martedì 31 agosto 2021

Garibaldi e la Liguria durante la guerra civile americana.


Ga­ri­bal­di: la guer­ra ci­vi­le ame­ri­ca­na


Garibaldi, poco dopo l’unificazione italiana, viene contattato per un’altra grande impresa. La guerra di secessione era appena scoppiata, Lincoln necessitava di un comandante esperto. La presenza della marina americana nel Mediterraneo risale agli inizi dell’800, quando il fenomeno dei pirati, mai scomparso, era diventato molto grave per i commerci specialmente per quelle imbarcazioni che non avevano l’appoggio di navi militari e quelle statunitensi erano tra queste. Washington decise allora di mettere fine a questa situazione mandando forze marittime nel Mediterraneo.
Ga­ri­bal­di, poco dopo l’u­ni­fi­ca­zio­ne ita­lia­na,qiindi vie­ne con­tat­ta­to per un’al­tra gran­de im­pre­sa. La guer­ra di se­ces­sio­ne era ap­pe­na scop­pia­ta, Lin­coln ne­ces­si­ta­va di un co­man­dan­te esper­to.

La pre­sen­za del­la ma­ri­na ame­ri­ca­na nel Me­di­ter­ra­neo ri­sa­le quindi  agli ini­zi del­l’800, quan­do il fe­no­me­no dei pi­ra­ti, mai scom­par­so, era di­ven­ta­to mol­to gra­ve per i com­mer­ci spe­cial­men­te per quel­le im­bar­ca­zio­ni che non ave­va­no l’ap­pog­gio di navi mi­li­ta­ri e quel­le sta­tu­ni­ten­si era­no tra que­ste.

Wa­shing­ton de­ci­se al­lo­ra di met­te­re fine a que­sta si­tua­zio­ne man­dan­do for­ze ma­rit­ti­me nelle aree dove era­no le basi di que­sti pre­do­ni del mare e fu al­lo­ra che nac­que un cor­po mi­li­ta­re de­sti­na­to a di­ven­ta­re fa­mo­so in tut­to il mon­do: i ma­ri­nes.

L’im­pe­gno ame­ri­ca­no por­tò i suoi frut­ti scon­fig­gen­do i pi­ra­ti, ma per es­se­re si­cu­ri ave­va­no bi­so­gno di una base lo­gi­sti­ca di pron­to im­pie­go da dove po­ter ge­sti­re il con­trol­lo del mar Me­di­ter­ra­neo.

Il luo­go fu tro­va­to in Li­gu­ria nel gol­fo spez­zi­no di Pa­ni­ga­glia, al­lo­ra sot­to il Re­gno sa­bau­do.

Gli ame­ri­ca­ni chie­se­ro in af­fit­to par­te del­la baia che nel dia­let­to di La Spe­zia di­ven­ne:” er cam­po d’i gen­chi”, dove gen­chi sta in ma­nie­ra dia­let­ta­le per yan­kee.

Quel­la che do­ve­va es­se­re una per­ma­nen­za solo di al­cu­ni anni, si tra­sfor­mò, in­ve­ce, in una base lo­gi­sti­ca che ri­ma­se fino al 1861, l’an­no in cui scop­piò la Guer­ra di Se­ces­sio­ne ame­ri­ca­na che vide con­trap­po­sti in ma­nie­ra san­gui­no­sa i nor­di­sti, gli Unio­ni­sti, e i su­di­sti, i Con­fe­de­ra­ti, e non solo in Ame­ri­ca, ma an­che tra i mi­li­ta­ri di stan­za al­l’e­ste­ro il con­fron­to tra i due grup­pi era­no spes­so vio­len­to come fu an­che a La Spe­zia.

Pro­prio il 12 apri­le del 1861, il gior­no del­la pro­cla­ma­zio­ne di guer­ra, tra le ban­chi­ne del por­to spez­zi­no ci fu una zuf­fa sen­za esclu­sio­ne di col­pi con al­cu­ni fe­ri­ti tra unio­ni­sti e con­fe­de­ra­ti. Se non ci scap­pò an­che il mor­to fu solo per l’in­ter­ven­to dei ca­ra­bi­nie­ri che ri­sta­bi­li­ro­no l’or­di­ne non sen­za qual­che dif­fi­col­tà.

Fu pro­prio in quel­le gior­na­te così tu­mul­tuo­se che ar­ri­vò al­l’e­roe dei due mon­di, Giu­sep­pe Ga­ri­bal­di, nel­la sua iso­la di Ca­pre­ra, l’in­vi­to ad ar­ruo­lar­si con gli unio­ni­sti e co­man­da­re par­te del­l’e­ser­ci­to.

 La ri­chie­sta di Lin­coln a Ga­ri­bal­di

Per que­sto pri­mo con­tat­to ven­ne in­ca­ri­ca­to l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no a To­ri­no, P.H. Marsh.

Marsh era a co­no­scen­za del­la si­tua­zio­ne ita­lia­na, sa­pe­va che il ge­ne­ra­le era nel­la sua iso­la a ri­po­so, ma il suo era un ri­po­so for­za­to per­ché dopo l’im­pre­sa dei Mil­le, la sua in­tem­pe­ran­za, spe­cie per la que­stio­ne ro­ma­na, sta­va met­ten­do in se­ria dif­fi­col­tà il Pie­mon­te con le can­cel­le­rie di mez­za Eu­ro­pa, e spe­cial­men­te con l’al­lea­to fran­ce­se, pro­prio nel mo­men­to de­li­ca­to del­la pro­cla­ma­zio­ne del Re­gno d’I­ta­lia.

Dun­que, per il suo bene e quel­lo dei pie­mon­te­si era me­glio che Ga­ri­bal­di fos­se “esi­lia­to” nel­la sua iso­la tan­to da far dire al­l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no in uno spac­cio al suo go­ver­no: “Ora il con­qui­sta­to­re del­le Due Si­ci­lie si è ri­ti­ra­to nel­l’i­so­la di Ca­pre­ra, de­lu­so e im­bron­cia­to, ma non cer­to ras­se­gna­to a ri­ma­ne­re iner­te. Aver­lo quin­di al no­stro fian­co sa­reb­be per noi un gros­so suc­ces­so”. 

Cer­ta­men­te ave­re Ga­ri­bal­di sa­reb­be sta­to un vero suc­ces­so per i nor­di­sti; co­no­sciu­tis­si­mo ol­tre ocea­no e ap­prez­za­to per le sue doti di co­man­dan­te avreb­be cer­to ri­vi­ta­liz­za­to l’u­mo­re dei sol­da­ti nor­di­sti che pro­prio in quei pri­mi mesi di guer­ra non ave­va­no ot­te­nu­ti an­co­ra suc­ces­si sul cam­po, anzi, pur es­sen­do i Con­fe­de­ra­ti male ar­ma­ti e peg­gio equi­pag­gia­ti riu­sci­ro­no a in­flig­ge­re una se­rie di scon­fit­te al­l’e­ser­ci­to del­l’U­nio­ne, me­glio ar­ma­to ed equi­pag­gia­to, ma scar­so di buo­ni uf­fi­cia­li.

Lin­coln stes­so, da poco rie­let­to alla pre­si­den­za, lan­ciò un pub­bli­co ap­pel­lo in­vi­tan­do:” l’E­roe del­la li­ber­tà di pre­sta­re la po­ten­za del suo nome, il suo ge­nio e la sua spa­da alla cau­sa del­la Re­pub­bli­ca stel­la­ta” a di­mo­stra­zio­ne­del­la gran­de po­po­la­ri­tà di Ga­ri­bal­di nel con­ti­nen­te ame­ri­ca­no, dove era an­co­ra viva la me­mo­ria del­le sue bat­ta­glie com­bat­tu­te per anni in Su­da­me­ri­ca per l’in­di­pen­den­za del Rio Gran­de do Sul con­tro il Bra­si­le e del­l’U­ru­guay con­tro l’Ar­gen­ti­na.

Con que­sto espli­ci­to in­vi­to, le au­to­ri­tà nor­di­ste spe­ra­va­no an­che che un gran nu­me­ro di com­bat­ten­ti sa­reb­be­ro af­flui­ti ad raf­for­za­re i loro con­tin­gen­ti.

La que­stio­ne ro­ma­na

Da­van­ti a tut­te que­ste pro­po­ste e pur es­sen­do­ne lu­sin­ga­to, Ga­ri­bal­di non per­se il sen­so del do­ve­re di chie­de­re il per­mes­so al re Vit­to­rio Ema­nue­le II, es­sen­do un suo ge­ne­ra­le, con que­sto te­sto:” Sire, il Pre­si­den­te de­gli Sta­ti Uni­ti mi of­fre il co­man­do di quel­l’e­ser­ci­to ed io mi tro­vo in ob­bli­go di ac­cet­ta­re tale mis­sio­ne per un Pae­se di cui sono cit­ta­di­no. No­no­stan­te ciò, pri­ma di ri­sol­ver­mi, ho cre­du­to mio do­ve­re in­for­ma­re Vo­stra Mae­stà per sa­pe­re se cre­de che io pos­sa ave­re an­co­ra l’o­no­re di ser­vir­la. Ho il pia­ce­re di dir­mi di Vo­stra Mae­stà il de­vo­tis­si­mo ser­vi­to­re. G. Ga­ri­bal­di “.

La ri­spo­sta del re non si fece at­ten­de­re, to­glie­re di mez­zo una te­sta cal­da come Ga­ri­bal­di era una oc­ca­sio­ne da non per­de­re, dun­que, la ri­spo­sta fu af­fer­ma­ti­va per la sua par­ten­za.

Ga­ri­bal­di era fe­li­ce di po­ter con­tri­bui­re a que­sta guer­ra e ave­re la pos­si­bi­li­tà di com­bat­te­re, an­che se da lon­ta­no, l’o­dia­to Pio IX che ave­va be­ne­det­to il Con­fe­de­ra­ti come cat­to­li­ci con­tro i pro­te­stan­ti Unio­ni­sti.

Una guer­ra, quel­la ame­ri­ca­na, che ven­ne sen­ti­ta da mol­ti gio­va­ni eu­ro­pei.

Solo dal­l’I­ta­lia sal­pa­ro­no alla vol­ta di due cam­pi di bat­ta­glia con­trap­po­sti, ben 11­mi­la vo­lon­ta­ri che la­scia­ro­no sul cam­po ol­tre due­mi­la mor­ti.

Il no­stro eroe si pre­pa­ra­va, dun­que, alla par­ten­za, ma non era un in­ge­nuo e dei po­li­ti­ci poco si fi­da­va.

Chie­se del­le ga­ran­zie sul­le qua­li non avreb­be mai trat­ta­to, pri­ma di tut­to l’a­bo­li­zio­ne del­la schia­vi­tù, non solo per un prin­ci­pio uma­ni­ta­rio, ma è bene ri­cor­da­re che uno dei suoi ami­ci più cari, la sua guar­dia del cor­po, era un uomo di co­lo­re, Aguiar, li­be­ra­to con mol­ti al­tri du­ran­te le guer­re su­da­me­ri­ca­ne con­dot­te da Ga­ri­bal­di che lo ave­va vo­lu­to sem­pre con se an­che nel­l’av­ven­tu­ra del­la Re­pub­bli­ca Ro­ma­na dove morì nel 1849 com­bat­ten­do con i di­fen­so­ri del­la cit­tà con­tro i fran­ce­si.

Da ri­cor­da­re in pro­po­si­to che al di là del­le leg­gen­de Hol­ly­woo­dia­ne, la que­stio­ne abo­li­zio­ni­sta fu in­se­ri­ta solo ver­so la fine del­la guer­ra, ma fino ad al­lo­ra an­che per i pro­gres­si­sti unio­ni­sti era con­si­de­ra­ta una ri­sor­sa eco­no­mi­ca da cui non po­ter pre­scin­de­re.

Que­sta ri­chie­sta, in­sie­me alla pre­te­sa di ave­re il co­man­do non di una par­te, ma di tut­te le for­ze nor­di­ste, raf­fred­dò mol­to i rap­por­ti con Wa­shing­ton, tan­to che la ri­chie­sta ven­ne ab­ban­do­na­ta dal­lo stes­so Abra­mo Lin­coln

La se­con­da in­frut­tuo­sa ri­chie­sta

Ga­ri­bal­di for­se non ci ave­va mai cre­du­to di tor­na­re in Ame­ri­ca e pre­se la cosa con mol­ta cal­ma an­che per­ché or­mai po­te­va di nuo­vo pen­sa­re alla con­qui­sta del­lo Sta­to pon­ti­fi­cio e fare di Roma la ca­pi­ta­le del nuo­vo Re­gno ita­lia­no pur crean­do allo stes­so tem­po nuo­ve ap­pren­sio­ni al re sa­bau­do.

La­scia­ta, in­fat­ti, la vita tran­quil­la di Ca­pre­ra, un anno dopo que­sti fat­ti, nel 1862, lo tro­via­mo in Ca­la­bria, nell’Aspro­mon­te, dove si il­lu­de di po­ter ri­sa­li­re lo Sti­va­le e pren­de­re in un col­po Roma, ma vie­ne fer­ma­to pro­prio dai pie­mon­te­si, che non ave­va­no vo­glia in quel mo­men­to di crea­re at­tri­ti con la Fran­cia e in uno scon­tro a fuo­co ven­ne fe­ri­to ad una gam­ba e po­sto agli ar­re­sti pres­so il for­te mi­li­ta­re di Va­ri­gna­no, pro­prio nel gol­fo di La Spe­zia da­van­ti alle basi ame­ri­ca­ne.

Que­sta pre­sen­za del­l’E­roe non sfug­gi al com­mo­do­ro S.H. Strin­gham capo del­la for­za ma­rit­ti­ma ame­ri­ca­na di stan­za nel­la cit­tà li­gu­re.

Su­bi­to ri­fe­rì a Wa­shing­ton la pos­si­bi­li­tà di ri­con­tat­ta­re e ar­ruo­la­re l’E­roe dei due Mon­di tan­to più che Lin­coln si era de­ci­so fi­nal­men­te di ga­ran­ti­re l’a­bo­li­zio­ne del­la schia­vi­tù se l’U­nio­ne aves­se vin­to.

L’in­ca­ri­co di trat­ta­re con Ga­ri­bal­di fu as­se­gna­to que­sta vol­ta al­l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no a Vien­na, Teo­do­ro Ca­ni­sius, che, come ve­dre­mo, per poco con non si rese re­spon­sa­bi­le di una rot­tu­ra di­plo­ma­ti­ca tra la na­scen­te Ita­lia e gli Usa.

L’am­ba­scia­to­re dopo aver­gli in­via­to una let­te­ra nel­la qua­le ar­go­men­ta­va l’im­por­tan­za del­l’in­ca­ri­co e il va­lo­re del­la scel­ta di an­da­re ol­tre ocea­no a com­bat­te­re, Ga­ri­bal­di ri­spo­se: “Si­gno­re, sono pri­gio­nie­ro e gra­ve­men­te fe­ri­to: per con­se­guen­za mi è im­pos­si­bi­le di­spor­re di me stes­so. Cre­do però che se sarò mes­so in li­ber­tà e se le mie fe­ri­te si ri­mar­gi­ne­ran­no, sarà ar­ri­va­ta l’oc­ca­sio­ne fa­vo­re­vo­le in cui po­trò sod­di­sfa­re il mio de­si­de­rio di ser­vi­re la gran­de Re­pub­bli­ca Ame­ri­ca­na, che oggi com­bat­te per la li­ber­tà uni­ver­sa­le”.

Ca­ni­sius si­cu­ro del­la sua ac­cet­ta­zio­ne e vo­len­do­se­ne pren­de­re il me­ri­to ri­por­tò sui gior­na­li la que­stio­ne de­fi­nen­do: “gran­de ope­ra pa­triot­ti­ca la spe­di­zio­ne ga­ri­bal­di­na in Aspro­mon­te che l’e­ser­ci­to ita­lia­no ave­va in­ve­ce re­pres­so nel san­gue”, fa­cen­do pas­sa­re i pie­mon­te­si per dei ti­ran­ni e come ac­cen­na­to, met­ten­do in cri­si le re­la­zio­ni Ita­lia Usa.

L’ul­ti­ma pos­si­bi­li­tà di ave­re Ga­ri­bal­di in Ame­ri­ca era fal­li­ta mi­se­ra­men­te per l’in­ca­pa­ci­tà di Ca­ni­sius il qua­le fu im­me­dia­ta­men­te ri­chia­ma­to in pa­tria e per evi­ta­re al­tri sba­gli di­plo­ma­ti­ci.

Per la se­con­da vol­ta, ma que­sta vol­ta in ma­nie­ra de­fi­ni­ti­va, la ri­chie­sta di com­bat­te­re a fian­co dei nor­di­sti ven­ne de­fi­ni­ti­va­men­te scar­ta­ta da ambo due le par­ti e così la Guer­ra di Se­ces­sio­ne ame­ri­ca­na ebbe un eroe in meno da ri­cor­da­re.

La pre­sen­za del­la ma­ri­na ame­ri­ca­na nel Me­di­ter­ra­neo ri­sa­le agli ini­zi del­l’800, quan­do il fe­no­me­no dei pi­ra­ti, mai scom­par­so, era di­ven­ta­to mol­to gra­ve per i com­mer­ci spe­cial­men­te per quel­le im­bar­ca­zio­ni che non ave­va­no l’ap­pog­gio di navi mi­li­ta­ri e quel­le sta­tu­ni­ten­si era­no tra que­ste.

Wa­shing­ton de­ci­se al­lo­ra di met­te­re fine a que­sta si­tua­zio­ne man­dan­do for­ze ma­rit­ti­me in Ma­roc­co dove era­no le basi di que­sti pre­do­ni del mare e fu al­lo­ra che nac­que un cor­po mi­li­ta­re de­sti­na­to a di­ven­ta­re fa­mo­so in tut­to il mon­do: i ma­ri­nes.

L’im­pe­gno ame­ri­ca­no por­tò i suoi frut­ti scon­fig­gen­do i pi­ra­ti, ma per es­se­re si­cu­ri ave­va­no bi­so­gno di una base lo­gi­sti­ca di pron­to im­pie­go da dove po­ter ge­sti­re il con­trol­lo del mar Me­di­ter­ra­neo.

Il luo­go fu tro­va­to in Li­gu­ria nel gol­fo spez­zi­no di Pa­ni­ga­glia, al­lo­ra sot­to il Re­gno sa­bau­do.

Gli ame­ri­ca­ni chie­se­ro in af­fit­to par­te del­la baia che nel dia­let­to di La Spe­zia di­ven­ne:” er cam­po d’i gen­chi”, dove gen­chi sta in ma­nie­ra dia­let­ta­le per yan­kee.

Quel­la che do­ve­va es­se­re una per­ma­nen­za solo di al­cu­ni anni, si tra­sfor­mò, in­ve­ce, in una base lo­gi­sti­ca che ri­ma­se fino al 1861, l’an­no in cui scop­piò la Guer­ra di Se­ces­sio­ne ame­ri­ca­na che vide con­trap­po­sti in ma­nie­ra san­gui­no­sa i nor­di­sti, gli Unio­ni­sti, e i su­di­sti, i Con­fe­de­ra­ti, e non solo in Ame­ri­ca, ma an­che tra i mi­li­ta­ri di stan­za al­l’e­ste­ro il con­fron­to tra i due grup­pi era­no spes­so vio­len­to come fu an­che a La Spe­zia.

Pro­prio il 12 apri­le del 1861, il gior­no del­la pro­cla­ma­zio­ne di guer­ra, tra le ban­chi­ne del por­to spez­zi­no ci fu una zuf­fa sen­za esclu­sio­ne di col­pi con al­cu­ni fe­ri­ti tra unio­ni­sti e con­fe­de­ra­ti. Se non ci scap­pò an­che il mor­to fu solo per l’in­ter­ven­to dei ca­ra­bi­nie­ri che ri­sta­bi­li­ro­no l’or­di­ne non sen­za qual­che dif­fi­col­tà.

Fu pro­prio in quel­le gior­na­te così tu­mul­tuo­se che ar­ri­vò al­l’e­roe dei due mon­di, Giu­sep­pe Ga­ri­bal­di, nel­la sua iso­la di Ca­pre­ra, l’in­vi­to ad ar­ruo­lar­si con gli unio­ni­sti e co­man­da­re par­te del­l’e­ser­ci­to.

 La ri­chie­sta di Lin­coln a Ga­ri­bal­di

Per que­sto pri­mo con­tat­to ven­ne in­ca­ri­ca­to l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no a To­ri­no, P.H. Marsh.

Marsh era a co­no­scen­za del­la si­tua­zio­ne ita­lia­na, sa­pe­va che il ge­ne­ra­le era nel­la sua iso­la a ri­po­so, ma il suo era un ri­po­so for­za­to per­ché dopo l’im­pre­sa dei Mil­le, la sua in­tem­pe­ran­za, spe­cie per la que­stio­ne ro­ma­na, sta­va met­ten­do in se­ria dif­fi­col­tà il Pie­mon­te con le can­cel­le­rie di mez­za Eu­ro­pa, e spe­cial­men­te con l’al­lea­to fran­ce­se, pro­prio nel mo­men­to de­li­ca­to del­la pro­cla­ma­zio­ne del Re­gno d’I­ta­lia.

Dun­que, per il suo bene e quel­lo dei pie­mon­te­si era me­glio che Ga­ri­bal­di fos­se “esi­lia­to” nel­la sua iso­la tan­to da far dire al­l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no in uno spac­cio al suo go­ver­no: “Ora il con­qui­sta­to­re del­le Due Si­ci­lie si è ri­ti­ra­to nel­l’i­so­la di Ca­pre­ra, de­lu­so e im­bron­cia­to, ma non cer­to ras­se­gna­to a ri­ma­ne­re iner­te. Aver­lo quin­di al no­stro fian­co sa­reb­be per noi un gros­so suc­ces­so”. 

Cer­ta­men­te ave­re Ga­ri­bal­di sa­reb­be sta­to un vero suc­ces­so per i nor­di­sti; co­no­sciu­tis­si­mo ol­tre ocea­no e ap­prez­za­to per le sue doti di co­man­dan­te avreb­be cer­to ri­vi­ta­liz­za­to l’u­mo­re dei sol­da­ti nor­di­sti che pro­prio in quei pri­mi mesi di guer­ra non ave­va­no ot­te­nu­ti an­co­ra suc­ces­si sul cam­po, anzi, pur es­sen­do i Con­fe­de­ra­ti male ar­ma­ti e peg­gio equi­pag­gia­ti riu­sci­ro­no a in­flig­ge­re una se­rie di scon­fit­te al­l’e­ser­ci­to del­l’U­nio­ne, me­glio ar­ma­to ed equi­pag­gia­to, ma scar­so di buo­ni uf­fi­cia­li.

Lin­coln stes­so, da poco rie­let­to alla pre­si­den­za, lan­ciò un pub­bli­co ap­pel­lo in­vi­tan­do:” l’E­roe del­la li­ber­tà di pre­sta­re la po­ten­za del suo nome, il suo ge­nio e la sua spa­da alla cau­sa del­la Re­pub­bli­ca stel­la­ta” a di­mo­stra­zio­ne­del­la gran­de po­po­la­ri­tà di Ga­ri­bal­di nel con­ti­nen­te ame­ri­ca­no, dove era an­co­ra viva la me­mo­ria del­le sue bat­ta­glie com­bat­tu­te per anni in Su­da­me­ri­ca per l’in­di­pen­den­za del Rio Gran­de do Sul con­tro il Bra­si­le e del­l’U­ru­guay con­tro l’Ar­gen­ti­na.

Con que­sto espli­ci­to in­vi­to, le au­to­ri­tà nor­di­ste spe­ra­va­no an­che che un gran nu­me­ro di com­bat­ten­ti sa­reb­be­ro af­flui­ti ad raf­for­za­re i loro con­tin­gen­ti.

La que­stio­ne ro­ma­na

Da­van­ti a tut­te que­ste pro­po­ste e pur es­sen­do­ne lu­sin­ga­to, Ga­ri­bal­di non per­se il sen­so del do­ve­re di chie­de­re il per­mes­so al re Vit­to­rio Ema­nue­le II, es­sen­do un suo ge­ne­ra­le, con que­sto te­sto:” Sire, il Pre­si­den­te de­gli Sta­ti Uni­ti mi of­fre il co­man­do di quel­l’e­ser­ci­to ed io mi tro­vo in ob­bli­go di ac­cet­ta­re tale mis­sio­ne per un Pae­se di cui sono cit­ta­di­no. No­no­stan­te ciò, pri­ma di ri­sol­ver­mi, ho cre­du­to mio do­ve­re in­for­ma­re Vo­stra Mae­stà per sa­pe­re se cre­de che io pos­sa ave­re an­co­ra l’o­no­re di ser­vir­la. Ho il pia­ce­re di dir­mi di Vo­stra Mae­stà il de­vo­tis­si­mo ser­vi­to­re. G. Ga­ri­bal­di “.

La ri­spo­sta del re non si fece at­ten­de­re, to­glie­re di mez­zo una te­sta cal­da come Ga­ri­bal­di era una oc­ca­sio­ne da non per­de­re, dun­que, la ri­spo­sta fu af­fer­ma­ti­va per la sua par­ten­za.

Ga­ri­bal­di era fe­li­ce di po­ter con­tri­bui­re a que­sta guer­ra e ave­re la pos­si­bi­li­tà di com­bat­te­re, an­che se da lon­ta­no, l’o­dia­to Pio IX che ave­va be­ne­det­to il Con­fe­de­ra­ti come cat­to­li­ci con­tro i pro­te­stan­ti Unio­ni­sti.

Una guer­ra, quel­la ame­ri­ca­na, che ven­ne sen­ti­ta da mol­ti gio­va­ni eu­ro­pei.

Solo dal­l’I­ta­lia sal­pa­ro­no alla vol­ta di due cam­pi di bat­ta­glia con­trap­po­sti, ben 11­mi­la vo­lon­ta­ri che la­scia­ro­no sul cam­po ol­tre due­mi­la mor­ti.

Il no­stro eroe si pre­pa­ra­va, dun­que, alla par­ten­za, ma non era un in­ge­nuo e dei po­li­ti­ci poco si fi­da­va.

Chie­se del­le ga­ran­zie sul­le qua­li non avreb­be mai trat­ta­to, pri­ma di tut­to l’a­bo­li­zio­ne del­la schia­vi­tù, non solo per un prin­ci­pio uma­ni­ta­rio, ma è bene ri­cor­da­re che uno dei suoi ami­ci più cari, la sua guar­dia del cor­po, era un uomo di co­lo­re, Aguiar, li­be­ra­to con mol­ti al­tri du­ran­te le guer­re su­da­me­ri­ca­ne con­dot­te da Ga­ri­bal­di che lo ave­va vo­lu­to sem­pre con se an­che nel­l’av­ven­tu­ra del­la Re­pub­bli­ca Ro­ma­na dove morì nel 1849 com­bat­ten­do con i di­fen­so­ri del­la cit­tà con­tro i fran­ce­si.

Da ri­cor­da­re in pro­po­si­to che al di là del­le leg­gen­de Hol­ly­woo­dia­ne, la que­stio­ne abo­li­zio­ni­sta fu in­se­ri­ta solo ver­so la fine del­la guer­ra, ma fino ad al­lo­ra an­che per i pro­gres­si­sti unio­ni­sti era con­si­de­ra­ta una ri­sor­sa eco­no­mi­ca da cui non po­ter pre­scin­de­re.

Que­sta ri­chie­sta, in­sie­me alla pre­te­sa di ave­re il co­man­do non di una par­te, ma di tut­te le for­ze nor­di­ste, raf­fred­dò mol­to i rap­por­ti con Wa­shing­ton, tan­to che la ri­chie­sta ven­ne ab­ban­do­na­ta dal­lo stes­so Abra­mo Lin­coln

La se­con­da in­frut­tuo­sa ri­chie­sta

Ga­ri­bal­di for­se non ci ave­va mai cre­du­to di tor­na­re in Ame­ri­ca e pre­se la cosa con mol­ta cal­ma an­che per­ché or­mai po­te­va di nuo­vo pen­sa­re alla con­qui­sta del­lo Sta­to pon­ti­fi­cio e fare di Roma la ca­pi­ta­le del nuo­vo Re­gno ita­lia­no pur crean­do allo stes­so tem­po nuo­ve ap­pren­sio­ni al re sa­bau­do.

La­scia­ta, in­fat­ti, la vita tran­quil­la di Ca­pre­ra, un anno dopo que­sti fat­ti, nel 1862, lo tro­via­mo in Ca­la­bria, nell’Aspro­mon­te, dove si il­lu­de di po­ter ri­sa­li­re lo Sti­va­le e pren­de­re in un col­po Roma, ma vie­ne fer­ma­to pro­prio dai pie­mon­te­si, che non ave­va­no vo­glia in quel mo­men­to di crea­re at­tri­ti con la Fran­cia e in uno scon­tro a fuo­co ven­ne fe­ri­to ad una gam­ba e po­sto agli ar­re­sti pres­so il for­te mi­li­ta­re di Va­ri­gna­no, pro­prio nel gol­fo di La Spe­zia da­van­ti alle basi ame­ri­ca­ne.

Que­sta pre­sen­za del­l’E­roe non sfug­gi al com­mo­do­ro S.H. Strin­gham capo del­la for­za ma­rit­ti­ma ame­ri­ca­na di stan­za nel­la cit­tà li­gu­re.

Su­bi­to ri­fe­rì a Wa­shing­ton la pos­si­bi­li­tà di ri­con­tat­ta­re e ar­ruo­la­re l’E­roe dei due Mon­di tan­to più che Lin­coln si era de­ci­so fi­nal­men­te di ga­ran­ti­re l’a­bo­li­zio­ne del­la schia­vi­tù se l’U­nio­ne aves­se vin­to.

L’in­ca­ri­co di trat­ta­re con Ga­ri­bal­di fu as­se­gna­to que­sta vol­ta al­l’am­ba­scia­to­re ame­ri­ca­no a Vien­na, Teo­do­ro Ca­ni­sius, che, come ve­dre­mo, per poco con non si rese re­spon­sa­bi­le di una rot­tu­ra di­plo­ma­ti­ca tra la na­scen­te Ita­lia e gli Usa.

L’am­ba­scia­to­re dopo aver­gli in­via­to una let­te­ra nel­la qua­le ar­go­men­ta­va l’im­por­tan­za del­l’in­ca­ri­co e il va­lo­re del­la scel­ta di an­da­re ol­tre ocea­no a com­bat­te­re, Ga­ri­bal­di ri­spo­se: “Si­gno­re, sono pri­gio­nie­ro e gra­ve­men­te fe­ri­to: per con­se­guen­za mi è im­pos­si­bi­le di­spor­re di me stes­so. Cre­do però che se sarò mes­so in li­ber­tà e se le mie fe­ri­te si ri­mar­gi­ne­ran­no, sarà ar­ri­va­ta l’oc­ca­sio­ne fa­vo­re­vo­le in cui po­trò sod­di­sfa­re il mio de­si­de­rio di ser­vi­re la gran­de Re­pub­bli­ca Ame­ri­ca­na, che oggi com­bat­te per la li­ber­tà uni­ver­sa­le”.

Ca­ni­sius si­cu­ro del­la sua ac­cet­ta­zio­ne e vo­len­do­se­ne pren­de­re il me­ri­to ri­por­tò sui gior­na­li la que­stio­ne de­fi­nen­do: “gran­de ope­ra pa­triot­ti­ca la spe­di­zio­ne ga­ri­bal­di­na in Aspro­mon­te che l’e­ser­ci­to ita­lia­no ave­va in­ve­ce re­pres­so nel san­gue”, fa­cen­do pas­sa­re i pie­mon­te­si per dei ti­ran­ni e come ac­cen­na­to, met­ten­do in cri­si le re­la­zio­ni Ita­lia Usa.

L’ul­ti­ma pos­si­bi­li­tà di ave­re Ga­ri­bal­di in Ame­ri­ca era fal­li­ta mi­se­ra­men­te per l’in­ca­pa­ci­tà di Ca­ni­sius il qua­le fu im­me­dia­ta­men­te ri­chia­ma­to in pa­tria e per evi­ta­re al­tri sba­gli di­plo­ma­ti­ci.

Per la se­con­da vol­ta, ma que­sta vol­ta in ma­nie­ra de­fi­ni­ti­va, la ri­chie­sta di com­bat­te­re a fian­co dei nor­di­sti ven­ne de­fi­ni­ti­va­men­te scar­ta­ta da ambo due le par­ti e così la Guer­ra di Se­ces­sio­ne ame­ri­ca­na ebbe un eroe in meno da ri­cor­da­re.
Casalino Pierluigi 









  


lunedì 30 agosto 2021

Il debito tedesco e la seconda guerra mondiale.


In genere si pensa che il crollo di Wall Street nell'ottobre 1929 sia stato alla base della Grande Crisi che porterà al secondo conflitto mondiale. In realtà a spingere il mondo verso la catastrofe fu soprattutto la pace cartaginese imposta alla Germania di Weimar dalla pace di Versailles. L'instabilità causata dall'insolvibilita' tedesca obbligò Berlino a rifondere somme colossali ai vincitori europei della Grande Guerra. La Germania fu schiacciata da vincoli esterni che impedirono una equilibrata rinegoziazione delle condizioni dettate  dai vincitori, rese sempre più pesanti e di fatto inesigibili: una circostanza che occuperà la scena fra il 1924 e il 1933. L'arrivo al potere di Hitler farà il resto. Il disastro economico tedesco provocò una forte reazione emotiva che il nazismo strumentalizzo' fino alle estreme conseguenze. Ciò che seguirà è noto.
Casalino Pierluigi 


Il PCI e gli altri. Una storia italiana. 2




 

 

Antonio Gambino,  nel suo tuttora attuale "Storia del dopoguerra, dalla Liberazione al potere D.C., Laterza, Bari, 1975, pp. 544", prende in esame la fase della storia politica dell’immediato dopoguerra, dall’insediamento del primo governo Bonomi alla vittoria elettorale della D.C. il 18 aprile 1948. Fino ad allora poco di sistematico era stato scritto intorno a questo interessante periodo della vita politica italiana, caratterizzato dalla formazione di governi di unità nazionale. Il libro di Gambino colma efficacemente questa lacuna, senza trascurare, come di solito avviene nella storiografia tradizionale (v. Il volume di E. Piscitelli, Da Parri a De Gasperi, Feltrinelli, 1975), le connessioni fra politica interna e politica estera, che tanta influenza hanno avuto sulle scelte fondamentali dei partiti politici italiani.Il 22 aprile 1944 era stato formato il governo Badoglio, grazie alla decisione di Togliatti di partecipare ad un governo di unità nazionale senza imporre alcuna condizione da parte del P.C.I. Dopo la liberazione di Roma (8 giugno) si pone però il problema di un governo presieduto da un uomo del C.L.N. Le circostanze stesse in cui viene fatta la proposta lasciano chiaramente percepire il grado di tutela a cui erano allora sottoposte le forze politiche antifasciste. «Il Comitato di liberazione nazionale si è dato appuntamento al Grand Hotel dove l’atmosfera è caotica. L’albergo è stato requisito dagli alleati, e gli ufficiali inglesi e americani si muovono rumorosamente dappertutto: i rappresentanti dei partiti antifascisti si possono quindi riunire, senza alcuna formalità, solo in una piccola saletta dell’albergo. Inoltre, la misura della loro limitata autonomia è data dal fatto che il colloquio è aperto dal capo della Commissione alleata di controllo, generale MacFarlane. La decisione raggiunta già da molti mesi dai sei partiti del C.L.N. è quella di chiedere le dimissioni di Badoglio, in modo che il posto del primo ministro venga assunto dal presidente del Comitato stesso, Ivanoe Bonomi. Ma quando ilmaresciallo arriva e, entrato nella sala della riunione avendo al suo fianco Benedetto Croce e Palmiro Togliatti, informa i presenti che il luogotenente lo ha incaricato di formare il nuovo governo, molti temono che i propositi di fermezza espressi in precedenza vengano rapidamente messi da parte» (p. 8). Tuttavia la proposta del C.L.N. venne accettata perché gli americani erano favorevoli ad un governo rinnovato e nonostante la resistenza degli inglesi, che volevano invece garantire la continuità dello Stato in vista del trattato di pace ed erano comunque riusciti a salvare l’istituto monarchico: «…il primo ministro britannico puntava ancora tanto apertamente su Badoglio, da rifiutare, per quasi due settimane, di riconoscere il nuovo governo Bonomi, insistendo addirittura per la sua revoca. Il dato interessante è che, in questa controversia, Churchill ha l’appoggio pieno di Stalin che, mirando chiaramente ad una divisione dell’Europa in sfere di influenza, riconosce esplicitamente in una lettera dell’11 giugno il diritto occidentale di avere la parola finale negli affari interni italiani, e si dichiara in partenza d’accordo su quanto il governo di Londra deciderà di fare» (p. 10.) Il dibattito, consueto nella sinistra italiana, intorno alle possibilità di formare un governo di sinistra o addirittura un governo rivoluzionario all’indomani della Liberazione prescinde pertanto totalmente dai condizionamenti di politica internazionale che pesavano sulle scelte politiche italiane ed escludevano a priori qualsiasi ipotesi non compatibile con l’appartenenza dell’Italia alla sfera di influenza occidentale. «Noi sapevamo benissimo, dice Togliatti — aprendo il 7 aprile 1945 il Consiglio nazionale del partito — che facendo una politica di unità nazionale entravamo in contatto ed anche in collaborazione con elementi che avremmo dovuto combattere…, ma sapevamo anche benissimo che le condizioni del nostro paese, dopo il crollo del fascismo come avvenne il 25 luglio e dopo il crollo di ogni resistenza italiana all’invasore tedesco come si sviluppò l’8 settembre, erano tali nelle regioni già liberate che non esisteva la possibilità pratica di liberarsi da questo contatto. Vi era qualcuno più forte di noi e più forte anche di tutte le forze del blocco democratico che lo impediva» (p. 41). E commentando una testimonianza di Sereni, Gambino aggiunge: «Sereni, dice… in modo sufficientemente esplicito che una parte non trascurabile dei comunisti italiani accetta (nella primavera del ‘45, come d’altra parte già in quella del ‘44) la linea moderata di Togliatti solo perché ritiene che sia appunto una politica del genere che Stalin desidera in quel momento dal P.C.I., allo scopo di mantenere in vita il più a lungo possibile le ‘alleanze di guerra’ e di ridurre al minimo la sospettosità di Washington e Londra, mentre l’U.R.S.S. consolida, con tutti i mezzi a propria disposizione, il proprio controllo sull’Europa orientale. E non si tratta di una intuizione sbagliata, perché certamente gli occidentali, che nella loro avanzata verso oriente erano penetrati, e ancor più avevano la possibilità di penetrare, ben al di là delle linee di demarcazione fissate per i vari eserciti in Germania e in Cecoslovacchia e in Austria, non avrebbero mai rispettato i patti sottoscritti se avessero visto i comunisti italiani violare apertamente, con un’insurrezione rivoluzionaria al di là della Linea gotica, la logica ferrea delle sfere di influenza» (pp. 43-44).Ben descritte e documentate da Gambino sono anche le successive fasi della politica italiana: la formazione e la caduta del governo Parri, l’ascesa di De Gasperi, la scelta decisiva di liberalizzare il commercio estero attuata da Einaudi, la nascita della Repubblica con il Referendum del 2 giugno e la prova di forza con la monarchia, ed infine la scissione socialista quando ormai diventava inevitabile la coincidenza fra forze di governo e lealtà al campo occidentale.Con l’approssimarsi della prima vera prova elettorale, dopo la formazione della Repubblica, De Gasperi mette fine al governo tripartito e le sinistre lanciano la politica del Fronte popolare, accentuando i toni polemici con il governo. La risposta immediata è la formazione di un « blocco anticomunista» e la mobilitazione della Chiesa, che fino ad allora si era tenuta prudentemente ai margini della vita politica. In vista delle elezioni del 18 aprile 1948, vengono formati, su iniziativa del Vaticano, i «Comitati civici» sotto la guida di Luigi Gedda, che già aveva dato ampie prove di capacità organizzative nell’Azione cattolica. «Nel giro di un mese si crea così una ragnatela di Comitati civici regionali e poi zonali, questi ultimi direttamente appoggiati alle 22 mila parrocchie esistenti nella penisola. 'Complessivamente — afferma Gedda — nelle ultime settimane della campagna elettorale il nostro esercito poteva contare su circa 300 mila volontari. La nostra forza, però, non era solo nel numero, ma anche nella possibilità di stabilire con la popolazione un contatto immediato, di poter agire, in qualche modo, dal di dentro della società, e non dal di fuori, come quasi sempre accade alle normali formazioni politiche’» (p. 444). All’intervento del Vaticano si aggiunge quello degli Stati Uniti. Proprio allora era stato varato il Piano Marshall e l’ambasciatore americano in Italia non perde l’occasione per influenzare in senso filoamericano ed anticomunista l’elettorato italiano. «James Dunn intuisce immediatamente l’occasione eccezionalmente favorevole che in questo modo gli si presenta. D’accordo con il governo italiano stabilisce quindi che l’arrivo di ogni centesima nave, che non avverrà mai allo stesso porto, sia accompagnato da una cerimonia celebrativa. Civitavecchia, Bari, Genova, Napoli, ecc. ricevono così a poche settimane l’una dall’altra, la visita dell’ambasciatore americano, le cui parole, ampiamente riportate da tutta la stampa governativa, acquistano, mano a mano che ci si avvicina al 18 aprile, un tono sempre più apertamente politico… Dunn non limita i propri interventi alla cerimonia portuale. La costruzione di ponti, case, ospedali, al cui finanziamento ha contribuito in tutto o in parte denaro pubblico o privato americano, gli fornisce altrettante occasioni percorrere la penisola e incontrare gruppi più o meno grandi di futuri elettori» (pp. 446-7).A queste iniziative americane in Italia si aggiungono pressioni sugli italiani emigrati in America e sui loro parenti rimasti in patria. Ben presto l’operazione assume dimensioni molto ampie e pianificate. «Come tutte le imprese fortunate, anche le ‘lettere agli italiani’ hanno molti padri… Quello che è certo è che dall’inizio del 1948 la campagna per convincere centinaia di migliaia di americani a scrivere ad altrettanti italiani è in pieno sviluppo. L’impostazione originaria, che era quella di approfittare di legami di amicizia o di parentela preesistenti, viene rapidamente abbandonata. Lettere, o anche semplicemente cartoline già scritte, sono messe a disposizione di chiunque le desideri, nelle redazioni di taluni giornali, nelle chiese, nei  nelle botteghe di barbiere» (p. 448).Queste sono le due ragioni della schiacciante vittoria  elettorale della D.C. alle elezioni del 18 aprile e della sua successiva  permanenza al governo. L’interpretazione di Gambino è nel complesso soddisfacente: il solo appunto che gli si può muovere è di aver ignorato gli ideali europeistici e l’attività gravitante in torno al Movimento federalista europeo, in questo primo dopo-guerra. Anche se l’impegno delle forze europeistiche non si era  ancora tradotto in un certo successo, non per questo andava ignorato:  l’Europa era allora solo una speranza; ma una speranza che doveva concretizzarsi in importanti iniziative negli anni successivi. Speranza che tardano peraltro a concretizzarsi  anche nel dopo Yalta.
Casalino Pierluigi 


Il PCI e gli altri. Una storia italiana


Quarantasei anni dopo, ideale continuazione ed integrazione del fortunato libro di Antonio Gambino, se pur dopo gli eventi maturati dopo la fine dell'ordine di Yalta, ecco a noi lo studio interessante di Silvio Pons, pubblicato in occasione del centenario della fondazione del PCI, " I comunisti italiani e gli altri". Si tratta di un notevole contributo storiografico non solo di storia italiana, ma anche soprattutto di quella della Russia sovietica. Già negli Trenta, in pieno stalinismo, Togliatti propugnava quel partito nuovo di cui si parlerà più avanti. Una concezione che mirava alla stabilizzazione del Paese nel dopo guerra. Pons ricorda che nel 1945 l'Italia era sull'orlo di una guerra civile e che Togliatti era contrario a tale sviluppo che si era verificato in Grecia. Anche Stalin era contrario, anche se fino al 18 aprile 1948 si era mostrato incline ad andare oltre gli accordi di Yalta. In Italia molti volevano la rivoluzione subito e Pietro Secchia aveva a disposizione un un'apparato militare clandestino allo scopo preparato. Secchia assicurava l'ambasciatore sovietico di poter controllare la Val Padana in occasione della prevista vittoria elettorale. Una circostanza che andava oltre la via nazionale socialismo. Togliatti dal canto suo non condivideva e neppure in lui c'era doppiezza in tale convinzione. E ciò nonostante che credesse importante validare l'esperienza sovietica, non accettando persino la destalinizzazione di Krushev. Con Stalin Togliatti praticava pero' la dissimulazione, finendo tuttavia di scontrarsi con Stalin, che riteneva imminente una guerra con l'Occidente. Togliatti contava invece sulla distensione per rimanere alla guida del PCI e non recarsi a Mosca per guidare il Cominform durante le ostilità con l'Ovest. La morte di Stalin diede a Togliatti maggior rilevanza presso leadership sovietica, che comunque non ammise mai altre vie nazionali al comunismo. Il policentrismo di Togliatti fu confermato dall'esplodere del dissidio cino sovietico. Su questi e altri temi, Togliatti si intrattiene nel Memoriale di Yalta, il suo testamento politico. Luigi Longo fece pubblicare quel documento che divenne il manifesto dell'autonomia dei comunisti italiani nell'Internazionale comunista. Enrico Berlinguer toccò il compito di andare oltre Togliatti. Pur non rompendo con Mosca, questi persegui' la via nazionale al comunismo. Cioè cambiate decisamente le modalità  ma non gli scopi. Come Togliatti, anche Berlinguer non credeva nel mercato liberale. Quindi Berlinguer portò avanti quella linea, senza ulteriori riflessioni. Ma ormai tutto era passato: sia Berlinguer che il comunismo.
Casalino Pierluigi 


venerdì 27 agosto 2021

Russia.La continuità della politica estera dallo zar al potere sovietico, ad oggi...


La fine della prima guerra mondiale e l'avvio dei negoziati di pace a Parigi riproposero l'interrogativo inquietante per i bolscevichi e già sollevato da Bucharin nel corso della discussione sulla pace  di Brest-Litovsk: che cioè l'ostilità ideologica del mondo capitalistico verso la Russia rivoluzionaria risultasse più forte della crepa che aveva diviso quel mondo, e che ora stava per ricucirsi. Dopo l'annullamento del trattato di Brest-Litovsk,il governo sovietico si era visto infatti escluso dal tavolo delle trattative di Versailles da parte degli Alleati che, aldilà delle divergenze di metodo, si rivelarono unanimi nel ritenere che bisognasse innanzi tutto contenere il pericolo del contagio bolscevico. Il fallimento dei tentativi dei sovietici di prendere contatti con gli Alleati alimentò a dismisura sospetto e ostilità verso l'esterno e rese impraticabile ogni iniziativa della giovane diplomazia sovietica. La propaganda rivoluzionaria non poteva che tornare alla ribalta, ma ben presto la logica della sopravvivenza e del realismo politico avrebbe riportato in auge l'arte della diplomazia classica e costretto il governo rivoluzionario a "confondersi nel labirinto delle sottigliezze diplomatiche" E' quanto parve suggerire lo stesso Cicerin in occasione di un suo celebre intervento dedicato alla Conferenza di Versailles. E certo Cicerin trasportò nel nuovo regime l'eredità della diplomazia zarista, segnando un elemento di continuità tra la Russia prerivoluzionaria e quella successiva che caratterizzerà la politica di potenza dell'Urss. Suggestione della vecchia diplomazia non potevano essere assenti in Cicerin, formato nei ranghi della diplomazia zarista, anche per tradizione famigliare ed accademica. Cicerin fu l'anticipatore di Gromyko, il grande architetto delle relazioni tra est ed ovest dopo il secondo conflitto mondiale fino quasi a ridosso del crollo dell'Urss e dell'ordine di Yalta. Una realtà che tuttora continua.
Casalino Pierluigi 

sabato 21 agosto 2021

Dalla realtà all'immaginario. Il fantasma della Grande Guerra nell'arte.


Mentre si delineava il dramma del primo conflitto mondiale, l'Occidente tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo avvertiva l'urgente esigenza di rompere il legame con la tradizione. Nell'arte, già attratta all'epoca da stimoli di stampo simbolista, l'occasione era propizia per abbandonare le certezze del dato sensibile e sondare le pieghe dell'inconscio: una ricerca intrisa di gioia e dolore, di incubo e di sogno. In quel periodo, infatti, sembrano affollarsi le fantasie di molti artisti determinati ad assimilare completamente e, soprattutto, liberamente le suggestioni e gli stimoli che dominavano l'orizzonte dell'arte di matrice simbolista. Non era meno impellente il bisogno di radicali rotture con una tradizione di cui di erano ormai smarrite le ragioni e il senso e che rivelava apertamente i suoi limiti. Era però l'intera cultura occidentale che, nel suo insieme, era investita e sconquassata da un potente vento di crisi e di cambiamento. Era quella tempesta impigliata nelle ali della modernità, per dirla con Walter Benjamin, che si ispirava nei celebri angeli di Klee. La forza di questa tensione era incontenibile: la letteratura, la musica, e naturalmente le arti figurative si abbeveravano a questa fonte, ciascuna traendo energia e dinamismo nella dimensione nella sua azione. Sullo sfondo si profilava l'immane disastro della prima guerra mondiale. Era come un mostro, un oscuro presagio: un'inevitabile ed oscura apocalisse figlia della morte e generatrice di morte.
Casalino Pierluigi 

domenica 1 agosto 2021

La via della Fede.


Ne "Lettera a un discepolo" al-Ghazali (1058-1111), maestro di mistica islamica, filosofo e teologo, scrive che chi esamina la Torah, i Salmi, il Vangelo e il Corano, e ne metterà in pratica gi insegnamenti, non avrà più bisogno di molta scienza, ma sarà nelle condizioni di vivere saggiamente in vista dellla salvezza della propria anima. In al-Ghazali,commentato magistralmente da padre Giuseppe Celentano, un religioso italiano prematuramente scomparso( in proposito si leggano i miei articoli sul web), si trova lo spirito di quella fede originaria che precede le religioni rivelate e che già Sant'Agostino aveva individuato: noli foras ire, in interiore homine habitat veritas. 
Casalino Pierluigi