martedì 17 dicembre 2024

 


Le origini della famiglia Doria sembrano piuttosto controverse, se pur le si faccia risalire, secondo una tradizione, peraltro non del tutto provata, al Visconte Arduino di Narbona che, passando da Genova per unirsi ai Crociati diretti in Terrasanta, si congiunse in matrimonio con un'appartenente alla famiglia Della Volta di nome Oria: da cui i D'Oria furono i di lei figli e nipoti: tra essi quel Babilano Doria, al cui nome, come signore di Oneglia, è legata la città ligure dal XIII. Nessuna delle grandi famiglie genovesi aveva origini feudali e per tale motivo ognuna di esse cercò di attribuirsene una di spicco. Dal Visconte Arduino di Narbona, dunque, si sarebbe chiamato discendente Babilano Doria, come già ricordato in altra precedente occasione: Babilano fu nominato da Genova Vicario del Ponente ligure e prese possesso di Oneglia e dei centri vicini, divenendone consignore: in particolare Babilano Doria, e così i suoi successori dopo di lui, fu nominato appunto signore (o meglio consignore) di Oneglia, di Cascine di Oneglia, di Castelvecchio, di Malpertugio, di Barcheto, di Borgo Sant'Agata, di Costa Rossa, di Borgo d'Oneglia, di Ville dei Mortazzi, di Bestagno, di Costa d'Oneglia, di Pontedassio, di Ville dei Gatti, di Olivastri, di Ursarola, di Montarosio, di Torria, di Chiusanico, di Chiusavecchia, di Gazzelli, di Cesio e di Testico, mentre dal 1337, Aitone Doria sarà pure signore di Prelà. La corte dei Doria di Oneglia viveva, a suo modo, nonostante il periodo medievale e la posizione tutto sommato periferica, in un'atmosfera già segnata da suggestioni rinascimentali, anche in analogia agli altri rami dei Doria che,nel resto della Liguria, in molte altre zone della Penisola e delle Isole, in particolare in Sardegna, promuovevano l'orgoglio della Superba in piena ascesa politica e commerciale. E ciò pure in concorrenza con le altre famiglie genovesi che si contendevano con essa la gestione del potere nella capitale ligure. Il prestigio di Ottone Doria e il glorioso e sfortunato epilogo della sua sorte furono celebrati in un tutto il Vecchio Continente  Non fu un caso che il rampollo onegliese di Ceva Doria, il grande ammiraglio Andrea, diventasse uno dei protagonisti assoluti della politica europea del XVI secolo. Sull'argomento non si mancherà di tornare per approfondire le relazioni dei Doria di Oneglia e di altri centri della Liguria occidentale con le grandi potenze dell'epoca.

Casalino Pierluigi 



domenica 15 dicembre 2024

 



Da: Pierluigi Casalino  


Dell'influenza ebraica su Dante e sulla Divina Commedia mi sono occupato in precedenti occasioni, sia nell'ambito delle fonti in genere del Poema, che in quello diretto delle fonti ebraiche. Scrivere di Dante e degli ebrei del suo tempo significa, soprattutto, pero', ricordare Immanuel da Roma, cioe' Manoello Giudeo. Tuttavia non si può non accennare a tre letterati ebrei che precedettero l'Alighieri. Il primo fu Biniamìn ben Avraham 'Anàv (sec. XIII), fratello maggiore del più celebre Tzidqiah -l'autore dello Shibbolé haLéqet, fondamentale opera di halakhah italiana-. Biniamìn, importante poeta liturgico (autore di selichòth, tra cui quella acrostica Barùkh Eloqé 'Eliòn), compose un'operetta satirica che godette di una certa celebrità, ove poesia e prosa si alternano e in cui viene allestito una sorta di "inferno" per ricchi dissoluti, con vizi, peccatori e punizioni. In Sicilia, a distanza di qualche anno, operò il traduttore Aḥitùv da Palermo, impegnato sugli originali arabi di Maimonide, in un contesto ebraico fortemente influenzato dal pensiero maimonideo-aristotelico, sin da quando nei circoli rabbinici si accese l'aspra polemica attorno agli scritti di Rabbenu Mosheh ben Maimòn. In una sua opera allegorica, Aḥitùv (XIII-XIV sec.) descrisse la propria ascesa nell'empireo, ove poté saziarsi del pane dei giusti e bere l'acqua scaturente dalle sorgenti celesti, con cui peraltro volle annaffiare il suo bell'orto siciliano, che gli elargì tredici squisiti e succulenti frutti - ossia i tredici articoli di fede definiti da Maimonide -, da condividere riservatamente con chi sappia gustarli. Infine, nella Spagna degli anni '60 del XIII secolo, Avraham da Toledo (Ibn Waqar) per conto di re Alfonso X di Castiglia tradusse in castigliano dall'originale arabo un testo particolare, noto nel mondo latino come Liber de Scala, che, a detta di molta critica contemporanea (Luciano Gargan e MariaCorti, ma anche altri a partire da Asin Palacios nel 1919), costituirebbe l'anello di congiunzione tra Dante e la cultura arabo-islamica (giuntagli comunque indirettamente, mediata, come in questo caso, da ebrei), specie per quanto riguarda la Comedia.Non è importante che Dante abbia avuto o meno accesso alle fonti appena ricordate (tenendo sempre presente che i suoi principali modelli e riferimenti poetici furono Virgilio, Omero e Ovidio, ma anche e in particolare i riferimenti biblici ed evangelici); è invece significativo - e persino avvincente - che nell'Italia centro-meridionale, alcuni decenni prima del supremo capolavoro dantesco, due autori ebrei avessero immaginato in versi di ascese o discese nei regni eterni dei dannati e dei beati. Tutt'altra questione, invece, riguarda il lungo discorso sul linguaggio - razionale o arbitrario, essenziale o convenzionale? -, sulle sue capacità espressive e sulla sua esattezza che Dante affronta nel De Vulgari Eloquentia. Da buon medievale, si diffonde sulla lingua della Creazione; sulla lingua parlata da Dio e da Adamo, e poi da quest'ultimo con Eva e i suoi figli; sulla confusio linguarum successiva a Babele e sull'ebraico, la lingua della Rivelazione. Come ha osservato anche Umberto Eco ne La ricerca della lingua perfetta, nella riflessione dantesca ricorrono questioni e temi sviluppati da mistici e pensatori ebrei quali Avraham Abulafia (che soggiornò a Roma), Yehudah Romano, Hillél da Verona e Menaḥém Biniamìn Biniamìn Recanati. Ma, nel caso, chi fu il trait d'union tra questi Maestri e il Poeta divino?  Giungiamo così a Manoello: romano per nascita e formazione, cugino - guarda caso - dell'appena citato Yehudah, e poi fuggitivo dall'Urbe per motivi ignoti. Nelle sue peregrinazioni, che in qualche modo ne avvicinano l'esistenza a quella dell'esilio di Dante, Manoello venne accolto alla dinamica corte veronese di Cangrande della Scala (la più filoimperiale d'Europa, per splendore e vivacità seconda soltanto a quella siciliana all'epoca di Ruggero d'Altavilla e Federico II di Svevia), proprio negli stessi anni del soggiorno del fiore7ntino nella città scaligera. I due si conobbero e frequentarono? Furono amici? Queste domande restano prive di una risposta diretta. Tuttavia, Manoello fu legato da vincoli amicali al letterato e giurista Cino da Pistoia (1270-1336) e a Bosone da Gubbio (XIV sec.), politico e uomo di lettere, entrambi poeti e buoni amici di Dante. In particolare, si è conservato un fondamentale scambio di sonetti, successivi al 1321, tra Bosone (Due lumi sono di nuovo spenti al mondo) e Manoello (Io che trassi le lacrime dal fondo) per piangere la morte del Poeta, ritenuta dall'ebreo romano un lutto universale. Questo specialissimo sonetto, assieme ad altri tre e a una "frottola" detta Bisbidis, costituiscono quanto è sopravvissuto della produzione in volgare di Manoello, che si affiancava ai commenti biblici e ai suoi scritti in ebraico.Ma c'è molto altro. L'opera principale di Manoello (tra i primi libri ebraici messi a stampa dai Soncino, ancora oggi malvista in certuni ambienti rabbinici) è un prosimetro in ventotto sezioni, le Mahbaròt Immanuel (quaderni/conversazioni), ove il nostro autore introduce per la prima volta nella lingua ebraica il genere letterario, tipicamente italiano, del sonetto. Ancor più, l'ultimo capitolo delle Mahbaròt è intitolato non a caso "Inferno e Paradiso", raccontando di un immaginario viaggio, sulla scorta della Divina Commedia, nei regni oltremondani dei dannati e dei beati, puniti o premiati per il comportamento tenuto in vita, retto o empio, indipendentemente dalla fede di appartenenza. Analogamente a Dante pellegrino, anche Manoello s'intrattiene, nelle viscere della terra, a conversare con i dannati, puniti secondo il modello del contrappasso; ma anche con i beati, in un Paradiso articolato in vari gradi, per essere infine accolto dai Profeti che gli confermano la felicità ultraterrena in virtù della sua opera intellettuale e, specialmente, dei suoi commenti biblici. E anche Manoello, nei regni dei morti, come Dante, ha il suo vate - il suo Virgilio -, che nelle Mahbaròt si chiama Daniele, ma che sembrerebbe essere proprio Dante Alighieri.In conclusione, come scrive Umberto Fortis (Manoello Volgare, Salomone Belforte & C.), Immanuel ben Shelomoh ha-Romì fu il maggiore poeta ebreo dell'età medievale, capace di fondere armonicamente, in un tessuto nuovo e originale, la grande tradizione poetica della scuola giudaico-spagnola (con i suoi evidenti debiti verso la lingua e la metrica arabe, sia per la poesia liturgica, sia per la poesia erotica prodotte dai rabbini) e le esperienze liriche italiane, provenzali, stilnovistiche e giocose (c'è, infatti, in Manoello un "ammiccare" che parrebbe talora avvicinarlo a Cecco Angiolieri, la cui riscoperta si deve ampiamente, peraltro, al letterato ebreo pisano Alessandro D'Ancona).

Casalino Pierluigi 


giovedì 12 dicembre 2024

mercoledì 11 dicembre 2024

 Grazie all' azione, Israele ha sconfitto i delinquenti di Hamas ed Hezbollah