva  sostituire  a   quella cattolica; vi si  rifugiarono  quasi  tutti  gli  italiani  che  si proclamavano «giacobini»;  vi furono  create scuole  rivoluzionarie  per  conquistare  le masse ai  nuovi  princìpi.  Poi a Parigi il colpo  di Stato  del  9 termidoro  (27 luglio  1794) pose fine  alla dittatura  del Comitato di salute pubblica e ben presto liquidò anche la singolare esperienza di Oneglia. Non si fermò invece la guerra, né l’occupazione francese della Liguria occidentale, a   cui   non   si   opponeva   minimamente  il  debole   governo   genovese,   e   nemmeno  le 
popolazioni,  che  pure per   la  maggior  parte   non  ne  erano  contente  e  –  dopo  aver assaggiato  le  ruberie e  le  prepotenze  delle  truppe  transalpine  –  avevano imparato a diffidare di una propaganda rivoluzionaria che proclamava «guerra ai castelli, pace alle capanne». Nella primavera del 1795 furono invece i «coalizzati», cioè gli austriaci e  i piemontesi, che presero  l’offensiva contro  i francesi e  riuscirono a scacciarli da molte località   del  Ponente   e  delle  Alpi   Marittime.  Ma   nell’autunno   seguente   i  francesi tornarono all’attacco: tra il 23 e il 29 novembre si combatté la grande battaglia di Loano, nella quale  il generale Schérer,  comandante dell’Armée  d’Italie,  sbaragliò  gli  austro-piemontesi e  penetrò  a  fondo  nelle  valli della  Bormida  e  del  Tanaro,  senza  peraltro forzare le  posizioni  nemiche  fino  alla pianura Padana.  Errore  gravissimo,  annotò  nel dicembre di quell’anno Bonaparte: errore che lui non avrebbe commesso l’anno dopo. Nominato  il  2  marzo  1796,  a  neppure   27  anni,  comandante  dell’Armée  d’Italie,   il giovane generale corso tra il 12 e il 21 aprile – pur avendo a disposizione un esercito debole e male equipaggiato – con le battaglie di Montenotte, Millesimo e Dego spezzò il fronte nemico, separò le forze piemontesi da quelle austriache, batté le prime a Mondovì e costrinse il re  di  Sardegna  a chiedere la pace.  Poi incalzò  le truppe  asburgiche,  le sconfisse al ponte di Lodi e il 15 maggio fece il suo ingresso trionfale a Milano.L’epopea napoleonica era cominciata: presto buona parte dell’Italia settentrionale cadde in potere del giovane generale, che cominciò a darle nuove forme politiche con la creazione della Repubblica Cispadana e poi della Cisalpina. E allora si capì che la Riviera di Ponente era stata una sorta di banco di prova dell’amministrazione rivoluzionaria, una scuola sperimentale – come ha scritto Nilo Calvini, il quale alla Liguria rivoluzionaria e napoleonica   ha   dedicato   studi   importanti   –   dove   i   francesi   avevano   imparato   a comandare  e   a  governare  i  popoli  soggetti:  una  lezione  che  ben  presto   avrebbero applicato a mezza Europa.Intanto   la   guerra   si   era   allontanata   dalla  Riviera,   e   pareva   che   la   bufera rivoluzionaria  potesse lasciare indenne  la  vecchia Repubblica di  Genova. Questa  il  9 ottobre  1796  aveva addirittura  stipulato un  trattato  di  alleanza  con  la  Francia, tanto  scandaloso agli occhi delle potenze europee quanto vantaggioso per lei. Ma nel giugno 1797   Bonaparte   l’aveva   costretta   a   «rigenerarsi»,  come   allora   si   diceva,   cioè   a trasformarsi in un  regime democratico – la Repubblica Ligure  – ricalcato sul  modello della costituzione francese del 1795.  Finiva  così  il secolare predominio del patriziato genovese su tutta  la Liguria, i liguri diventavano tutti «cittadini» con  uguali diritti, le Riviere potevano eleggere i loro rappresentanti nel Corpo Legislativo e partecipare alla vita politica dello Stato. Il “mondo nuovo”, il progresso, l’égalité trionfavano anche nelle comunità del Ponente, che anzi si mostravano salde nell’abbracciare i nuovi princìpi: se a Genova, nelle valli del Bisagno e della Polcevera e in molte campagne della Riviera di Levante   si   erano   verificate   dopo   il   cambiamento   di   regime   vaste   insorgenze filoaristocratiche e sanfediste, il Ponente aveva rivelato un «ottimo spirito pubblico» – riferivano i documenti dell’epoca – e un’inaspettata fedeltà al governo democratico, al punto che di lì erano partite offerte spontanee di aiuto al governo stesso.Ben  presto,  tuttavia,  la democrazia  si  era  rivelata  in  larga misura  un inganno. Bonaparte  e  i  generali che  gli  succedettero al comando  dell’Armée  d’Italie  avevano bisogno  di  denaro e  rifornimenti, quindi  non  si  fecero  scrupolo di  escogitare  sempre nuove maniere per taglieggiare la Repubblica Ligure con i prestiti forzosi mai restituiti o le forniture militari non pagate; senza contare le ruberie commesse – con il tacito assenso dei  loro  comandanti  –  dalle  truppe  francesi  che stazionavano  nelle Riviere  o  che  vi transitavano dirette verso la pianura Padana. Mentre la popolazione temeva per i propri beni e per la propria incolumità, il peso fiscale aumentò sensibilmente e ciononostante si aprì una voragine nei conti pubblici: quindi non solo fu impossibile realizzare le molte innovazioni promesse (riforma dell’istruzione e della giustizia, nuovi lavori pubblici, aiuti ai meno abbienti), ma ci fu anche un netto peggioramento rispetto ai tempi del governo aristocratico. Quest’ultimo –  contro il  quale non erano mancati proprio  nel Ponente i “mugugni”, le  opposizioni e  persino  un aperto  episodio  di ribellione  come  quello  di Sanremo a metà del Settecento – aveva certo molti difetti e in particolare non faceva quasi nulla per   promuovere  l’economia  delle  sue  province;  ma  in  compenso  era  un regime  “leggero”,  con  poche  tasse  e  poca burocrazia,  che  lasciava  ampi  margini  di autonomia alle comunità rivierasche. Invece la nuova democrazia si presentava col volto di uno Stato  esigente ed esoso, pur non riuscendo  a combinare nulla di positivo, anzi mostrandosi sempre più succube dei francesi. Di  questa sudditanza  nei confronti  del padrone  straniero erano le popolazioni  a pagare   il  conto:  i   maggiori  carichi  fiscali  affamavano  le  famiglie  e  soffocavano   il commercio, i soldati vivevano a spese del paese. Sul finire del 1798, ad esempio, ben 50.000   coscritti   francesi  attraversarono   la   Riviera   di   Ponente   diretti   a   Novi  e  in Lombardia,  e  toccò  alla  Liguria  mantenerli.  Peggio  ancora  era  accaduto  pochi  mesi prima, quando Bonaparte, preparando la spedizione in Egitto, aveva requisito una gran quantità di bastimenti e di marinai, di cui molti non avrebbero più fatto ritorno. Intanto la guerra sui mari – quella di corsa soprattutto – ostacolava la navigazione di cabotaggio  che  per  gli  abitanti  della  Riviera  era  di  vitale  importanza,  e  cominciava  allora  una stagione difficile per la marineria ligure, soprattutto quella ponentina, che nel giro di una decina d’anni avrebbe subìto colpi durissimi. Gli intralci della guerra, infine, rendevano difficile l’approvvigionamento alimentare  facendo balenare lo spettro della  carestia. «I cinque  sesti  della  popolazione  non  amano  il  sistema  repubblicano  e  maledicono la rivoluzione», confessava l’ambasciatore francese a Genova.Una nuova guerra scoppiata nel marzo 1799 tra  la Francia, l’Austria e la Russia raggiunse ben presto l’Italia: le truppe della République  subirono ripetute sconfitte ad opera   del  maresciallo  russo  Suvorov  e  dovettero  abbandonare  tutta   la  penisola  ad eccezione della Liguria, incalzate dagli eserciti regolari e dalle bande di insorgenti che si rivoltavano  contro   di  loro.  «I  liguri  sono  l’unico  popolo  d’Italia  che  ancora  non  ci assassina», scriveva in quei giorni l’ambasciatore francese, ma avvertiva che quella felice eccezione non poteva durare a lungo. Infatti un’insorgenza scoppiò ai primi del  maggio 1799 anche nella valle di Oneglia, dove gran parte della popolazione era rimasta fedele alla  dinastia  sabauda,   e   ben  presto   tutte   le  campagne  della  Riviera  di  Levante  si rivoltarono sostenendo l’avanzata degli austro-russi, che nel corso dell’anno arrivarono ad occupare buona parte della regione. Poi gli avvenimenti presero un ritmo frenetico. Bonaparte, lasciato l’Egitto, tornò a Parigi e prese il potere con il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799). Genova ebbe anch’essa un “18 brumaio in sedicesimo” che mise fine al  regime rappresentativo, a  partire  dall’aprile 1800 fu stretta  d’assedio per terra dagli austriaci e per mare dagli inglesi – un assedio che costò alla città, fra fame e malattie, quasi 12.500  morti –  e  resistette fino  al 4 giugno. Dieci giorni dopo, però, Bonaparte  batteva  a  Marengo  gli  austriaci del  maresciallo  Melas e  tornava  padrone dell’Italia.3
La Riviera di Ponente – che per qualche mese era vissuta come sospesa in una terra di  nessuno e  soggetta  a scorrerie  di malviventi, vendette  private, rivolte spontanee o repressioni improvvise da parte di qualche contingente francese – tornò sotto  l’autorità di una Repubblica Ligure che nel frattempo aveva perso ogni connotato democratico ed era piombata in una sudditanza ancora più stretta  nei  confronti della Francia. Per due anni, di fatto, a comandare fu non un legittimo governo, bensì l’ambasciatore francese a Genova, alle dirette dipendenze del Primo Console. E per due anni le popolazioni della Riviera seguitarono a sopportare il passaggio delle truppe con tutti i costi e i disagi che ciò comportava, a pagare carissimi i generi di prima necessità, a vedere i bilanci delle loro municipalità e delle loro opere pie sempre più disastrati, a fare i conti con i problemi legati alla guerra marittima che ostacolava i commerci e creava disoccupazione diffusa. Bonaparte, in  un ordine trasmesso al suo ministro della Guerra il 24 settembre 1800, aveva sostenuto: «L’intenzione del  governo non è affatto che si tratti la Liguria come terra  di conquista. Il  popolo ligure  è,  tra tutti  i  popoli  dell’Italia,  quello  che  merita maggiori riguardi e che ha più sofferto». Ma questi buoni propositi non si erano tradotti in fatti concreti, e due mesi dopo la «Gazzetta nazionale della Liguria» – che pure era un giornale ultramoderato – aveva tracciato un quadro quanto mai tragico: «Nella Liguria tutti hanno perduto, tutti sono stati rovinati senza compenso alcuno. La nazion ligure ha fornito 170 bastimenti per la spedizione d’Egitto, che hanno motivato la dichiarazione di guerra  degl’inglesi e  dei coalizzati. Le  sue campagne sono  state  devastate  dal  lungo soggiorno delle truppe. Essa ha esaurito tutte le risorse del governo e dei suoi cittadini per   alimentare  le  armate   francesi.   Un  blocco   stretto   e   non   interrotto  ha  finito  di distruggere  il  suo  commercio.  Tutti  i  suoi  bastimenti  sono  stati incendiati o  predati dagl’inglesi o dai corsari. Una gran parte dei suoi abitanti è perita per l’epidemia e per la fame». Proprio la crisi demografica era il segno più evidente e drammatico: se Genova, specie al tempo dell’assedio, si era paurosamente svuotata di abitanti, anche le Riviere avevano subìto un salasso per l’alta mortalità e l’emigrazione. Non per nulla nel 1802 a un   prete   di  Sanremo  sarebbe  venuto   in  mente  di  chiedere   al   governo   che  fosse «accordata ai religiosi dell’uno e l’altro sesso la facoltà d’unirsi in matrimonio», al fine di ripopolare un territorio sempre più spopolato.Come compenso a tante disgrazie, era certo ben poca cosa la definitiva annessione alla Repubblica Ligure dei territori già sabaudi di Loano e Oneglia, avvenuta nel giugno 1801.   Di  lì  a  poco,   tra   l’altro,  lo  stesso  governo   francese  che  aveva  fatto   questa concessione intavolò una trattativa – condotta da Giuseppe Bonaparte, fratello del Primo Console   –   per   ottenere   da   Genova  una   parte   almeno   della   Riviera  di   Ponente, promettendo in  cambio  altri ingrandimenti territoriali a nord e a  levante. Era il primo segnale manifesto dell’interesse che la Francia napoleonica nutriva per le terre liguri più vicine alla propria frontiera (un interesse che in realtà, come attestano molti documenti, riguardava tutta la costa occidentale fino a Savona), ed è significativo che la diplomazia genovese   ritenesse   la   trattativa   possibile:   quella   porzione   del   suo   «Dominio   di Terraferma»,  come  si  diceva al  tempo del  governo aristocratico,  era  sempre  stata  la meno docile e la più riottosa, oltreché la più difficile da difendere dalle mire dei Savoia. Perché non sbarazzarsene, puntando invece su un allargamento in direzione della pianura Padana, della Lunigiana e della Toscana? Per allora, tuttavia, non se ne fece nulla.Nel febbraio 1801 la Francia aveva concluso la pace di Lunéville con l’Austria, che poco interessava alla Liguria; ma nel marzo 1802 giunse, ben più desiderata, la pace di Amiens  con l’Inghilterra.  Per una  breve stagione  ci  si  poté  illudere che  la  fine delle 4
ostilità  sui mari avrebbe permesso di  ritrovare la relativa prosperità  di  cui  le  Riviere avevano  goduto  negli  ultimi  decenni  dell’antico  regime;  e  che  la  Repubblica Ligure avrebbe potuto darsi un solido assetto costituzionale, moderatamente innovativo rispetto ai tempi dell’aristocrazia,  ma altrettanto  pacifico. Una nuova costituzione in  effetti fu promulgata il 24 giugno 1802: vi erano di nuovo contemplati, per le maggiori cariche di governo,  gli antichi  nomi di  Doge  e  Senato; ma  non era  che  una brutta  copia  della “carta” francese approvata dopo il 18 brumaio, e copriva malamente una realtà in cui a comandare   erano   ancora   i   plenipotenziari   di   Bonaparte,   in   particolare   il   nuovo ambasciatore, l’ex “terrorista” Cristoforo Saliceti. Questi prometteva pace e prosperità, ma intanto le sue istruzioni prevedevano per la Liguria, e in particolare per il Ponente, misure  dolorose.  La  Francia sapeva  di essere  più debole  sul mare  rispetto  ai  propri potenziali nemici, e in particolare agli inglesi; riteneva perciò necessario coinvolgere le Riviere in una politica di rilancio della marina, soprattutto di quella militare, e farne la base per una nuova aggressività navale nel Mediterraneo. A partire dal giugno 1802, tra il governo genovese e quello francese cominciò una trattativa nella quale il primo chiedeva che la Francia proteggesse la navigazione ligure dai corsari e dai barbareschi, divenuti in quegli anni sempre più aggressivi; ma il secondo replicava  che tale protezione  poteva essere concessa solo a  patto  che sulla Riviera si iniziassero a costruire buoni vascelli da guerra e si reclutassero marinai per armarli. La marineria  ponentina,  che nonostante  le  difficoltà  continuava ad  essere  cospicua e  ad alimentare un notevole traffico di cabotaggio, aveva però da tempo trovato metodi più spicci  per   navigare  con  una  relativa  sicurezza   anche  in  tempo   di  guerra.  Le  sue imbarcazioni inalberavano spesso non la bandiera genovese, ma quella di altre nazioni: in passato soprattutto della Francia (molti capitani e patroni di Sanremo, di Porto Maurizio e di Alassio e Laigueglia erano di casa nei porti provenzali, e alcuni avevano finito per risiedervi), ma ora sempre più spesso dell’Inghilterra. La diplomazia transalpina se ne preoccupava: «È indubbio che tra poco quasi tutto il commercio dei liguri si farà sotto bandiera inglese», scriveva   preoccupato   l’ambasciatore   Saliceti.   Da   Parigi   il   ministro   della   Marina sosteneva d’altronde che la Francia non poteva permettersi di favorire e tutelare le navi della  Riviera:  «Se  i  liguri  condividessero  la   sicurezza  di   cui  godono   i  francesi  nel Mediterraneo, i nostri naviganti non riuscirebbero a sostenerne la concorrenza:  le loro navi hanno costi molto più bassi, e ben presto si impadronirebbero di tutto il cabotaggio del  Mediterraneo». Per  battere quei concorrenti,  il ministro con  un cinismo criminale chiedeva ai consoli e agli agenti francesi in Barberia e nel Levante di denunciare presso le autorità locali l’irregolarità delle navi rivierasche con bandiera inglese (in base alle norme internazionali una nave doveva avere il comandante e almeno metà dell’equipaggio della nazionalità   di   cui   batteva   bandiera),   in   modo   che   i   corsari   potessero   predarle impunemente.Frattanto  nel   settembre  1802  era   stata   decisa  l’annessione  del  Piemonte  alla Repubblica Francese, e anche questo evento rappresentò un colpo per i commerci della Riviera di Ponente, perché la Francia s’era affrettata ad elevare tra Liguria e Piemonte una barriera doganale  ben  più  rigida di  quella del Regno  di Sardegna.  A partire dal maggio   1803,   poi,   ripresero   le   ostilità   con   l’Inghilterra.   La   Riviera   non   vi   fu immediatamente   coinvolta,   quasi  che   gli  inglesi  fingessero   di  credere   all’effettiva indipendenza della Repubblica Ligure e ne rispettassero la neutralità: per molti mesi sia le unità della Royal  Navy, sia i corsari britannici evitarono ogni attacco alle imbarcazioni liguri, seguendo una strategia che intendeva ingraziarsi Genova e staccarla dall’alleanza con la Francia. Ma Parigi reagì in modo netto: pretese la chiusura dei porti liguri agli inglesi e alle loro mercanzie, proibì tassativamente l’uso delle bandiere inglesi sulle navi della Riviera, e mirò ad assicurarsi il pieno appoggio genovese nella guerra marittima. La marina britannica rispose bloccando i porti della Liguria e dando la caccia ai suoi navigli: era cominciata «una guerra disastrosa», come la definì un senatore genovese, dalla quale ai popoli della Riviera non potevano che derivare disoccupazione, miseria, morte.La guerra pesava  anche sul bilancio dello Stato per le forti contribuzioni militari che bisognava pagare alla Francia, e quindi richiedevano nuovi cespiti d’entrata. Così nel luglio  1804  il governo  ligure approvò  un’imposta  straordinaria  sull’esportazione  dei prodotti agricoli: in pratica si andava a colpire soprattutto l’olio d’oliva della Riviera di Ponente, l’unica derrata che alimentasse un cospicuo commercio verso un arco di costa esteso  dalla  Provenza  a  San  Pietroburgo.  Il  dazio  di  quattro  lire  genovesi al  barile incideva  pesantemente  sul  prezzo  e  rendeva  più   ardua   la  concorrenza  con  gli  oli forestieri, specie in un momento in cui le difficoltà della navigazione facevano lievitare i costi di trasporto. Il risultato fu una vasta sollevazione che interessò anzitutto la città di Porto Maurizio e parte della sua circoscrizione (che allora si chiamava appunto «degli Ulivi»), nella quale si concentrava sia la migliore produzione olearia della Liguria, sia il più fiorente commercio di esportazione. Presto l’agitazione si estese a Oneglia, a Diano, ad Albenga e in altri comuni, tanto  che già  ai primi d’agosto  il governo temeva «una generale insurrezione  di  quella  Riviera».  La rivolta ebbe naturalmente aspetti  violenti (vennero cacciati gli esattori e i gendarmi, si diede l’assalto al «burò delle gabelle»), ma si distinse nettamente dalle insorgenze sanfediste e antifrancesi scoppiate in tante parti d’Italia  durante   l’età   giacobina  e   napoleonica.   Qui   i  protagonisti   non  furono   gli aristocratici e i preti reazionari, né la «plebaglia» o i «paesani» ignoranti, bensì i proprie-tari, i  mercanti, gli spedizionieri, sostenuti – come recita un documento dell’epoca – da tutti coloro che «ritraevano dal negozio dell’olio la loro sussistenza». Questa leadership borghese conferì alla rivolta, oltre a una certa coerenza e a una discreta organizzazione, una condotta sostanzialmente legalista, che faceva appello all’osservanza rigorosa della costituzione ligure e riconosceva nella Francia non un nemico ma un alleato, tanto è vero che si cercò di spedire una deputazione a Parigi per conferire con Napoleone, da poco divenuto Imperatore, e perorare presso di lui la causa dei Portorini. I moti del 1804 rappresentano dunque un episodio significativo per molti aspetti. In primo luogo  ci  ricordano  che  nella  Riviera  di Ponente, ove  si  eccettui il  caso già ricordato degli Onegliesi fedeli ai Savoia, non ci furono episodi “controrivoluzionari”: qui le popolazioni avevano accettato il nuovo regime, in base al quale – almeno in teoria – tutti i cittadini erano uguali davanti alla legge e non c’era più distinzione tra i privilegi di Genova  (la «Dominante») e la sudditanza del resto  dello Stato  (il  «Dominio»). La rivolta, infatti, era scoppiata nel momento in cui questa uguaglianza si era definitivamen-te rivelata fittizia. Il governo della Repubblica Ligure, che si presentava come il legittimo rappresentante   degli  interessi  di  tutta  la   regione,   in  realtà  li  calpestava:   il  potere dell’antica Dominante – non più temperato da quei patti e da quelle «convenzioni» che in passato  avevano  garantito alle comunità della  Riviera una  notevole autonomia e  una scarsa pressione fiscale – era divenuto ancor meno tollerabile. In secondo luogo risulta chiaro che i capi dei rivoltosi, con quel loro appellarsi a Napoleone, si erano persuasi che da Genova non c’era più da attendersi nulla di buono, che tanto valeva rivolgersi alla Francia,  chiedere  ad  essa  il  rispetto   di  quella legalità  che  il  governo  genovese  non garantiva più, o addirittura (la documentazione dell’epoca rivela che questo auspicio era ben presente) entrare a far parte dell’Impero francese: perché era meglio dipendere da Parigi  direttamente,   che   non  tramite  un  intermediario  meschino  e  malfido,   da   cui venivano   angherie   e   balzelli,   ma   nessuno   dei  vantaggi   –  anzitutto   di   protezione economica e di apertura di mercati – che la Grande Nation pareva in grado di assicurare.Per il momento era un calcolo sbagliato:  la Francia non  rispose all’appello, anzi mise le proprie truppe a disposizione del governo genovese per soffocare la rivolta. Ma quell’episodio indicò chiaramente che una parte della popolazione ligure non riconosceva più  il  legame  politico  con   Genova,  e  che  era  pronta   ad  accettare   senza  rimpianti l’incorporazione  nell’Impero   napoleonico.  D’altronde,  a   che   cosa   si  era   ridotta  la Repubblica Ligure  sullo scorcio del 1804? A  un vero  e proprio Stato  fantoccio, i cui unici  compiti  consistevano  nel  pagare tributi   militari,  mantenere  truppe   straniere,  e peggio ancora procurare navi e marinai alla marina militare della Francia. Ma la marineria ligure, e in particolare quella ponentina, era abituata da sempre a basare il successo dei propri traffici sulla neutralità, sull’inesistenza di ogni apparato militare, sull’impiego delle bandiere-ombra: agli  occhi dei  capitani e  dei patroni di Sanremo  o di Porto  Maurizio nulla appariva tanto insensato quanto una politica di potenza navale, per di più diretta contro un ottimo partner commerciale come l’Inghilterra. Quella politica non la voleva neppure Genova, in parte per gli stessi motivi, in parte perché costruire vascelli da guerra o predisporre batterie costiere comportava enormi spese. Ma Genova doveva in qualche modo accontentare il potente alleato-padrone, e la via più semplice e più economica era quella di accoglierne le richieste circa il reclutamento dei marinai per la flotta da guerra. Dapprima ci si limitò a  far propaganda per un arruolamento spontaneo, che fallì completamente.  La  Francia, allora,  puntò   i  piedi  e  pretese  la leva  forzata  prima  di quattromila,  poi  di  seimila marinai di età  compresa tra  i 20  e i 45  anni, con  almeno quattro  anni di navigazione,  i quali  sarebbero stati al  servizio  e  al soldo  della  marina napoleonica   sino  alla   fine  della   guerra.   Un   vergognoso  mercato   di  uomini  che   –nonostante   le   altrettanto  vergognose  esortazioni  di  alcuni  vescovi  come  quello  di Albenga, i  quali cercavano  di persuadere  i loro  fedeli  a chinare il capo  –  suscitò  la generale reazione delle popolazioni del Ponente: scoppiarono tumulti, bande di giovani si diedero alla macchia su per le montagne, molti uomini (e molte imbarcazioni) scapparono all’estero, andando soprattutto  a servire sui vascelli inglesi o diventando corsari di Sua Maestà britannica.Questo insuccesso, unito al generale sfacelo della Repubblica Ligure, fu determi-nante nel persuadere Napoleone che ormai era inutile mantenerne la fittizia indipendenza. Man  mano  che  si  approfondiva  lo  scontro   con  l’Inghilterra,   diveniva  sempre  più indispensabile il contributo della Liguria al controllo della costa tirrenica e all’incremento della marina da guerra nel Mediterraneo. Se il governo di Genova si sottraeva ai propri doveri nei confronti della Francia, bisognava spazzarlo via e sostituire ad esso l’autorità diretta dell’Impero. In precedenza l’interessamento dell’amministrazione francese aveva riguardato più che altro il Ponente ligure: la Francia occupava da anni il Piemonte e nel 1802  se  l’era  annesso,  era quindi  ovvio  che  ne  ereditasse  un  tradizionale  obiettivo strategico   quale  la  conquista  della  Riviera  da  Savona  a   Ventimiglia,  che  i  Savoia consideravano  da  sempre  il  naturale  sbocco  marittimo  della  regione  subalpina. Nella primavera del 1803 i consoli e viceconsoli francesi di Savona, Porto Maurizio e Sanremo erano stati sollecitati dal loro governo a fornire notizie dettagliate su quei luoghi, e i loro rapporti   avevano   sottolineato   l’opportunità  di  impadronirsi  di  un  territorio   che   si segnalava per la sua ricchezza agricola e commerciale: sul finire del 1803 il viceconsole di Porto Maurizio Vianelli aveva indirizzato a Parigi un rapporto nel quale magnificava le potenzialità economiche di quella parte della Riviera, ne lodava la numerosa popolazione marittima  («esistono  pochi marinai più attivi, vigili e  frugali di quelli della Riviera di Ponente»)  e  concludeva  che  il  paese,  una   volta  dotato   di  quelle  infrastrutture  che l’amministrazione francese non avrebbe mancato di realizzarvi, sarebbe giunto «a un alto grado di prosperità». Due anni dopo, nel maggio 1805, Napoleone decise che tanto valeva incorporare tutto il Genovesato: fece votare da un Senato acquiescente l’annessione e fece organizzare un plebiscito fasullo (come sono, di solito, i plebisciti), che naturalmente ebbe pieno successo. Nel Ponente  in particolare,  dicono  i  resoconti dell’epoca,  «tutte  le autorità costituite, i vescovi, i parroci, gli uomini più influenti e il popolo stesso» si affrettarono a votare   a  favore.   Se  Genova  accettava   l’annessione  obtorto  collo,   i  “ponentini”,  lo abbiamo visto, si erano messi già da tempo su quella strada, e quindi non potevano che approvare  ciò  che  era  nei  loro  desideri,  o  quantomeno  che  era  considerato  il male minore. Ci  furono  addirittura  manifestazioni  di  giubilo  a  Savona  (dove il  popolo  si affrettò a  sventolare  sugli  edifici  il  tricolore  bianco-rosso-blu,  dopo   avere  in  fretta ammainato  il vessillo genovese) e  in altri centri  del Ponente.  Dopo  anni di crisi e  di tensioni, l’ingresso nell’Impero – cioè in una vasta e organizzata compagine statale allora al   culmine  della  potenza   politico-militare   –  pareva   destinato   a   garantire   a   quelle popolazioni   ordine,   stabilità,   buona   amministrazione,   allargamento   dei   mercati,   e soprattutto  un potere imparziale, non “egoistico” quale spesso era stato giudicato quello di Genova.Così   la   Liguria   diventò   francese,   e   come   la   madrepatria   fu   suddivisa   in dipartimenti, denominati  Gênes,  Apennins,  Montenotte.  Quest’ultimo, con  capoluogo Savona, comprendeva la Riviera  di  Ponente da  Arenzano  a Santo  Stefano,  mentre  il territorio dal torrente  Argentina a Ventimiglia venne unito al preesistente dipartimento delle Alpes-Maritimes, che aveva come capoluogo Nizza. A “francesizzare” la regione – prova   evidente   che   Napoleone   le   attribuiva  grande   importanza   –   furono   spediti personaggi di rango: dapprima nientemeno che il ministro dell’Interno, Jean-Baptiste de Champagny,  poi un  funzionario  d’altissimo livello  come l’Architrésorier  de  l’Empire Charles-François Lebrun. La Francia d’altronde, nell’organizzazione del nuovo territorio, aveva una strategia  e non faceva le cose a caso.  Il dipartimento di  Montenotte (il cui nome evocava nell’Imperatore il felice ricordo della sua prima vittoria in Italia), oltre alle terre   ex   genovesi  della  Riviera,   cioè  i  circondari  di  Savona  e  di  Porto  Maurizio, comprendeva quelli piemontesi di Ceva e di Acqui. In tal modo all’area costiera veniva opportunamente  unito  un  ampio  retroterra;   e  veniva  così  conferita  una  compattezza amministrativa a territori tra i quali, da secoli, si erano instaurati fitti rapporti economici, a  dispetto  dell’azione dei  rispettivi governi –  la  Repubblica di  Genova  e  il regno  di Sardegna   –   che   avevano   piuttosto   mirato   a   scoraggiarli:   Genova   cercando   di monopolizzare i rapporti col Piemonte e il Monferrato a danno soprattutto  di Savona, Torino puntando  a  deviare  i traffici dagli scali  ponentini per  indirizzarli sul porto  di Nizza-Villafranca. Le nuove circoscrizioni territoriali  di  Montenotte  e  delle  Alpes-Maritimes, d’al-tronde, erano destinate a un successo duraturo  tra gli abitanti di quei luoghi. Piacquero moltissimo ai  Savonesi, che da sempre  si consideravano oppressi da Genova e  quindi gioivano sia del declassamento di quest’ultima, sia dell’elevazione della propria città a capoluogo di dipartimento. Auspice la presenza a Savona quale prefetto, tra il 1806 e il 1812, di Gilbert Chabrol de Volvic, cioè di uno dei migliori amministratori prodotti dalla Francia napoleonica (e che non a caso assumerà poi la prefettura di Parigi), qui prenderà corpo addirittura una “leggenda aurea” relativa a questo periodo, leggenda che dura a tutt’oggi.  Ma  anche  a  Porto  Maurizio  e  a  Sanremo, elevati  entrambi alla  dignità  di capoluoghi di circondario, gli anni francesi sarebbero stati a lungo ricordati con favore. Più in generale, in tutto  quel territorio si sarebbe radicata un’idea tornata d’attualità in anni  vicini  a   noi,   vale  a  dire  l’opportunità  di  dar   vita   a   una  «regione   delle   Alpi meridionali» comprendente appunto le province di Nizza, Imperia e Savona, nonché il Cuneese e parte del Monferrato: una regione  “transfrontaliera” e “transregionale”, ma assai coerente nei suoi rapporti economici e umani, rapporti che affondano le loro radici in quel periodo lontano, e che hanno tratto alimento da  un perdurante disinteresse del capoluogo  regionale  per  le  terre  del Ponente  ligure.  Si  può  aggiungere  che  proprio nell’età napoleonica venne alla luce una netta divaricazione tra Genova da una parte – i cui interessi guardavano in primo luogo al retroterra lombardo e al grande emporio di Milano,   e   che  quindi  anche   per   questo   motivo   subiva  con   grande   rincrescimento l’annessione alla Francia e quella successiva al regno di Sardegna, con la conseguente separazione da quel retroterra – e dall’altra la Riviera di Ponente che, come s’è detto, accettava   senza   rimpianti  sia  le  decisioni  di  Napoleone,  sia  quelle  successive  del Congresso di Vienna che la legarono in un unico Stato col il Regno Sardo.Ma  queste   erano  cose   del  futuro.  Allora  bisognava  fare  i  conti  con  la  realtà contraddittoria di un Impero che trionfava in tutta Europa (il 1805, anno dell’annessione, vide le strepitose vittorie di Ulm e Austerlitz), ma pagava quei trionfi a caro prezzo: i morti  in  battaglia  e  il  reclutamento  ossessivo  di  sempre nuovi  giovani,  le  ricchezze bruciate nella guerra, la tassazione crescente, i commerci ostacolati, le sconfitte sui mari (del   1805   è   anche   la   battaglia   di   Trafalgar   che   sancì   la   supremazia   marittima dell’Inghilterra). Per le popolazioni del Ponente ligure le contraddizioni divennero presto evidenti nell’accavallarsi di aspetti positivi e negativi. L’importanza strategica dei nuovi territori indusse Parigi a una scelta molto oculata  degli amministratori. Si è già detto della  straordinaria  figura  del  prefetto  Chabrol,  bisogna aggiungere  che  anche  il  suo predecessore Nardon e il suo successore Brignole Sale furono personalità di rilievo. Ma fu   tutto   il  personale  allora   selezionato   che   risultò   di   alto   livello:  per   esempio  il sottoprefetto  di Porto  Maurizio,  Giovanni Monticelli,  e quello  di  Savona,  il  finalese Giorgio Gallesio, uno dei più grandi agronomi del suo tempo;  il segretario di prefettura, il  portorino  Pantaleone  Gandolfi;  i  sindaci (o  maires,  come  allora  si  chiamavano)  di Savona, Luigi Multedo, di Porto Maurizio, Luigi Manuel, di Diano, Nicolò Arduino. E quasi tutti i personaggi di rilievo della zona – fossero intellettuali o operatori economici – vennero allora coinvolti in qualche modo nella gestione della cosa pubblica o nello studio dell’economia locale. Nel contempo fiorirono i progetti più ottimistici. Fin dal 1805 il prefetto Nardon si diceva convinto che nel dipartimento di Montenotte c’erano «i germi di una  grande prosperità»,  purché  si  aprissero  buone comunicazioni tra  la  costa  e il Piemonte,  e  pronosticava:  «Faremo  compiere  grandi  progressi  a  questa  popolazione industriosa, dedita al commercio, che ama molto il denaro e corre qualunque rischio e pericolo sui mali per procurarselo».Il  suo successore  Chabrol abbracciò con decisione quel programma, da  un lato cercando di conciliare al meglio le strategie  complessive dell’Impero con  gli interessi della Riviera, dall’altro promuovendone quella  conoscenza approfondita delle  condizioni.
Casalino Pierluigi