martedì 22 giugno 2021

Fedez esempio di stupidità disinformata e in mala fede.

Fedez un idiota! Sta a vedere che adesso ci si deve vergognare di non essere omosessuali! E in più bisogna dirgli che dati alla mano la chiesa italiana è uno dei più importanti contribuenti dello Stato...
Casalino Pierluigi 

sabato 19 giugno 2021

Gramsci fuori dal mito



 
Ho ripreso in mano un vecchio ed interessante volume, pubblicato, in tempi non sospetti, nel 1982, dalle edizioni Armando, “Gramsci fuori dal mito”. L’autrice, Gigliola Asaro Mazzola, resta coraggiosamente fedele (tenuto conto del clima culturale e politico dell’epoca), resta fedele al pensiero di K.Popper, che introduce il suo libro:”Sono sostenitore strenuo dell’audacia intellettuale. Non possiamo essere dei vigliacchi intellettuali e dei ricercatori della verità, al contempo. Vi sono delle mode del pensiero, come ve ne sono nella scienza. Ma un autentico ricercatore di verità non seguirà le mode: diffiderà di esse e le saprà anche combattere, se necessario”. Il volume, infatti, consiste in una diligente e spietata analisi di tutto quello che costituisce nell’opera gramsciana, un giudizio estetico e si propone la valutazione di un autore che, qualunque sia stato il suo impegno umano, coinvolge in questo la letteratura. La Mazzola fa parlare i testi, li racconta, non si sovrappone ad essi e il risultato è terrificante. Alla fine della lettura non ci si può sottrarre ad un amaro senso di disagio, come di persone che troppo a lungo sono state vittime di un raggiro e che, emergendone, non possono non accusarsi di semplicismo. Sarebbe meglio direi di connivenza, di colpevole connivenza, se pur involontaria, con un’operazione culturale di più ampio disegno strategico di manipolazione delle coscienze. Il monumento elevato ad Antonio Gramsci da parte dei suoi postumi seguaci e araldi, se non portatori di borsa, che ha indebitamente coinvolto l’ammirazione grata che si deve alla sua personalità morale - cui, peraltro l’opera della Mazzola resta fedele- nell’esaltazione del giudizio culturale, che va profondamente ridimensionato e spesso sovvertito da parte di tutti coloro che, invece, di riecheggiare slogan dei facili ripetitori di letture non meditate. Senza tener conto dell’avvelenamento della mente di certe letture e/o interpretazioni (di esse), quelle gramsciane, che, oltre deformare le idee, altera anche lo strumento che le porta, cioè la mente: una vocazione totalitaria che viene contrabbandata, ora come allora, come autentica esigenza di libertà. Il tutto, secondo una strategia che predilige il passo della progressiva egemonia di una parte dopo l’altra della società, fino a far prevalere una parte sola su tutte le altre. Ed è fatale che sia così perché come diceva Einstein:”nel campo di coloro che cercano la verità, non c’è alcuna autorità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato, prima o poi, viene travolto dalle risate degli dei”. Occorre intanto sottolinear che Antonio Gramsci non fu mai un critico letterario, in quanto come bene precisa Natalino Sapegno “egli ribadisce più volte una distinzione netta tra la critica letteraria in senso stretto e l’altra, che è un’indagine sociologica, di ideologia e di contenuti, sottesi all’opera d’arte, un’indagine che di per sé di cultura politica; anzi, è un’operazione politica tout court del resto lo stesso Gramsci tiene ad affermare la distinzione ben netta tra l’interesse estetico che si rivolge ai valori estetici e formali di un’opera e l’adesione sentimentale al contenuto. Il brutto è che questa adesione sentimentale riguardò in Gramsci pressoché soltanto l’ideologico in conformità della sua adesione al materialismo storico, sottoscrivendo quindi quello che Marx ed Engels sostengono nel Manifesto del 1848: “L’arte deve essere necessariamente partitica; e non deve possedere una “partiticità” in generale, qualunquistica ed astratta, ma una “partiticità” per la classe che è la portatrice del progresso: il proletariato”. Cosa ne conseguì praticamente in Gramsci da questa totale adesione ai postulati marxiani? E’ facile dedurlo, senza tema di smentite: “Gramsci considerò l’arte e la letteratura non come mezzo di arricchimento delle masse (facendo il verso all’arte socialista e realista della Russia sovietica, improntata alla creazione dell’homo sovieticus), ma, tramite la conquista degli intellettuali ( in tal caso “utili idioti”), che ne sono portatori, come mezzo organizzativo ed aggregativo, come puro strumento ideologico-politico per la conquista e l’egemonia del potere”. Estrapolando dai Quaderni del Carcere e dalle Lettere i giudizi gramsciani è dato mettere insieme una nutrita antologia che evidenzia quanto si è detto in una forma e in una misura fin troppo aggressive: Dante del pensiero politico “è un vinto della guerra delle classi che sogna l’abolizione di questa guerra sotto il segno di un potere arbitrale…egli vuole superare il presente, ma con gli occhi rivolti al passato”. Giudizi simili in chiave politico-ideologica su figure dell’arte, della letteratura e del pensiero, da Petrarca a Rousseau, da Guicciardini a Goldoni, da Alfieri a Manzoni, a Tolstoj, a Mazzini, a Pascoli, a Pirandello, a Cardarelli, a Montale, a Saba, a Ungaretti, a Papini (“boxeur di professione della parola qualsiasi”), a Quasimodo, allo stesso D’Annunzio (“l’ultimo accesso di malattia del popolo italiano”), tendono a reinterpretarne la l’opera e a stroncarla (se non addirittura denigrala) come non in sintonia con i principi del marxismo storico e quindi fuori della storia. Soltanto Carducci viene salvato parzialmente, per una sua certa dose di giacobinismo e per l’anticlericalismo dell’Inno a Satana). Se si va oltre il contesto di tali giudizi indisponenti e indifendibili da parte di molte stesse intelligenze della sua estrazione ideologica, non si può ribadire che nella circostanza si coglie un disegno distruttivo, finalizzato colpire e neutralizzare ogni dissenso o opposizione, in vista del trionfo del materialismo storico. “Che resta a fare ormai? - sembra dire Gramsci - Distruggere ogni forma di civiltà, non aver paura di idoli, di pregiudizi, di mostri sacri…non aver paura della distruzione” . Ispirata a questi principi, quindi, la lotta di classe deve eliminare gli ostacoli posti sul suo cammino. La Mazzola, a questo punto, definisce la pretesa distruttiva di Gramsci come una vera e propria frode nei confronti di quelle masse che egli intende emancipare. La lezione della scrittrice è esemplare e supera gli orizzonti della storia. Il mito gramsciano dell’” intellettuale organico”, attraverso gli opportuni montaggi e le debite prevaricazioni, secondo l’accorta e astuta regia di Palmiro Togliatti, punta a reclutare gli spiriti, a plasmarli e a farli approdare sul terreno dello zdanovismo e convogliarli nell’unico blocco popolare, definito “nuovo principe”. Un mito quello di Gramsci, indivisibile dalle sue premesse ideologiche, dunque, non certamente liberalizzato, crocianizzato, ma in piena aderenza con la strategia di Stalin. Quello Stalin che propugna il “marxismo creatore” con simili accenti: “Esiste un materialismo dogmatico ed un materialismo creatore: io mi pongo sul terreno di quest’ultimo”. Ormai sappiamo, dissipate le nebbie del mito (da cui occorre ormai onestamente  affrancarsi, anche alla luce degli eventi del 1989), quanto fossero puntuali e intuitive le considerazioni della Mazzola. Considerazioni che non posso che condividere ancor oggi, nel sempre utile invito a riflettere sulla portata della trappola in cui Gramsci e i suoi sprovveduti nipotini sono caduti. Una trappola di ottuso conformismo dalla quale, se mai qualcuno vi restasse ancora imprigionato, è ormai tempo di liberarsi con senso critico e rinnovata, lucida consapevolezza. Lo stesso Gramsci appare oggi una vittima per il suo ambiguo orientarsi fra la sua libertà di giudizio e il suo preconcetto anteporre ad essa l’ideologia. Un modo per restituire Antonio Gramsci alla luce della verità.
Casalino Pierluigi 

Quando il Petrarca passò da Porto Maurizio.



La Liguria, ed in particolare la Liguria di Ponente, è sempre stata una terra amata e visitata dai poeti e dagli scrittori. Di lei parlano Dante e Machiavelli, ma anche Caterina de' Medici, in viaggio verso Parigi, per diventare regina di Francia. Anche il Petrarca passò da queste parti, fermandosi, se pur per un breve soggiorno, a Porto Maurizio. Petrarca ricorda, in particolare, le virtù delle donne del luogo. Petrarca fece sosta Porto Maurizio nel 1343, come ricordato anche da una lapide apposta sulla Chiesetta dei Cavalieri di Malta. Di tale circostanza Petrarca parla infatti in una lettera scritta da Napoli al cardinale Giovanni Colonna e datata 29 dicembre 1343. Nella lettera, con uno stile vivacissimo, il poeta narra come, partito da Nizza ("la prima città dell'Italia occidentale", la definì il Poeta)giunse a Monaco, da dove si mosse su una barca a vela per fare scalo a Porto San Maurizio:"che già la notte era avanzata e con un tempo assai minaccioso". Poiché in quell'epoca di paure le porte delle mura di Porto Maurizio si chiudevano al calar del sole, al viaggiatore non fu permesso entrare in paese. Trovò così un alloggio di fortuna nel rifugio per pellegrini gestito dai Cavalieri di Malta (allora ancora  Ospitalieri di San Giovanni) in Borgo Marina. Un'accoglienza piuttosto scomoda perché Petrarca scrive: "e se la fame non era e la stanchezza, non avrei avuto cuore né di cenare né di dormire. Mi sdegnai sempre più ponendo mente alle stravaganze del mare". Fu per questo che egli, il mattino successivo, preferì, come scrive nella lettera, "gli incomodi del cammino su terra alla schiavitù del navigare". Del resto i genovesi, ormai padroni del gioco in Liguria, non avevano grande interesse a dotare, all'epoca,  la zona di infrastrutture adeguate per evidenti ragioni politiche e soprattutto per non compromettere il loro dominio marino. Acquistati alcuni agili e resistenti cavalli di Germania, il Petrarca ripartì con un solo accompagnatoe per Genova via terra dopo aver fatto rimettere in barca i servi e le salmerie. E di Genova magnifichera' lo splendore dei palazzi. Fu lui che per primo chiamerà quella città la Superba.
Casalino Pierluigi 

domenica 6 giugno 2021

Oneglia nella Storia







Per tutto il XIII secolo la storia della Ripa Uneliae coincide con quella del "castrum", nella cui chiesa matrice erano svolte le pratiche più importanti di vita civile e religiosa. La "Riva" venne stabilmente insediata fin dal medioevo ed un nucleo marittimo si sviluppo' alle pendici del Capo Berta (Borgo Peri), dove i Benedettini costruirono la chiesa di San Martino, oggi scomparsa. Il centro fiorì specialmente nella seconda metà del Quattrocento quando vi prese dimora Domenico Doria.La fondazione, nel 1470, del convento e della chiesa degli Agostiniani in località Galita (andati poi distrutti nella prima metà dell'Ottocento) conferma l'idea di un insediamento in fase di crescente sviluppo. La contrastata costruzione del castello (1488), sorto sul lato occidentale dell'abitato e delle mura cittadine, mise il Doria e il "luogo" (come allora si nominavano tutti i centri demici ad eccezione di Genova, unica ad essere definita "città") al centro di contrasti con gli Sforza, in quel tempo signori anche dalla repubblica di Genova. Il castello e le mura furono in parte distrutti, ma, morto del Doria, nel 1505, vennero presto ricostruiti.La chiesa sul cui lato destro sorgeva l'oratorio di S. Maria della Pietà, luogo in cui si riunirono "a parlamento" gli Onegliesi per far giuramento di fedeltà ai Doria, divenne parrocchiale nel 1513 con il trasferimento da Castelvecchio dell'intero capitolo.Nella seconda metà del '500 la famiglia Doria decise, essendo i rapporti con la comunità onegliese assai difficili, di mettere vendita città e distretto.I Savoia che cercavano di dotare il proprio stato di un comodo sbocco sul mare (e non si dimentichi che con minor fortuna svolsero questa pressione sull'agro ventimigliese relativamente alla via del Nervia quanto a quella del Roia ove al loro espansionismo nel XV sec. Ventimiglia -per parte di Genova- aveva opposto i suoi forti e l'importante colonia di Airole) colsero la favorevole occasione e nel 1576 ne divennero proprietari. Tuttavia, a causa dei difficili collegamenti con il Piemonte e per la mancanza di un porto naturale, Oneglia si rivelò poco adatta ad assolvere i compiti assegnati: ed anche per siffatta ragione non venne mai meno la pressione anche diplomatica esercitata dai Savoia sull'area di Ventimiglia, sfruttando la loro importante base di Pigna al capo settentrionale della val Nervia.I Savoia in un primo tempo progettarono la costruzione di una darsena, ma in seguito al potenziamento del porto di Nizza il progetto venne abbandonato.Fu riproposto verso il 1670 dopo l'incerta guerra con Genova del 1625 e quindi poco prima del conflitto del 1672 che comunque avrebbe riproposto sia l'importanza della base militare di Oneglia che la sua difficile posizione strategica.Verso il 1698 si ipotizzò l'edificazione di un molo, ma nulla si concretizzò: soltanto nel 1825 la cittadina, in virtù di un lascito privato, fu in grado di realizzare un molo verso occidente.Nel Sei-Settecento la città conobbe un discreto sviluppo calcolando i tanti assedi che subì. Un cenno particolare meritano gli eventi della Guerra di successione al trono imperiale d'Austria che contrapposero nel Ponente Ligure grandi forze di alleati Franco-Spagnoli contro gli Austro-Piemontesi, essendo ufficialmente neutrale Genova, sul cui terreno pur si combatteva, anche se nascostamente favorevole alla Spagna. Molte spie e osservatori, anche specializzati "cartografi di guerra" spiarono, reciprocamente, il territorio ora dell'una ora dell'altra parte. A proposito di Oneglia è da citare la carta, attribuita fra molti dubbi all'Accinelli e conservata a Bordighera in collezione privata, intitolata Principato di Oneglia Spettante al Re di Sardegna e via che conduce da  Monaco ad Oneglia. Documenti come questo erano utili agli ufficiali di guerra, specie se stranieri e poco pratici dei luoghi come il comandante generale austro-sardo Barone di Leutrum. Nei primi tempi della guerra nel Ponente Ligure le truppe spagnole del generalissimo Las Minas, fra altre conquiste, presero anche Oneglia, ma non riuscirono ad andare oltre questa importante città vista la resistenza dei carabinieri piemontesi ritiratisi con ordine sulle alture e peraltro protetti dal mare dalla flotta dell'Inghilterra, alleata di Austria e Piemonte, che cannoneggiava continuamente le armate fracese e iberica.In seguito, mutate le sorti militari, gli Austro-Sardi ripresero Oneglia, facendo di questa città una formidabile base per una loro inarrestabile avanzata sin ai forti di Ventimiglia dove si stavano ritirando e asserragliando le ancora potenti forze nemiche: ma da quel momento, fino agli eventi della Rivoluzione francese, la città di Oneglia serebbe sempre rimasta nelle salde mani dello Stato Sabaudo che nei suoi riguardi e in quelli dei suoi coraggiosi cittadini dimostrò una cura particolare.
Rilevante, in particolare, fu la ricostruzione nel 1739 della chiesa parrocchiale. Notevole fu anche la contemporanea costruzione, della chiesa e del convento delle Scuole Pie e dell'ospedale (1785) demolito non molto tempo or sono.La questione del porto fu risolta soltanto nel 1886 con il completa- mento di due moli.La città, già sfibrata da varie calamità, patì quindi nel 1887, al pari di Porto Maurizio e di altri centri, il drammatico terremoto che provocò gravi danni al suo tessuto edilizio. Nella ricostruzione furono tracciate nuove strade e piazze, si realizzarono aperti slarghi e tanti edifici: furono applicate quelle scelte che costituiscono tuttora e strutture portanti della città. Opere di notevole interesse storico- artistico sono la chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista e la chiesa dell'Annunziata ex chiesa delle Scuole Pie.La Collegiata fu realizzata su progetto dell'architetto locale Gaetano Amoretti.L'edificio risulta formato da un'ampia sala divisa in tre navate tramite una successione di archi a tutto sesto che poggiano su piedritti quadrangolari con lesene.Tra le navate e il presbiterio, affiancato da due cappelle, si trova uno spazio trasversale sul cui centro gravita una cupola a base circolare. Lungo le pareti longitudinali si aprono, in corrispondenza delle campate, una serie di cappelle dalle superfici curvilinee. La facciata, pur eseguita nel 1832, conserva inalterato lo spirito tardobarocco.La realizzazione della chiesa dell'Annunziata è attribuita a Francesco Maria Marvaldi.E' quasi in antitesi con l'esuberante campanile la rigida facciata rifatta nell'Ottocento. Prima di incontrare il centro demico di Castelvecchio, una deviazione porta a Costa D'Oneglia borgo ad andamento lineare, disposto lungo un percorso di crinale.L'antica  Chiesa Parrocchiale, sita all'inizio del paese, in seguito adibita ad oratorio, possedeva un agile slanciato campani le che presentava forti analogie con quello della parrocchiale di San Giovanni del Groppo a Molini di Prelà. Nel 1778 la Comunità conferì incarico all'architetto Domenico Belmonte di edificare la nuova chiesa al centro del paese in un'area già occupata da un oratorio dal momento che la chiesa esistente necessitava di varie opere di consolidamento.Dal punta di vista dell'edilizia religiosa e della fede cristiana il paese è famoso per il Santuario di Nostra Signora del Carmine. In origine il culto spettava ad un altare della Parrocchiale.In seguito, verso il 1614, fu costruito un Oratorio così intitolato ma di modeste proporzioni. Poi nel 1854 Oneglia e il suo Circondario furono flagellati dal colera  che aveva sostituito la peste bubbonica come male del secolo. La gente della zona fu la sola ad essere preservata dal contagio ed allora si pensò di erigere, a guisa di ringraziamento, un nuovo Santuario -quello che si vede tuttora- e che venne compiuto tra il 1879 ed il 1811: da citare la seicentesca statua della Madonna del Carmine sistemata sull'altare maggiore. Il Castelvecchio  (sede dell'antico castro diruto secondo la tradizione ad opera dei Saraceni nel 992) risultava ubicato in sito favorevole allo sbocco della valle.L'antica Chiesa di  Santa Maria Maggiore, ritta e bianca su un poggio donde si vede per largo spazio, venne rifatta verso il 1680 e attribuita all'architetto Gio Batta Marvaldi. Della chiesa primitiva non rimane altro che qualche traccia muraria nella parte inferiore del campanile (della riedificazione intermedia e medievale rimangono invece il tabernacolo gotico ritenuto della scuola del Gaggini ed ancora la tavola dell'Annunciazione da alcuni studiosi (che però il Meriana studioso di questo Santuario non cita) i quali vorrebbero che fosse opera di Giovanni Mazone (1463-1510).La chiesa originaria  di Castelvecchio, sulla base di minimi dati archeologici e di qualche sondaggio storico necessariamente incuneatosi nei temi dell'agiografia, sarebbe stata eretta almeno in epoca carolingia e pertanto dopo la sconfitta dei Longobardi ad opera di Carlo Magno nell'VIII secolo. Stando a queste valutazioni l'origine della chiesa originaria sarebbe quindi da collegare alla seconda fase dell'apostolato benedettino: quello che, per volontà dello stesso Carlo Magno, avrebbe garantito consistenti compensi ai monasteri pedemontani origine Franca rimastigli fedeli ed in particolare al Cenobio di Novalesa. Secondo la tradizione, ed al cenno sulla distruzione dei Saraceni, poiché non si può sempre disconoscere veridicità alla tradizione specie quando le sue comunicazioni sono razionali e tra loro collegate, v'è da credere che l'erezione dell'edificio religioso risalga ad un'epoca ancora precedente.
Casalino Pierluigi 

giovedì 3 giugno 2021

Democrazia al bivio.


Il razionalismo e l'antitotalitarismo sono antidoti contro i populismi che vengono oggi espressi in forme politiche diverse e persino antitetiche. E tali riferimenti possono risultare validi anche per contrastare le dittature etiche delle minoranze che in tutto il mondo stanno assumendo le sembianze culturali più ambigue e nocive, se non addirittura fanatiche, fondamentalistiche e settarie di tipo politico o/e religioso. Il razionalismo liberale e l'antitotalitarismo appartengono dunque all'esperienza e alla testimonianza storica, ma nel nostro tempo costituiscono, in una fase di squilibri profondi e addirittura di generali impazzimenti, due valori imperituri verso i quali tutti noi possiamo rivolgerci. La difficile stagione che viviamo ci rivela che la componente liberale delle democrazie è in crisi: il potere si sta concentrando sempre più negli esecutivi, e quindi diventando sempre meno democratico e dalla seconda metà del XX secolo proprio la crisi della democrazia tradizionale si è andata manifestando soprattutto con ridefinizione dei legami politici tra governanti e governati. In altri termini si assiste ad una erosione del capitale di fiducia, un fossato tra rappresentati e rappresentanti. L'aspetto più inquietante e preoccupante di questa crisi è che sta venendo meno il patrimonio che la democrazia ha ereditato dal liberalismo perché liberalismo, appunto, democrazia e socialismo sono confluiti in uno stesso alveo, e gli istituti liberali costituiscono la base della democrazia, senza più determinare o specificarne differenze e portata. Muovendo dalla crisi della democrazia rappresentativa e dalle difficoltà della democrazie diretta cerchiamo di spiegarci cosi' come si può superare il sistema della democrazia elettiva e proviamo a comprendere i principi della democrazia aperta e la sua attuabilita' nel mondo globale. Sforzi non semplici questi, ma oggi come oggi piuttosto complicati e resi ardui da una confusione crescente dei valori della democrazia di per sé insidiati dalle seducenti minacce dei moderni dispotismi.
Casalino Pierluigi