venerdì 22 gennaio 2021

La Liguria di Ponente al tempo di Napoleone Bonaparte. Considerazioni sull'occupazione francese della Liguria in occasione del bicentenario della morte del grande Corso.


Tra   i  primi  paesi  in  Europa  che  ebbero   notizie della Rivoluzione  Francese ci  fu  la  Repubblica  di  Genova.  A  favorire  la  diffusione  delle informazioni contribuivano la vicinanza geografica e il continuo andirivieni delle persone, specie  nelle  zone   del  Ponente:   naviganti  che  facevano  il  cabotaggio   tra   Liguria  e Provenza ( tra essi si distinguevano alassini, laiguegliesi, sanremesi, ventimigliesi e  portorini; contadini, artigiani e mercanti che per lavoro si spostavano continuamente da un lato all’altro di una frontiera che – a quei tempi – era molto meno rigida di quanto sarebbe stata nell’Ottocento e nel Novecento. Faceva paura la Rivoluzione alle popolazioni liguri? Forse non tanto, visto che si trattava di gente dura, abituata da tempo ai guai che potevano venire dal mare (i pirati barbareschi) o dall’entroterra (i piemontesi); e visto che dei grandi temi dibattuti a Parigi poco  importava  agli abitanti  delle piccole  comunità  della  Riviera. Nel 1792,  però,  la Francia era entrata in guerra – oltreché contro l’Austria e la Prussia – contro il Piemonte, e presto le sue truppe avevano occupato sia la Savoia, sia la contea di Nizza: questa era stata  annessa  alla  Francia  il  31  gennaio  1793,  ed era   subito  divenuta  –  grazie  alla presenza di accesi giacobini quali Cristoforo Saliceti e Augustin Robespierre, fratello del più famoso Maximilien – una centrale di propaganda rivoluzionaria che si indirizzava in primo luogo proprio alla Riviera ligure.Frattanto  Genova –  che non  amava  la Francia repubblicana ma  faceva con essa buoni affari, e che amava ancor meno gli austriaci e i piemontesi, suoi tradizionali nemici – cercava ad ogni costo di mantenersi neutrale nel grande conflitto che si era acceso in Europa;  ma non era certo in grado  di opporsi militarmente  a un’invasione,  anche se sapeva bene che la Riviera di Ponente faceva gola, come punto strategico fondamentale, ad entrambe le parti in guerra. L’iniziativa la presero nell’aprile 1794 i francesi, che – col pretesto di attaccare le enclave piemontesi di  Oneglia e Loano – occuparono tutta la costa da  Ventimiglia a  Savona  e avanzarono nelle principali vallate  (Roia, Argentina, Impero, Arroscia), le quali erano vie d’accesso  al Piemonte ben  più agevoli dei passi alpini. L’esercito era comandato dal vecchio generale Dumerbion, ma sotto di lui c’erano due giovani ufficiali destinati a una brillante carriera (il nizzardo Andrea  Massena e il corso  Napoleone  Bonaparte,  il  quale ultimo  era  l’autore  del  piano  di  guerra),  e gli stavano  accanto  in qualità di  «commissari» o di agenti politici personaggi come il già citato Augustin Robespierre, o Filippo Buonarroti, che per più di quarant’anni sarebbe stato uno dei più famosi rivoluzionari europei. Proprio il Buonarroti si insediò a Oneglia come «commissario nazionale» dei territori occupati; e sotto di lui, per qualche mese, la città  divenne una  vera  e  propria capitale  del  robespierrismo:  vi  fu celebrata  la festa dell’Ente   Supremo,  secondo   la  liturgia   che   Robespierre  voleva  sostituire  a   quella cattolica; vi si  rifugiarono  quasi  tutti  gli  italiani  che  si proclamavano «giacobini»;  vi furono  create scuole  rivoluzionarie  per  conquistare  le masse ai  nuovi  princìpi.  Poi a Parigi il colpo  di Stato  del  9 termidoro  (27 luglio  1794) pose fine  alla dittatura  del Comitato di salute pubblica e ben presto liquidò anche la singolare esperienza di Oneglia. Non si fermò invece la guerra, né l’occupazione francese della Liguria occidentale, a   cui   non   si   opponeva   minimamente  il  debole   governo   genovese,   e   nemmeno  le 
popolazioni,  che  pure per   la  maggior  parte   non  ne  erano  contente  e  –  dopo  aver assaggiato  le  ruberie e  le  prepotenze  delle  truppe  transalpine  –  avevano imparato a diffidare di una propaganda rivoluzionaria che proclamava «guerra ai castelli, pace alle capanne». Nella primavera del 1795 furono invece i «coalizzati», cioè gli austriaci e  i piemontesi, che presero  l’offensiva contro  i francesi e  riuscirono a scacciarli da molte località   del  Ponente   e  delle  Alpi   Marittime.  Ma   nell’autunno   seguente   i  francesi tornarono all’attacco: tra il 23 e il 29 novembre si combatté la grande battaglia di Loano, nella quale  il generale Schérer,  comandante dell’Armée  d’Italie,  sbaragliò  gli  austro-piemontesi e  penetrò  a  fondo  nelle  valli della  Bormida  e  del  Tanaro,  senza  peraltro forzare le  posizioni  nemiche  fino  alla pianura Padana.  Errore  gravissimo,  annotò  nel dicembre di quell’anno Bonaparte: errore che lui non avrebbe commesso l’anno dopo. Nominato  il  2  marzo  1796,  a  neppure   27  anni,  comandante  dell’Armée  d’Italie,   il giovane generale corso tra il 12 e il 21 aprile – pur avendo a disposizione un esercito debole e male equipaggiato – con le battaglie di Montenotte, Millesimo e Dego spezzò il fronte nemico, separò le forze piemontesi da quelle austriache, batté le prime a Mondovì e costrinse il re  di  Sardegna  a chiedere la pace.  Poi incalzò  le truppe  asburgiche,  le sconfisse al ponte di Lodi e il 15 maggio fece il suo ingresso trionfale a Milano.L’epopea napoleonica era cominciata: presto buona parte dell’Italia settentrionale cadde in potere del giovane generale, che cominciò a darle nuove forme politiche con la creazione della Repubblica Cispadana e poi della Cisalpina. E allora si capì che la Riviera di Ponente era stata una sorta di banco di prova dell’amministrazione rivoluzionaria, una scuola sperimentale – come ha scritto Nilo Calvini, il quale alla Liguria rivoluzionaria e napoleonica   ha   dedicato   studi   importanti   –   dove   i   francesi   avevano   imparato   a comandare  e   a  governare  i  popoli  soggetti:  una  lezione  che  ben  presto   avrebbero applicato a mezza Europa.Intanto   la   guerra   si   era   allontanata   dalla  Riviera,   e   pareva   che   la   bufera rivoluzionaria  potesse lasciare indenne  la  vecchia Repubblica di  Genova. Questa  il  9 ottobre  1796  aveva addirittura  stipulato un  trattato  di  alleanza  con  la  Francia, tanto  scandaloso agli occhi delle potenze europee quanto vantaggioso per lei. Ma nel giugno 1797   Bonaparte   l’aveva   costretta   a   «rigenerarsi»,  come   allora   si   diceva,   cioè   a trasformarsi in un  regime democratico – la Repubblica Ligure  – ricalcato sul  modello della costituzione francese del 1795.  Finiva  così  il secolare predominio del patriziato genovese su tutta  la Liguria, i liguri diventavano tutti «cittadini» con  uguali diritti, le Riviere potevano eleggere i loro rappresentanti nel Corpo Legislativo e partecipare alla vita politica dello Stato. Il “mondo nuovo”, il progresso, l’égalité trionfavano anche nelle comunità del Ponente, che anzi si mostravano salde nell’abbracciare i nuovi princìpi: se a Genova, nelle valli del Bisagno e della Polcevera e in molte campagne della Riviera di Levante   si   erano   verificate   dopo   il   cambiamento   di   regime   vaste   insorgenze filoaristocratiche e sanfediste, il Ponente aveva rivelato un «ottimo spirito pubblico» – riferivano i documenti dell’epoca – e un’inaspettata fedeltà al governo democratico, al punto che di lì erano partite offerte spontanee di aiuto al governo stesso.Ben  presto,  tuttavia,  la democrazia  si  era  rivelata  in  larga misura  un inganno. Bonaparte  e  i  generali che  gli  succedettero al comando  dell’Armée  d’Italie  avevano bisogno  di  denaro e  rifornimenti, quindi  non  si  fecero  scrupolo di  escogitare  sempre nuove maniere per taglieggiare la Repubblica Ligure con i prestiti forzosi mai restituiti o le forniture militari non pagate; senza contare le ruberie commesse – con il tacito assenso dei  loro  comandanti  –  dalle  truppe  francesi  che stazionavano  nelle Riviere  o  che  vi transitavano dirette verso la pianura Padana. Mentre la popolazione temeva per i propri beni e per la propria incolumità, il peso fiscale aumentò sensibilmente e ciononostante si aprì una voragine nei conti pubblici: quindi non solo fu impossibile realizzare le molte innovazioni promesse (riforma dell’istruzione e della giustizia, nuovi lavori pubblici, aiuti ai meno abbienti), ma ci fu anche un netto peggioramento rispetto ai tempi del governo aristocratico. Quest’ultimo –  contro il  quale non erano mancati proprio  nel Ponente i “mugugni”, le  opposizioni e  persino  un aperto  episodio  di ribellione  come  quello  di Sanremo a metà del Settecento – aveva certo molti difetti e in particolare non faceva quasi nulla per   promuovere  l’economia  delle  sue  province;  ma  in  compenso  era  un regime  “leggero”,  con  poche  tasse  e  poca burocrazia,  che  lasciava  ampi  margini  di autonomia alle comunità rivierasche. Invece la nuova democrazia si presentava col volto di uno Stato  esigente ed esoso, pur non riuscendo  a combinare nulla di positivo, anzi mostrandosi sempre più succube dei francesi. Di  questa sudditanza  nei confronti  del padrone  straniero erano le popolazioni  a pagare   il  conto:  i   maggiori  carichi  fiscali  affamavano  le  famiglie  e  soffocavano   il commercio, i soldati vivevano a spese del paese. Sul finire del 1798, ad esempio, ben 50.000   coscritti   francesi  attraversarono   la   Riviera   di   Ponente   diretti   a   Novi  e  in Lombardia,  e  toccò  alla  Liguria  mantenerli.  Peggio  ancora  era  accaduto  pochi  mesi prima, quando Bonaparte, preparando la spedizione in Egitto, aveva requisito una gran quantità di bastimenti e di marinai, di cui molti non avrebbero più fatto ritorno. Intanto la guerra sui mari – quella di corsa soprattutto – ostacolava la navigazione di cabotaggio  che  per  gli  abitanti  della  Riviera  era  di  vitale  importanza,  e  cominciava  allora  una stagione difficile per la marineria ligure, soprattutto quella ponentina, che nel giro di una decina d’anni avrebbe subìto colpi durissimi. Gli intralci della guerra, infine, rendevano difficile l’approvvigionamento alimentare  facendo balenare lo spettro della  carestia. «I cinque  sesti  della  popolazione  non  amano  il  sistema  repubblicano  e  maledicono la rivoluzione», confessava l’ambasciatore francese a Genova.Una nuova guerra scoppiata nel marzo 1799 tra  la Francia, l’Austria e la Russia raggiunse ben presto l’Italia: le truppe della République  subirono ripetute sconfitte ad opera   del  maresciallo  russo  Suvorov  e  dovettero  abbandonare  tutta   la  penisola  ad eccezione della Liguria, incalzate dagli eserciti regolari e dalle bande di insorgenti che si rivoltavano  contro   di  loro.  «I  liguri  sono  l’unico  popolo  d’Italia  che  ancora  non  ci assassina», scriveva in quei giorni l’ambasciatore francese, ma avvertiva che quella felice eccezione non poteva durare a lungo. Infatti un’insorgenza scoppiò ai primi del  maggio 1799 anche nella valle di Oneglia, dove gran parte della popolazione era rimasta fedele alla  dinastia  sabauda,   e   ben  presto   tutte   le  campagne  della  Riviera  di  Levante  si rivoltarono sostenendo l’avanzata degli austro-russi, che nel corso dell’anno arrivarono ad occupare buona parte della regione. Poi gli avvenimenti presero un ritmo frenetico. Bonaparte, lasciato l’Egitto, tornò a Parigi e prese il potere con il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799). Genova ebbe anch’essa un “18 brumaio in sedicesimo” che mise fine al  regime rappresentativo, a  partire  dall’aprile 1800 fu stretta  d’assedio per terra dagli austriaci e per mare dagli inglesi – un assedio che costò alla città, fra fame e malattie, quasi 12.500  morti –  e  resistette fino  al 4 giugno. Dieci giorni dopo, però, Bonaparte  batteva  a  Marengo  gli  austriaci del  maresciallo  Melas e  tornava  padrone dell’Italia.3
La Riviera di Ponente – che per qualche mese era vissuta come sospesa in una terra di  nessuno e  soggetta  a scorrerie  di malviventi, vendette  private, rivolte spontanee o repressioni improvvise da parte di qualche contingente francese – tornò sotto  l’autorità di una Repubblica Ligure che nel frattempo aveva perso ogni connotato democratico ed era piombata in una sudditanza ancora più stretta  nei  confronti della Francia. Per due anni, di fatto, a comandare fu non un legittimo governo, bensì l’ambasciatore francese a Genova, alle dirette dipendenze del Primo Console. E per due anni le popolazioni della Riviera seguitarono a sopportare il passaggio delle truppe con tutti i costi e i disagi che ciò comportava, a pagare carissimi i generi di prima necessità, a vedere i bilanci delle loro municipalità e delle loro opere pie sempre più disastrati, a fare i conti con i problemi legati alla guerra marittima che ostacolava i commerci e creava disoccupazione diffusa. Bonaparte, in  un ordine trasmesso al suo ministro della Guerra il 24 settembre 1800, aveva sostenuto: «L’intenzione del  governo non è affatto che si tratti la Liguria come terra  di conquista. Il  popolo ligure  è,  tra tutti  i  popoli  dell’Italia,  quello  che  merita maggiori riguardi e che ha più sofferto». Ma questi buoni propositi non si erano tradotti in fatti concreti, e due mesi dopo la «Gazzetta nazionale della Liguria» – che pure era un giornale ultramoderato – aveva tracciato un quadro quanto mai tragico: «Nella Liguria tutti hanno perduto, tutti sono stati rovinati senza compenso alcuno. La nazion ligure ha fornito 170 bastimenti per la spedizione d’Egitto, che hanno motivato la dichiarazione di guerra  degl’inglesi e  dei coalizzati. Le  sue campagne sono  state  devastate  dal  lungo soggiorno delle truppe. Essa ha esaurito tutte le risorse del governo e dei suoi cittadini per   alimentare  le  armate   francesi.   Un  blocco   stretto   e   non   interrotto  ha  finito  di distruggere  il  suo  commercio.  Tutti  i  suoi  bastimenti  sono  stati incendiati o  predati dagl’inglesi o dai corsari. Una gran parte dei suoi abitanti è perita per l’epidemia e per la fame». Proprio la crisi demografica era il segno più evidente e drammatico: se Genova, specie al tempo dell’assedio, si era paurosamente svuotata di abitanti, anche le Riviere avevano subìto un salasso per l’alta mortalità e l’emigrazione. Non per nulla nel 1802 a un   prete   di  Sanremo  sarebbe  venuto   in  mente  di  chiedere   al   governo   che  fosse «accordata ai religiosi dell’uno e l’altro sesso la facoltà d’unirsi in matrimonio», al fine di ripopolare un territorio sempre più spopolato.Come compenso a tante disgrazie, era certo ben poca cosa la definitiva annessione alla Repubblica Ligure dei territori già sabaudi di Loano e Oneglia, avvenuta nel giugno 1801.   Di  lì  a  poco,   tra   l’altro,  lo  stesso  governo   francese  che  aveva  fatto   questa concessione intavolò una trattativa – condotta da Giuseppe Bonaparte, fratello del Primo Console   –   per   ottenere   da   Genova  una   parte   almeno   della   Riviera  di   Ponente, promettendo in  cambio  altri ingrandimenti territoriali a nord e a  levante. Era il primo segnale manifesto dell’interesse che la Francia napoleonica nutriva per le terre liguri più vicine alla propria frontiera (un interesse che in realtà, come attestano molti documenti, riguardava tutta la costa occidentale fino a Savona), ed è significativo che la diplomazia genovese   ritenesse   la   trattativa   possibile:   quella   porzione   del   suo   «Dominio   di Terraferma»,  come  si  diceva al  tempo del  governo aristocratico,  era  sempre  stata  la meno docile e la più riottosa, oltreché la più difficile da difendere dalle mire dei Savoia. Perché non sbarazzarsene, puntando invece su un allargamento in direzione della pianura Padana, della Lunigiana e della Toscana? Per allora, tuttavia, non se ne fece nulla.Nel febbraio 1801 la Francia aveva concluso la pace di Lunéville con l’Austria, che poco interessava alla Liguria; ma nel marzo 1802 giunse, ben più desiderata, la pace di Amiens  con l’Inghilterra.  Per una  breve stagione  ci  si  poté  illudere che  la  fine delle 4
ostilità  sui mari avrebbe permesso di  ritrovare la relativa prosperità  di  cui  le  Riviere avevano  goduto  negli  ultimi  decenni  dell’antico  regime;  e  che  la  Repubblica Ligure avrebbe potuto darsi un solido assetto costituzionale, moderatamente innovativo rispetto ai tempi dell’aristocrazia,  ma altrettanto  pacifico. Una nuova costituzione in  effetti fu promulgata il 24 giugno 1802: vi erano di nuovo contemplati, per le maggiori cariche di governo,  gli antichi  nomi di  Doge  e  Senato; ma  non era  che  una brutta  copia  della “carta” francese approvata dopo il 18 brumaio, e copriva malamente una realtà in cui a comandare   erano   ancora   i   plenipotenziari   di   Bonaparte,   in   particolare   il   nuovo ambasciatore, l’ex “terrorista” Cristoforo Saliceti. Questi prometteva pace e prosperità, ma intanto le sue istruzioni prevedevano per la Liguria, e in particolare per il Ponente, misure  dolorose.  La  Francia sapeva  di essere  più debole  sul mare  rispetto  ai  propri potenziali nemici, e in particolare agli inglesi; riteneva perciò necessario coinvolgere le Riviere in una politica di rilancio della marina, soprattutto di quella militare, e farne la base per una nuova aggressività navale nel Mediterraneo. A partire dal giugno 1802, tra il governo genovese e quello francese cominciò una trattativa nella quale il primo chiedeva che la Francia proteggesse la navigazione ligure dai corsari e dai barbareschi, divenuti in quegli anni sempre più aggressivi; ma il secondo replicava  che tale protezione  poteva essere concessa solo a  patto  che sulla Riviera si iniziassero a costruire buoni vascelli da guerra e si reclutassero marinai per armarli. La marineria  ponentina,  che nonostante  le  difficoltà  continuava ad  essere  cospicua e  ad alimentare un notevole traffico di cabotaggio, aveva però da tempo trovato metodi più spicci  per   navigare  con  una  relativa  sicurezza   anche  in  tempo   di  guerra.  Le  sue imbarcazioni inalberavano spesso non la bandiera genovese, ma quella di altre nazioni: in passato soprattutto della Francia (molti capitani e patroni di Sanremo, di Porto Maurizio e di Alassio e Laigueglia erano di casa nei porti provenzali, e alcuni avevano finito per risiedervi), ma ora sempre più spesso dell’Inghilterra. La diplomazia transalpina se ne preoccupava: «È indubbio che tra poco quasi tutto il commercio dei liguri si farà sotto bandiera inglese», scriveva   preoccupato   l’ambasciatore   Saliceti.   Da   Parigi   il   ministro   della   Marina sosteneva d’altronde che la Francia non poteva permettersi di favorire e tutelare le navi della  Riviera:  «Se  i  liguri  condividessero  la   sicurezza  di   cui  godono   i  francesi  nel Mediterraneo, i nostri naviganti non riuscirebbero a sostenerne la concorrenza:  le loro navi hanno costi molto più bassi, e ben presto si impadronirebbero di tutto il cabotaggio del  Mediterraneo». Per  battere quei concorrenti,  il ministro con  un cinismo criminale chiedeva ai consoli e agli agenti francesi in Barberia e nel Levante di denunciare presso le autorità locali l’irregolarità delle navi rivierasche con bandiera inglese (in base alle norme internazionali una nave doveva avere il comandante e almeno metà dell’equipaggio della nazionalità   di   cui   batteva   bandiera),   in   modo   che   i   corsari   potessero   predarle impunemente.Frattanto  nel   settembre  1802  era   stata   decisa  l’annessione  del  Piemonte  alla Repubblica Francese, e anche questo evento rappresentò un colpo per i commerci della Riviera di Ponente, perché la Francia s’era affrettata ad elevare tra Liguria e Piemonte una barriera doganale  ben  più  rigida di  quella del Regno  di Sardegna.  A partire dal maggio   1803,   poi,   ripresero   le   ostilità   con   l’Inghilterra.   La   Riviera   non   vi   fu immediatamente   coinvolta,   quasi  che   gli  inglesi  fingessero   di  credere   all’effettiva indipendenza della Repubblica Ligure e ne rispettassero la neutralità: per molti mesi sia le unità della Royal  Navy, sia i corsari britannici evitarono ogni attacco alle imbarcazioni liguri, seguendo una strategia che intendeva ingraziarsi Genova e staccarla dall’alleanza con la Francia. Ma Parigi reagì in modo netto: pretese la chiusura dei porti liguri agli inglesi e alle loro mercanzie, proibì tassativamente l’uso delle bandiere inglesi sulle navi della Riviera, e mirò ad assicurarsi il pieno appoggio genovese nella guerra marittima. La marina britannica rispose bloccando i porti della Liguria e dando la caccia ai suoi navigli: era cominciata «una guerra disastrosa», come la definì un senatore genovese, dalla quale ai popoli della Riviera non potevano che derivare disoccupazione, miseria, morte.La guerra pesava  anche sul bilancio dello Stato per le forti contribuzioni militari che bisognava pagare alla Francia, e quindi richiedevano nuovi cespiti d’entrata. Così nel luglio  1804  il governo  ligure approvò  un’imposta  straordinaria  sull’esportazione  dei prodotti agricoli: in pratica si andava a colpire soprattutto l’olio d’oliva della Riviera di Ponente, l’unica derrata che alimentasse un cospicuo commercio verso un arco di costa esteso  dalla  Provenza  a  San  Pietroburgo.  Il  dazio  di  quattro  lire  genovesi al  barile incideva  pesantemente  sul  prezzo  e  rendeva  più   ardua   la  concorrenza  con  gli  oli forestieri, specie in un momento in cui le difficoltà della navigazione facevano lievitare i costi di trasporto. Il risultato fu una vasta sollevazione che interessò anzitutto la città di Porto Maurizio e parte della sua circoscrizione (che allora si chiamava appunto «degli Ulivi»), nella quale si concentrava sia la migliore produzione olearia della Liguria, sia il più fiorente commercio di esportazione. Presto l’agitazione si estese a Oneglia, a Diano, ad Albenga e in altri comuni, tanto  che già  ai primi d’agosto  il governo temeva «una generale insurrezione  di  quella  Riviera».  La rivolta ebbe naturalmente aspetti  violenti (vennero cacciati gli esattori e i gendarmi, si diede l’assalto al «burò delle gabelle»), ma si distinse nettamente dalle insorgenze sanfediste e antifrancesi scoppiate in tante parti d’Italia  durante   l’età   giacobina  e   napoleonica.   Qui   i  protagonisti   non  furono   gli aristocratici e i preti reazionari, né la «plebaglia» o i «paesani» ignoranti, bensì i proprie-tari, i  mercanti, gli spedizionieri, sostenuti – come recita un documento dell’epoca – da tutti coloro che «ritraevano dal negozio dell’olio la loro sussistenza». Questa leadership borghese conferì alla rivolta, oltre a una certa coerenza e a una discreta organizzazione, una condotta sostanzialmente legalista, che faceva appello all’osservanza rigorosa della costituzione ligure e riconosceva nella Francia non un nemico ma un alleato, tanto è vero che si cercò di spedire una deputazione a Parigi per conferire con Napoleone, da poco divenuto Imperatore, e perorare presso di lui la causa dei Portorini. I moti del 1804 rappresentano dunque un episodio significativo per molti aspetti. In primo luogo  ci  ricordano  che  nella  Riviera  di Ponente, ove  si  eccettui il  caso già ricordato degli Onegliesi fedeli ai Savoia, non ci furono episodi “controrivoluzionari”: qui le popolazioni avevano accettato il nuovo regime, in base al quale – almeno in teoria – tutti i cittadini erano uguali davanti alla legge e non c’era più distinzione tra i privilegi di Genova  (la «Dominante») e la sudditanza del resto  dello Stato  (il  «Dominio»). La rivolta, infatti, era scoppiata nel momento in cui questa uguaglianza si era definitivamen-te rivelata fittizia. Il governo della Repubblica Ligure, che si presentava come il legittimo rappresentante   degli  interessi  di  tutta  la   regione,   in  realtà  li  calpestava:   il  potere dell’antica Dominante – non più temperato da quei patti e da quelle «convenzioni» che in passato  avevano  garantito alle comunità della  Riviera una  notevole autonomia e  una scarsa pressione fiscale – era divenuto ancor meno tollerabile. In secondo luogo risulta chiaro che i capi dei rivoltosi, con quel loro appellarsi a Napoleone, si erano persuasi che da Genova non c’era più da attendersi nulla di buono, che tanto valeva rivolgersi alla Francia,  chiedere  ad  essa  il  rispetto   di  quella legalità  che  il  governo  genovese  non garantiva più, o addirittura (la documentazione dell’epoca rivela che questo auspicio era ben presente) entrare a far parte dell’Impero francese: perché era meglio dipendere da Parigi  direttamente,   che   non  tramite  un  intermediario  meschino  e  malfido,   da   cui venivano   angherie   e   balzelli,   ma   nessuno   dei  vantaggi   –  anzitutto   di   protezione economica e di apertura di mercati – che la Grande Nation pareva in grado di assicurare.Per il momento era un calcolo sbagliato:  la Francia non  rispose all’appello, anzi mise le proprie truppe a disposizione del governo genovese per soffocare la rivolta. Ma quell’episodio indicò chiaramente che una parte della popolazione ligure non riconosceva più  il  legame  politico  con   Genova,  e  che  era  pronta   ad  accettare   senza  rimpianti l’incorporazione  nell’Impero   napoleonico.  D’altronde,  a   che   cosa   si  era   ridotta  la Repubblica Ligure  sullo scorcio del 1804? A  un vero  e proprio Stato  fantoccio, i cui unici  compiti  consistevano  nel  pagare tributi   militari,  mantenere  truppe   straniere,  e peggio ancora procurare navi e marinai alla marina militare della Francia. Ma la marineria ligure, e in particolare quella ponentina, era abituata da sempre a basare il successo dei propri traffici sulla neutralità, sull’inesistenza di ogni apparato militare, sull’impiego delle bandiere-ombra: agli  occhi dei  capitani e  dei patroni di Sanremo  o di Porto  Maurizio nulla appariva tanto insensato quanto una politica di potenza navale, per di più diretta contro un ottimo partner commerciale come l’Inghilterra. Quella politica non la voleva neppure Genova, in parte per gli stessi motivi, in parte perché costruire vascelli da guerra o predisporre batterie costiere comportava enormi spese. Ma Genova doveva in qualche modo accontentare il potente alleato-padrone, e la via più semplice e più economica era quella di accoglierne le richieste circa il reclutamento dei marinai per la flotta da guerra. Dapprima ci si limitò a  far propaganda per un arruolamento spontaneo, che fallì completamente.  La  Francia, allora,  puntò   i  piedi  e  pretese  la leva  forzata  prima  di quattromila,  poi  di  seimila marinai di età  compresa tra  i 20  e i 45  anni, con  almeno quattro  anni di navigazione,  i quali  sarebbero stati al  servizio  e  al soldo  della  marina napoleonica   sino  alla   fine  della   guerra.   Un   vergognoso  mercato   di  uomini  che   –nonostante   le   altrettanto  vergognose  esortazioni  di  alcuni  vescovi  come  quello  di Albenga, i  quali cercavano  di persuadere  i loro  fedeli  a chinare il capo  –  suscitò  la generale reazione delle popolazioni del Ponente: scoppiarono tumulti, bande di giovani si diedero alla macchia su per le montagne, molti uomini (e molte imbarcazioni) scapparono all’estero, andando soprattutto  a servire sui vascelli inglesi o diventando corsari di Sua Maestà britannica.Questo insuccesso, unito al generale sfacelo della Repubblica Ligure, fu determi-nante nel persuadere Napoleone che ormai era inutile mantenerne la fittizia indipendenza. Man  mano  che  si  approfondiva  lo  scontro   con  l’Inghilterra,   diveniva  sempre  più indispensabile il contributo della Liguria al controllo della costa tirrenica e all’incremento della marina da guerra nel Mediterraneo. Se il governo di Genova si sottraeva ai propri doveri nei confronti della Francia, bisognava spazzarlo via e sostituire ad esso l’autorità diretta dell’Impero. In precedenza l’interessamento dell’amministrazione francese aveva riguardato più che altro il Ponente ligure: la Francia occupava da anni il Piemonte e nel 1802  se  l’era  annesso,  era quindi  ovvio  che  ne  ereditasse  un  tradizionale  obiettivo strategico   quale  la  conquista  della  Riviera  da  Savona  a   Ventimiglia,  che  i  Savoia consideravano  da  sempre  il  naturale  sbocco  marittimo  della  regione  subalpina. Nella primavera del 1803 i consoli e viceconsoli francesi di Savona, Porto Maurizio e Sanremo erano stati sollecitati dal loro governo a fornire notizie dettagliate su quei luoghi, e i loro rapporti   avevano   sottolineato   l’opportunità  di  impadronirsi  di  un  territorio   che   si segnalava per la sua ricchezza agricola e commerciale: sul finire del 1803 il viceconsole di Porto Maurizio Vianelli aveva indirizzato a Parigi un rapporto nel quale magnificava le potenzialità economiche di quella parte della Riviera, ne lodava la numerosa popolazione marittima  («esistono  pochi marinai più attivi, vigili e  frugali di quelli della Riviera di Ponente»)  e  concludeva  che  il  paese,  una   volta  dotato   di  quelle  infrastrutture  che l’amministrazione francese non avrebbe mancato di realizzarvi, sarebbe giunto «a un alto grado di prosperità». Due anni dopo, nel maggio 1805, Napoleone decise che tanto valeva incorporare tutto il Genovesato: fece votare da un Senato acquiescente l’annessione e fece organizzare un plebiscito fasullo (come sono, di solito, i plebisciti), che naturalmente ebbe pieno successo. Nel Ponente  in particolare,  dicono  i  resoconti dell’epoca,  «tutte  le autorità costituite, i vescovi, i parroci, gli uomini più influenti e il popolo stesso» si affrettarono a votare   a  favore.   Se  Genova  accettava   l’annessione  obtorto  collo,   i  “ponentini”,  lo abbiamo visto, si erano messi già da tempo su quella strada, e quindi non potevano che approvare  ciò  che  era  nei  loro  desideri,  o  quantomeno  che  era  considerato  il male minore. Ci  furono  addirittura  manifestazioni  di  giubilo  a  Savona  (dove il  popolo  si affrettò a  sventolare  sugli  edifici  il  tricolore  bianco-rosso-blu,  dopo   avere  in  fretta ammainato  il vessillo genovese) e  in altri centri  del Ponente.  Dopo  anni di crisi e  di tensioni, l’ingresso nell’Impero – cioè in una vasta e organizzata compagine statale allora al   culmine  della  potenza   politico-militare   –  pareva   destinato   a   garantire   a   quelle popolazioni   ordine,   stabilità,   buona   amministrazione,   allargamento   dei   mercati,   e soprattutto  un potere imparziale, non “egoistico” quale spesso era stato giudicato quello di Genova.Così   la   Liguria   diventò   francese,   e   come   la   madrepatria   fu   suddivisa   in dipartimenti, denominati  Gênes,  Apennins,  Montenotte.  Quest’ultimo, con  capoluogo Savona, comprendeva la Riviera  di  Ponente da  Arenzano  a Santo  Stefano,  mentre  il territorio dal torrente  Argentina a Ventimiglia venne unito al preesistente dipartimento delle Alpes-Maritimes, che aveva come capoluogo Nizza. A “francesizzare” la regione – prova   evidente   che   Napoleone   le   attribuiva  grande   importanza   –   furono   spediti personaggi di rango: dapprima nientemeno che il ministro dell’Interno, Jean-Baptiste de Champagny,  poi un  funzionario  d’altissimo livello  come l’Architrésorier  de  l’Empire Charles-François Lebrun. La Francia d’altronde, nell’organizzazione del nuovo territorio, aveva una strategia  e non faceva le cose a caso.  Il dipartimento di  Montenotte (il cui nome evocava nell’Imperatore il felice ricordo della sua prima vittoria in Italia), oltre alle terre   ex   genovesi  della  Riviera,   cioè  i  circondari  di  Savona  e  di  Porto  Maurizio, comprendeva quelli piemontesi di Ceva e di Acqui. In tal modo all’area costiera veniva opportunamente  unito  un  ampio  retroterra;   e  veniva  così  conferita  una  compattezza amministrativa a territori tra i quali, da secoli, si erano instaurati fitti rapporti economici, a  dispetto  dell’azione dei  rispettivi governi –  la  Repubblica di  Genova  e  il regno  di Sardegna   –   che   avevano   piuttosto   mirato   a   scoraggiarli:   Genova   cercando   di monopolizzare i rapporti col Piemonte e il Monferrato a danno soprattutto  di Savona, Torino puntando  a  deviare  i traffici dagli scali  ponentini per  indirizzarli sul porto  di Nizza-Villafranca. Le nuove circoscrizioni territoriali  di  Montenotte  e  delle  Alpes-Maritimes, d’al-tronde, erano destinate a un successo duraturo  tra gli abitanti di quei luoghi. Piacquero moltissimo ai  Savonesi, che da sempre  si consideravano oppressi da Genova e  quindi gioivano sia del declassamento di quest’ultima, sia dell’elevazione della propria città a capoluogo di dipartimento. Auspice la presenza a Savona quale prefetto, tra il 1806 e il 1812, di Gilbert Chabrol de Volvic, cioè di uno dei migliori amministratori prodotti dalla Francia napoleonica (e che non a caso assumerà poi la prefettura di Parigi), qui prenderà corpo addirittura una “leggenda aurea” relativa a questo periodo, leggenda che dura a tutt’oggi.  Ma  anche  a  Porto  Maurizio  e  a  Sanremo, elevati  entrambi alla  dignità  di capoluoghi di circondario, gli anni francesi sarebbero stati a lungo ricordati con favore. Più in generale, in tutto  quel territorio si sarebbe radicata un’idea tornata d’attualità in anni  vicini  a   noi,   vale  a  dire  l’opportunità  di  dar   vita   a   una  «regione   delle   Alpi meridionali» comprendente appunto le province di Nizza, Imperia e Savona, nonché il Cuneese e parte del Monferrato: una regione  “transfrontaliera” e “transregionale”, ma assai coerente nei suoi rapporti economici e umani, rapporti che affondano le loro radici in quel periodo lontano, e che hanno tratto alimento da  un perdurante disinteresse del capoluogo  regionale  per  le  terre  del Ponente  ligure.  Si  può  aggiungere  che  proprio nell’età napoleonica venne alla luce una netta divaricazione tra Genova da una parte – i cui interessi guardavano in primo luogo al retroterra lombardo e al grande emporio di Milano,   e   che  quindi  anche   per   questo   motivo   subiva  con   grande   rincrescimento l’annessione alla Francia e quella successiva al regno di Sardegna, con la conseguente separazione da quel retroterra – e dall’altra la Riviera di Ponente che, come s’è detto, accettava   senza   rimpianti  sia  le  decisioni  di  Napoleone,  sia  quelle  successive  del Congresso di Vienna che la legarono in un unico Stato col Piemonte.Ma  queste   erano  cose   del  futuro.  Allora  bisognava  fare  i  conti  con  la  realtà contraddittoria di un Impero che trionfava in tutta Europa (il 1805, anno dell’annessione, vide le strepitose vittorie di Ulm e Austerlitz), ma pagava quei trionfi a caro prezzo: i morti  in  battaglia  e  il  reclutamento  ossessivo  di  sempre nuovi  giovani,  le  ricchezze bruciate nella guerra, la tassazione crescente, i commerci ostacolati, le sconfitte sui mari (del   1805   è   anche   la   battaglia   di   Trafalgar   che   sancì   la   supremazia   marittima dell’Inghilterra). Per le popolazioni del Ponente ligure le contraddizioni divennero presto evidenti nell’accavallarsi di aspetti positivi e negativi. L’importanza strategica dei nuovi territori indusse Parigi a una scelta molto oculata  degli amministratori. Si è già detto della  straordinaria  figura  del  prefetto  Chabrol,  bisogna aggiungere  che  anche  il  suo predecessore Nardon e il suo successore Brignole Sale furono personalità di rilievo. Ma fu   tutto   il  personale  allora   selezionato   che   risultò   di   alto   livello:  per   esempio  il sottoprefetto  di Porto  Maurizio,  Giovanni Monticelli,  e quello  di  Savona,  il  finalese Giorgio Gallesio, uno dei più grandi agronomi del suo tempo;  il segretario di prefettura, il  portorino  Pantaleone  Gandolfi;  i  sindaci (o  maires,  come  allora  si  chiamavano)  di Savona, Luigi Multedo, di Porto Maurizio, Luigi Manuel, di Diano, Nicolò Arduino. E quasi tutti i personaggi di rilievo della zona – fossero intellettuali o operatori economici – vennero allora coinvolti in qualche modo nella gestione della cosa pubblica o nello studio dell’economia locale. Nel contempo fiorirono i progetti più ottimistici. Fin dal 1805 il prefetto Nardon si diceva convinto che nel dipartimento di Montenotte c’erano «i germi di una  grande prosperità»,  purché  si  aprissero  buone comunicazioni tra  la  costa  e il Piemonte,  e  pronosticava:  «Faremo  compiere  grandi  progressi  a  questa  popolazione industriosa, dedita al commercio, che ama molto il denaro e corre qualunque rischio e pericolo sui mali per procurarselo».Il  suo successore  Chabrol abbracciò con decisione quel programma, da  un lato cercando di conciliare al meglio le strategie  complessive dell’Impero con  gli interessi della Riviera, dall’altro promuovendo quella  conoscenza approfondita delle  condizioni.
Casalino Pierluigi 

venerdì 15 gennaio 2021

Napoleone Bonaparte 2021




Napoleone Bonaparte, nel bene e nel male, è stato una delle personalità più complesse della Storia. Tanto che la sua influenza spazia dalla tattica alla politica, dal diritto (basta ricordare il famoso Code Napoléon) alle mode nel vestiario, sino all'ispirazione di opere letterarie, come Il cinque maggio di Alessandro Manzoni o A Bonaparte liberatore di Ugo Foscolo. Senza contare una penetrazione nell'incoscio collettivo così forte che dopo la sua morte, nel 1821, ci fu una vera epidemia nei manicomi francesi di una specifica alienazione mentale. Centinaia di persone, come testimonia l'inchiesta di Alphonse Esquiros pubblicata nel 1847, credevano di essere l'Imperatore e non c'era modo di convincerle del contrario. Ecco che, quindi, è naturale che a duecento anni dalla sua morte si moltiplichino le iniziative per ricordarlo. Si va dalla pubblicazione o ripubblicazione di volumi, come quello dell'editore Salerno che ricordiamo in questa pagina fino alle mostre. Sul versante italiano va sicuramente segnalata la mobilitazione in corso sull'Isola d'Elba. La Gestione Associata Turismo dell'Isola si è messa in moto per organizzare «una settimana Napoleonica che diventi un evento annuale ricorrente, con appuntamenti diffusi su tutta l'isola e rivolta ad adulti, ragazzi e bambini». Una sinergia internazionale con «la Federazione Europea delle Città Napoleoniche e Route Napoleon con le quali stiamo organizzando questo importante anniversario e abbiamo coinvolto tutti i comuni dell'isola e realtà di livello nazionale per creare a partire dal mese di maggio un'agenda di eventi veramente speciali».Intanto si registra a un rilancio nelle aste dell'oggettistica napoleonica: è in vendita online dalla casa d'aste Sotheby's di Londra la chiave della stanza in cui Napoleone Bonaparte fu imprigionato dagli inglesi sull'isola di Sant'Elena.E se in Italia c'è un po' di polemica perché il Mibact non ha organizzato un comitato nazionale per il bicentenario, ovviamente in Francia le mostre procedono a tutto vapore per «l'Année Napoleon». Tra le moltissime inziative spiccano le parigine Joséphine & Napoléon, une histoire (extra)ordinaire che partirà a ad aprile mentre già da marzo ci sarà Napoléon n'est plus al Musée de l'Armée (sempre a Parigi) che organizza anche conferenze e letture.
Casalino Pierluigi.


 

Intervista di Roberto Guerra a Pierluigi Casalino, autore e studioso ligure di Imperia, nato a Laigueglia il 29 giugno 1949. Nuovo ebook su Dante Alighieri.




D- Casalino, esperto in geopolitica anche, il virus era e resta pericoloso, ma un Grande Reset forse è socialemente, politicamente, finaziariamente,  sottorraeneo e paralleo al  virus, che ne pensi in poche relative parole?
R- In effetti, la situazione, per quanto sia riconducibile ad un qualcosa che è sfuggito di mano, lascia perplessi per l'approccio stringente adottato nei confronti della popolazione. Le misure di sicurezza sono state certamente poco praticate dalla gente, ma la confusione e l'impreparazione dei governi desta il sospetto che una certa qual regia dell'intero ciclo abbia trovato giustificazioni poco chiare. Resta comunque aperto, soprattutto in una società democratica, il dilemma che il covid 19 ha evidenziato tra salute e libertà, tra sicurezza e diritto. Un rapporto che drammaticamente si è riproposto in quella che ha assunto la denominazione di società del pericolo. Il virus, da un lato, ci sta facendo capire quanto sia necessario un equilibrio tra la spinta alla modernità e il riconoscimento della fragilità e vulnerabilità costitutiva dell'essere umano, ma dall'altro, accanto alla lezione di umiltà impartita, il covid 19 suscita un ampio e spinoso dibattito sulla condizione di crisi, di precarietà, di incertezza in relazione all'avvenire dell'uomo, una condizione densa di nuove ed insidiose contraddizioni e di nuovi pericoli. Non solo quindi un'inedita sfida che la complessità dell'attuale condizione umana planetaria pone alle nostre capaci di conoscenza e di interpretazione del reale. Il trauma collettivo della pandemia, in poche parole, sta cambiando i modelli cultural del nostro mondo. La società del rischio pone in crisi gli stessi fondamentali della democrazia, trasformandosi in società del pericolo. Tre shock globali, attacchi terroristici del 2001, crisi finanziaria del 2008, crisi sanitaria del nostro tempo, lefandole per il futuro a un destino comune. Ciò fa sì che sarà globalmente autodistruttivo, per tutti, per ciascuno, reagire alle crisi, perseguendo o subendo supinamente ulteriori disgregazioni fra individui, fra popoli, fra stati, ognuno alla ricerca della propria immunizzazione, invece, come già detto, impreparate a governare la complessità e la globalità dei problemi. E' tutto da reinventare, compreso quello spirito autentico della democrazia che sembra vacillare di fronte alla dilagante angoscia in atto, sulla quale soffiano pure interessate centrali della confusione illiberale. Si tratta di diventare collettivamente più consapevoli per orientare le élites che ci governano a ritrovare il senso della vera dialettica democratica, evitando derive autoritarie nel nome della difesa del benessere sanitario. 

D- Ultimamente continui la riscoperta di Dante nel VII centenario di Dante: hai sempre avuto (vedi il tuo ebook su Dante nella computer age) uno sguardo anticipatorio, futuribile, planetario per il sommo poeta e non solo: che ne pensi delle attuali ricorrenze, solo celebrative o un convincente download?
R- Credo che le celebrazioni dantesche cadano opportune in questa fase storica dell'Italia e del mondo. La travagliata esistenza del Sommo Poeta e le sue straordinarie intuizioni coprono il nostro presente e il nostro futuro, andando a coincidere con una riflessione più che necessaria sul domani del Bel Paese e dell'universo intero. L'importante è che tali celebrazioni non si limitino ad un retorico ricordo del genio dantesco, ma ne ritrovino il significato profondo, la cui eredità soprattutto civile, più ancora che creativa, si stenda sulla nostra gente, smarrita nell'incontrollato mare della sfiducia e della mancanza di speranza, al fine di recuperarne quell'egemonia culturale e storica un tempo illuminante. La rivisitazione permanente di Dante rimane una missione obbligata per il popolo italiano. Un popolo, quello italiano, che non deve dimenticare che la lettura del passato e della sua lezione serve sempre a tracciare la via del futuro. Dante è la nostra più autorevole radice e su di essa si deve ricostruire la nostra anima. Questa mia nuova pubblicazione su Dante va appunto in questa direzione.

Pop Robot di Roberto Guerra.


Pop Robot, ultimo lavoro del futurista Roberto Guerra, costituisce un felice passaggio attraverso la "Covid19 era" del messaggio robotico racchiuso nella pop music. Guerra ricostruisce e ripropone i confini in perenne espansione di una realtà che ha segnato l'ultimo Novecento e continua a illuminare i primi decenni del secolo presente . L'arte che ci viene incontro nella nuova esperienza di Guerra è quella che ha caratterizzato questi ultimi decenni e che si identifica nella musica elettronica e nei suoi vati. Si tratta di una pagina di elevato valore culturale e semantico, che recupera le performances di quanti hanno espresso un modo nuovo di fare arte, prima ancora di fare musica. Eredità estrema dell'apogeo del rock, la pop music ci offre considerazioni di grandissima attualità. Non è un caso che le molte indicazioni di questo universo a più voci si vadano a iscrivere nella "strana guerra" che stiamo combattendo contro la pandemia. I diversi capitoli storici della musica elettronica ci spiegano in rapida e vivace successione le tre tendenze dominanti della condizione di guerra in senso lato, dello strano trilatero dato da ostilità originaria, esposizione al gioco delle probabilità e del caso, decisione politica, alle quali tendenze si aggiunge, peraltro, una componente certamente visionaria, che rilancia la stagione delle avanguardie e plasma con esse la storia di questo nostro tempo. Anzi, non è sbagliato affermare che la centralità dei Beatles  e di altri gruppi che si sono via via affacciati, dalle origini del fenomeno, alla ribalta della musica contemporanea,  resta tale anche oggi nel pieno delle contraddizioni della società dell'insicurezza. L'anima suggestiva e appassionata dei grandi interpreti del rock postmoderno ci pervade ormai dal di dentro e si colloca in parallelo alle grandi imprese della corsa allo spazio, sia extra planetarie che  inter planetarie che, in larga misura, presero l'avvio all'inizio della dell'avventura musicale e strumentale del pop. La robotica è al tempo stesso un rampollo di questa fase storica e si coniuga perfettamente con il mito futurista della velocità e della sfida all'ignoto. Le vibrazioni musicali del pop annunciano, quindi, anche nell'ottica di Guerra, scenari sempre più avvincenti e creativi.
Casalino Pierluigi 

mercoledì 6 gennaio 2021

Dante e i papi.



Lontani ormai, ovviamente, i tempi di Bonifacio VIII, il 30 aprile del 1921 Benedetto XV promulgava l’Enciclica “In praeclara summorum” dedicata completamente a Dante, nella quale si può leggere: “…riconoscere che ben poderoso slancio d’ispirazione egli trasse dalla fede divina”. Dirà rivolgendosi ai giovani: “E voi, cari ragazzi, che avete la gioia di dedicarvi, sotto la guida del magistero della Chiesa, allo studio delle lettere e delle arti, continuate – come già state facendo – ad amare e ad interessarvi di questo nobile poeta, che Noi non esitiamo a chiamare il più eloquente panegirista e cantore dell’ideale cristiano” (Papa Benedetto XV; In Praeclara Summorum, 11) Successivamente fu Paolo VI a far riflettere in un’altra Enciclica risalente al 7 dicembre del 1965 dal titolo “Altissimi cantus”. Qui Paolo VI, in occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante, ebbe a dire: “Nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire, della fede cattolica”, sdoganando completamente Dante dal suono di eresia. Ma fu Joseph Ratzinger, prima di diventare Benedetto XVI, nella sua robusta e importante “Introduzione al cristianesimo”, cristiana a sottolineare, con la competenza specifica, a parlare di Dante dedicando addirittura un commento forte di un passo della Commedia: “Dentro da sé del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige,/ per che ’l mio viso in lei tutto era messo” (Paradiso XXXIII, 130-132), con una sottolineatura di fondo: “Contemplando il mistero di Dio, egli scorge con estatico rapimento la propria immagine, un volto umano, al centro dell’abbagliante cerchio di fiamme formate da ‘l’Amor che move il…”. Ratzinger apre una vasta discussione proprio sul legame tra la Commedia (Divina) e il cristianesimo. Sono delle Lezioni sulla simbologia cristiana svolte alla Università di Tubinga risalenti al 1967 e pubblicato l’anno successivo.
Un passaggio, meramente indicativo, lo farà anche papa Francesco, distante, chiaramente, dalla sua cultura, nella sua “Lumen fidei” del 23 giugno del 2013, senza, peraltro, dire nulla di nuovo. Meno irrilevante, invece, il discorso del 10 ottebre 2020, con il quale papa Francesco, in vista del 700 anniversario della scomparsa del Sommo Poeta, ci invitava a ritrovare in Dante il senso autentico del percorso della vita umana. Comunque i tempi di Bonifacio erano e sono distanti. Dante dal 1921 sino al 1967 viene riletto nella sua visione sublimale e simbolica. Sarà, comunque, proprio Ratzinger a delineare un passaggio fondamentale attraverso il confronto tra i miti e la sacralità in Dante. C’è molto di più per ritornare al legame tra cristianità, pontefici e Dante. La Enciclica “Deus Caritas est” di Benedetto XVI nasce proprio da Dante. Scriverà: “Ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. Se da un lato nella visione dantesca viene a galla il nesso tra fede e ragione, tra ricerca dell’uomo e risposta di Dio, dall’altro emerge anche la radicale la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano”. Ancora, poco dopo la beatificazione di Giovanni Paolo II, dirà: “Nell’amore, l’uomo è ricreato. Incipit vita nova, diceva Dante, la vita della nuova unità dei due in una carne. Il vero fascino della sessualità nasce dalla grandezza di questo orizzonte che schiude: la bellezza integrale, l’universo dell’altra persona e del noi che nasce nell’unione”. Lo stesso Giovanni Paolo II, nel suo Discorso all’inaugurazione della Mostra “Dante in Vaticano”, citerà, appunto Dante. Era il Giovedì, 30 maggio 1985. Ma Giovanni Paolo II era un poeta e conosceva attentamente tutte le opere di Dante. Nel 2006 Benedetto XVI, durante l’Angelus della Festa per l’Immacolata, sottolineerà, chiedendosi perché Dio, tra le donne, sceglierà proprio Maria di Nazareth, oltre alla preghiera di San Bernardo che si racchiude nell’ultimo canto del Paradiso: “La risposta – dice il Pontefice – è nascosta nel mistero insondabile della divina volontà. Tuttavia c’è una ragione che il Vangelo pone in evidenza: la sua umiltà. Lo sottolinea bene proprio Dante Alighieri nell’ultimo Canto del Paradiso: Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, / umile ed alta più che creatura, / termine fisso d’eterno consiglio”. Teologia e filosofia sono i veri fondamenti della cristianità, che trova in Benedetto XVI il vero punto di riferimento della metafisica dantesca. Nel Dante di Ratzinger, che si farà chiamare, da papa Benedetto XVI, l’iniziatore della rilettura cattolico – metafisica, inizia con l’Enciclica di Benedetto XV, è la lettura teologica che entra nei simboli e si apre alla filosofia.  Benedetto XVI resta, comunque, nella divinità della visione dantesca, supremo. C’è anche da ricordare che l’Anno della Fede del 2012, Benedetto XVI volle dedicarlo a Dante nelle Fede Cristiana proponendo il XXIV Canto del Paradiso.
Casalino Pierluigi 
 egli trasse dalla fede divina”. Dirà rivolgendosi ai giovani: “E voi, cari ragazzi, che avete la gioia di dedicarvi, sotto la guida del magistero della Chiesa, allo studio delle lettere e delle arti, continuate – come già state facendo – ad amare e ad interessarvi di questo nobile poeta, che Noi non esitiamo a chiamare il più eloquente panegirista e cantore dell’ideale cristiano” (Papa Benedetto XV; In Praeclara Summorum, 11) Successivamente fu Paolo VI a far riflettere in un’altra Enciclica risalente al 7 dicembre del 1965 dal titolo “Altissimi cantus”. Qui Paolo VI, in occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante, ebbe a dire: “Nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire, della fede cattolica”, sdoganando completamente Dante dal suono di eresia. Ma fu Joseph Ratzinger, prima di diventare Benedetto XVI, nella sua robusta e importante “Introduzione al cristianesimo”, cristiana a sottolineare, con la competenza specifica, a parlare di Dante dedicando addirittura un commento forte di un passo della Commedia: “Dentro da sé del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige,/ per che ’l mio viso in lei tutto era messo” (Paradiso XXXIII, 130-132), con una sottolineatura di fondo: “Contemplando il mistero di Dio, egli scorge con estatico rapimento la propria immagine, un volto umano, al centro dell’abbagliante cerchio di fiamme formate da ‘l’Amor che move il…”. Ratzinger apre una vasta discussione proprio sul legame tra la Commedia (Divina) e il cristianesimo. Sono delle Lezioni sulla simbologia cristiana svolte alla Università di Tubinga risalenti al 1967 e pubblicato l’anno successivo.
Un passaggio, meramente indicativo, lo farà anche papa Francesco, distante, chiaramente, dalla sua cultura, nella sua “Lumen fidei” del 23 giugno del 2013, senza, peraltro, dire nulla di nuovo. Meno irrilevante, invece, il discorso del 10 ottebre 2020, con il quale papa Francesco, in vista del 700 anniversario della scomparsa del Sommo Poeta, ci invitava a ritrovare in Dante il senso autentico del percorso della vita umana. Comunque i tempi di Bonifacio erano e sono distanti. Dante dal 1921 sino al 1967 viene riletto nella sua visione sublimale e simbolica. Sarà, comunque, proprio Ratzinger a delineare un passaggio fondamentale attraverso il confronto tra i miti e la sacralità in Dante. C’è molto di più per ritornare al legame tra cristianità, pontefici e Dante. La Enciclica “Deus Caritas est” di Benedetto XVI nasce proprio da Dante. Scriverà: “Ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. Se da un lato nella visione dantesca viene a galla il nesso tra fede e ragione, tra ricerca dell’uomo e risposta di Dio, dall’altro emerge anche la radicale la novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano”. Ancora, poco dopo la beatificazione di Giovanni Paolo II, dirà: “Nell’amore, l’uomo è ricreato. Incipit vita nova, diceva Dante, la vita della nuova unità dei due in una carne. Il vero fascino della sessualità nasce dalla grandezza di questo orizzonte che schiude: la bellezza integrale, l’universo dell’altra persona e del noi che nasce nell’unione”. Lo stesso Giovanni Paolo II, nel suo Discorso all’inaugurazione della Mostra “Dante in Vaticano”, citerà, appunto Dante. Era il Giovedì, 30 maggio 1985. Ma Giovanni Paolo II era un poeta e conosceva attentamente tutte le opere di Dante. Nel 2006 Benedetto XVI, durante l’Angelus della Festa per l’Immacolata, sottolineerà, chiedendosi perché Dio, tra le donne, sceglierà proprio Maria di Nazareth, oltre alla preghiera di San Bernardo che si racchiude nell’ultimo canto del Paradiso: “La risposta – dice il Pontefice – è nascosta nel mistero insondabile della divina volontà. Tuttavia c’è una ragione che il Vangelo pone in evidenza: la sua umiltà. Lo sottolinea bene proprio Dante Alighieri nell’ultimo Canto del Paradiso: Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, / umile ed alta più che creatura, / termine fisso d’eterno consiglio”. Teologia e filosofia sono i veri fondamenti della cristianità, che trova in Benedetto XVI il vero punto di riferimento della metafisica dantesca. Nel Dante di Ratzinger, che si farà chiamare, da papa Benedetto XVI, l’iniziatore della rilettura cattolico – metafisica, inizia con l’Enciclica di Benedetto XV, è la lettura teologica che entra nei simboli e si apre alla filosofia.  Benedetto XVI resta, comunque, nella divinità della visione dantesca, supremo. C’è anche da ricordare che l’Anno della Fede del 2012, Benedetto XVI volle dedicarlo a Dante nelle Fede Cristiana proponendo il XXIV Canto del Paradiso.
Casalino Pierluigi 

sabato 2 gennaio 2021

Maria Corti e Dante. Un contributo ancora attuale.

Maria Corti, critica letteraria e profonda studiosa di Dante, ha affrontato senza pregiudizi il discusso rapporto tra Dante e l'Islam, indicando punti non contestabili dell'influenza non solo filosofica, ma anche escatologica, del mondo musulmano sul Sommo Poeta. Un'analisi, quella della Corti, che ha trovato da ultimo attendibili conferme da parte di un altro studioso come Luciano Gargan. Entrambi questi studiosi, ora scomparsi, hanno lasciato una traccia profonda in un tema così delicato e suggestivo, al punto da essere opportunamente rivisitati durante le celebrazioni dantesche del 2015-2021. In qualche modo, peraltro, va ricordata la Corti per un suo libro, oggi un po' datato, La Felicità Mentale. L'Autrice qui entra in Dante, svelandoci dunque straordinari risvolti del pensiero del Poeta, nel senso che, come già la precedente opera dedicata al De Vulgari eloquentia e alla filosofia della lingua che vi è esposta, la Corti intende ricostruire quello che l'universo delle idee, di letture, di concezioni della letteratura, della filosofia e della storia, che Dante usa nelle sue opere- soprattutto la Vita Nuova e il Convivio) e sviluppa e impronta ai suoi progetti di scrittura. L'attività della Corti intorno a Dante appare esemplare proprio perché costituisce il vertice di una richiesta dedicata al mondo medievale che Dante accoglie e svolge nella sua opera, libera da tutti quei pregiudizi che tanto a lungo hanno messo la filosofia, e, in genere, il pensiero del Medioevo in base a criteri di gretto razionalismo, ma anche dalla non meno assurda pretesa di poter capire il significato della produzione dantesca con una lettura impressionista, intuitiva  senza contatti con la realtà autentica del pensiero di Dante e dei suoi tempi, anzi volutamente aliena dall'indagarla e dal conoscerla. De Sanctis, Croce, una buona parte della critica italiana del Novecento e oltre, erede di quell'ignoranza della tradizione biblica e cristiana, che è caratteristica della nostra cultura: e sarà, allora, da dire che le indicazioni preziose di Eliot, di Singleton, di Lagercrantz, di Malato, di Pasquini e di altri sulla Commedia hanno le radici anche nel fatto che tutti partecipano di una cultura in cui la conoscenza della Bibbia è tuttora diffusa. Insomma, in un modo o nell'altro, per via di profonda consonanza di poeti o di pazienza e impegno di critici, l'opera di Dante viene  a costituire ancora un'esperienza centrale per il lettore di oggi, come appare evidenza anche a chi si accontenta di vedere la questione dall'esterno e di giudicare dalla frequenza e dalla qualità dei libri che le sono dedicati in queste celebrazioni: a smentita definitiva di chi, seguendo le modo e gli attuali sconforti, vorrebbe che il mondo della letteratura fosse ridotto alla superficialità e alla banalità delle idee e delle opere correnti. Anche per tali motivi il contributo di Maria Corti allo studio di Dante resta ancora di grande spessore e attualità. 
Casalino Pierluigi 

venerdì 1 gennaio 2021

Dante e Ulisse.

Dove Dante ha incontrato Ulisse? Ecco una domanda paradossale, ma che tale non è in quanto tra i poeti e i grandi della storia e del mito il rapporto fantastico e creativo si verifica sempre non casualmente, bensì all'interno di una identificazione, non di rado inconscia, di un'affinità profonda, di una misteriosa omogeneità di destino, di un comune richiamo dell'alto, comunque questo abbia poi a qualificarsi. Naturalmente è arduo rispondere a questa domanda, anche se è lecito tentarlo, sebbene se ci obblighi a ripercorrere a tentoni, nella luce crepuscolare delle agnizioni segrete, i cammini più tortuosi ed affascinanti della genesi di alcuni dei più grandi miti poetici. Nel rapporto tra Dante e Ulusse probabilmente è da cogliere uno stimolo che travalica la cultura ed investe direttamente l'anima in una delle sue zone più profonde e quindi ineffabili. Dante fu autorizzato alla sua "visione" non soltanto dalla potenza della sua fantasia e  dall'incombenza di un drammatico destino: la radice più segreta d'essai stette, certo, nel presentimento mistico di essere un destinato a lei da un'investitura divina. Egli si sentiva misteriosamente scelto dalla volontà celeste ad essere strumento, in quell'alba del nuovo secolo, per ricondurre l'umanità, attraverso, l'iniziazione del giubileo- penitenza e la riconquista dell'autenticità del messaggio redentore di Cristo- nel solco del progetto di salvezza cosmica, disatteso e contrastato dalla molteplice peccaminosita' sia degli eredi di Cesare che degli eredi di Pietro. Ed è nello spirito di questa investitura mistica che Dante si è incontrato con Ulisse. A consegnarli alla sua fantasia è stata solo la sua paradigmicita' di eroe omerico che nella propria avventura per recuperare la patria deve fare, tra le altre esperienze respiratorie ed illuminanti, anche quella dell'Ade, ma l'eredità (filtrata fino a lui dal pensiero greco e della quale Plutarco sarà l'ultima grande voce) che esistono "uomini divini" come Socrate ed Epaminonda, nei quali si rivela  segretamente ed ambiguamente, un'attenzione particolare, quasi una designazione, dall'alto che equivale di fatto ad una sorta di predestinazione. Mistero che può condurre talora attraverso il male più atroce (come si vede nell'Esito di Sofocle), talaltra può condurre l'uomo a sfiorare il mistero delfino della giustizia divina. Ulisse è uno di questi predestinati e Dante dovette sentirlo fraterno in questa specie di investitura che, tramite un cumulo labirintico di esperienze, la divinità gli concedeva, reso esperto  dei "vizi umani e del valore", di poter fissare lo sguardo oltre il termine fisso dell'esperienza esistenziale e intravedere l'aurora della giustizia trascendente. Le visioni plutarchiane de "Il demone di Socrate" e di "I ritardi della punizione divina", riproposti di recente da penetranti analisi critiche, anche resti improbabile se non impossibile una dipendenza dantesca diretta, se pur possa essercene una indiretta, ci confermano però che alla scelta di Ulisse da parte della fantasia dantesca dovette corrispondere sia una necessità di segnare con esso il limite invalicabile da parte di un pagano di spingersi aldilà del confine della visione sia la celebrazione dell'eroe che, nell'ambito della grande civiltà e spiritualità precristiana, segna il culmine da parte degli dei dell'investitura dell'umano alla rivelazione del divino. Nell'umanità di Ulisse prescelta a sfiorare il mistero, Dante vide un lontano prototipo di umanità  che in lui veniva gratificata dalla pienezza della visione, dell'eroe pagano goduta solo come presagio e pallida immagine a conferma, se ce ne fosse bisogno, che per Dante veramente tutta la storia dell'umanità è da ricondurre, se pure a diversi livelli di trasparenza e di partecipazione, sotto la costellazione del sacro anche se la luce fondante di questo si sarebbe esplicitata nella autenticità ed integralità unicamente con l'Incarnazione che segna appunto il momento della pienezza dei tempi, nel quale un velo d'ombra si sarebbe squarciato e la carne del Figlio di Dio avrebbe svelato per sempre la fonte della luce rivelatrice e salvatrice. Ulisse quindi resta, fra tutte le grandi creazioni di Dante, quella probabilmente, che egli sentì più vicina profeticamente alla propria concezione profonda: fraterna ad inoltrare l'avventura mondana dal tempo all'eterno, sfiorata essa stessa dalla misteriosa e tremenda predilezione di Dio che Dante visse con tutta la sua drammaticità esaltante la sua travagliata esistenza. I dolori e le umiliazioni dell'esilio, le persecuzioni subite sia da uomini della spada che del pastorale, la sua morte lontano dal "bell'ovile" di Fiorenza...avevano corrisposto alla difficile e tribolata navigazione di Ulisse, ai pericoli cui volontariamente si offrono tutti coloro i quali accettano l'investitura di prediletti di Dio, sposando la giustizia e conferendo alla propria odissea personale un valore e un respiro che trascendono i confini meramente individuali in una sorta di coinvolgimento con il destino dell'umanità tutta. A lui però sarebbe stato sottratto il naufragio dell'eroe pagano in quanto sulla vetta di quella montagna ai cui piedi Ulisse conoscerà lo scacco ultimo, lo attendevano, guidate da Beatrice,  le tre sorelle che avrebbero sancito la investitura e avrebbero fatto ad essa il dono del suo oggetto finale ad essa il dono del suo oggetto finale: la visione beatifica. Dante e Ulisse si incontrano dunque allo zenith della confluenza di due grandi esperienze spirituali, quella pagana e quella cristiana, alla ricerca  sia l'una che l'altra  dell'aldilà, del mistero, attraverso il mare dell'essere attraverso le dure esperienze dell'intelletto e del cuore, tramite la risolutrice risposta del bene o del male alle domande infinite della problematica esistenziale. L'avventura oceanica dell'eroe ellenico e il viaggio oltremondano del pellegrino medievale saldano due spezzoni di conoscenza, saldano due itinerari del viaggio, dell'avventura dlle'uomo verso la conoscenza totale del suo destino, di cui il primo abbraccia la fase iniziale che è quella naturalistico scientifica, mentre il secondo la prolunga nella dimensione spirituale e metafisica.  Due dimensioni, due direzioni che possono ancora oggi integrarsi, armoniosamente sommarsi, così come repugnarsi e negarsi, perché la dimensione dell'uomo resta sempre quella drammatica. E Dante ha scritto una delle pagine più elevate della poesia di tutti i tempi, accompagnando Ulisse fino a quella "linea d'ombra" che divide il visibile dall'invisibile, l'esperienza sensibile dalla rivelazione trascendente, oltre la quale il mistero si fa luce.
Casalino Pierluigi