lunedì 30 dicembre 2024

Mussolini riconosce i Soviet

 


Il 26 dicembre 1921, l’Italia e la Repubblica Federativa Socialista Sovietica di Russia concludevano a Roma l’Accordo preliminare [1] . Nel preambolo, le Parti dichiaravano il carattere provvisorio dell’Accordo, stipulato per riprendere il commercio fra i due Paesi, in attesa della conclusione di una convenzione commerciale e di un trattato generale che regolasse il complesso delle loro relazioni economiche e politiche. L’art. 13 dell’Accordo fissava al 26 giugno 1922 il termine per la conclusione degli accordi economici definitivi. Il 2 aprile 1922, in un promemoria predisposto in vista della Conferenza internazionale economica sugli aiuti alla Russia e la ricostruzione dell’Europa centro-orientale, che si sarebbe riunita a Genova il 10 aprile, il Governo italiano svolgeva le seguenti considerazioni circa la ripresa dei rapporti con la Russia sovietica e l’eventuale riconoscimento del Governo di Mosca:

«Riguardo al problema russo l’atteggiamento dell’Italia è determinato da considerazioni di ordine economico e di ordine politico. Rispetto al problema economico l’Italia ritiene che è essenziale di fare rientrare al più presto e nel modo più completo possibile nel sistema economico europeo un paese di così grande popolazione e di così vaste risorse come la Russia. Il perdurare della situazione attuale sarebbe fatale per la Russia stessa e renderebbe più lento e difficile il riassetto economico europeo. È bene rilevare a questo riguardo che se è vero che le Nazioni occidentali hanno interesse vivissimo alla ricostruzione russa, d’altra parte la Russia va certamente incontro ad estrema rovina se a questa ricostruzione essa non procede quanto più sollecitamente è possibile chiamando a collaborarvi tutte le forze vive di capitale e di capacità organizzatrice dell’Europa occidentale. Ciò è importante di fronte ad alcuni atteggiamenti che tenderebbero a far ritenere che le Potenze occidentali hanno più interesse della Russia stessa alla ricostruzione di essa. Riguardo al problema politico l’Italia considera che la terribile crisi attraversata dalla Russia ha portato a due constatazioni: 1° – Che il regime bolscevico nell’attuale stadio della nostra evoluzione economica è causa di estrema rovina. 2° – Che non si può contestare al Governo russo di rappresentare effettivamente la Russia semplicemente per il fatto che esso non rappresenta che le opinioni di una piccola minoranza in quanto che la Russia si lascia dominare completamente da una minoranza. Riguardo agli aspetti internazionali del problema politico è interesse dell’Italia che la Russia ritorni a esercitare una influenza nel gioco della politica europea per ristabilire un equilibrio nel sistema europeo e far sì che l’Italia vi abbia più convenientemente il suo posto. E’ inoltre interesse precipuo dell’Italia che la Russia si ricostituisca per virtù propria e non sotto l’egida o per azione diretta di un’altra nazione europea. La posizione che l’Italia ha preso e che l’Italia intende mantenere rispetto al problema russo è determinata dalle considerazioni di carattere politico ed economico suesposte. L’Italia ritiene cioè che si debba ispirarsi pienamente ai principi delle deliberazioni di Cannes, e non pretendere di intervenire direttamente nelle questioni di ordine interno, sia che esse si riferiscano all’ordinamento politico ovvero a criteri economici di Governo. L’Italia ritiene che convenga considerare il problema della ricostruzione russa in modo obiettivo ed esporre ai rappresentanti del Governo russo quali si considerano le condizioni essenziali perché dei nuovi capitali possano venire investiti in Russia e perché il personale tecnico delle nazioni occidentali, indispensabile altrettanto del capitale alla ricostruzione russa, possa trovare sufficiente incoraggiamento a stabilirsi in Russia per l’esercizione di industrie e commerci. Riguardo alla liquidazione del passato il Governo italiano ritiene che in base alle deliberazioni di Cannes sia opportuno il riconoscimento da parte del Governo russo delle obbligazioni assunte da esso e dai suoi predecessori ed al riconoscimento del suo obbligo di indennizzare gli stranieri per danni da essi subiti. Per quella parte di tali obblighi che non riguarda la restituzione di beni ma che dovrà prender forma di obbligazioni finanziarie ed indennità pecuniarie, il Governo italiano non si fa illusioni che le risorse dello stato russo per parecchi anni potranno permettere al Governo russo di far fronte agli impegni finanziari da esso così assunti. Il Governo italiano è quindi in favore della moratoria che, d’accordo con gli altri Governi alleati è stato proposto di accordare al Governo russo per le obbligazioni finanziarie vecchie e nuove che gli incombono. Grave questione, riguardo la liquidazione del passato, e anche quella relativa al diritto del Governo russo di richiedere indennità per danni subiti dai cittadini russi per azione di guerra di eserciti delle Nazioni occidentali o sorretti e aiutati dalle Nazioni occidentali stesse. Al riguardo l’opinione italiana è che questo diritto non possa venire contestato alla Russia. In questa opinione concorrono pienamente gli inglesi e ad essa si associano, per quanto a malincuore e con riserve esplicite o mentali i francesi. E’ opinione d’altra parte del Governo italiano che sia opportuno che la questione sia liquidata nel modo il più rapido e completo possibile e che quindi occorre stabilire al riguardo coi Russi un forfait compensando i danni che i Russi possono pretendere con i crediti di Governo che le Nazioni occidentali hanno verso la Russia. L’Italia ritiene che è inutile partire da preconcetti: la natura e la portata degli accordi che si potranno fare coi Russi dipenderà dall’atteggiamento che avranno e dalle intenzioni che dimostreranno i Russi a Genova. Se i Russi dimostreranno di voler seriamente dar mano alla ricostruzione del loro paese, di ritenere, come sembra, indispensabile la collaborazione delle altre nazioni, e sono disposti ad accettare le condizioni essenziali per assicurarsi tale collaborazione sarà più conveniente ed opportuno per le altre Nazioni di fare un trattato colla Russia ed in tal caso il riconoscimento de jure del Governo dei Soviet è implicito. D’altra parte l’Italia non ritiene che si possa ragionevolmente domandare al Governo dei Soviety di riconoscere come propri gli impegni finanziari dei governi russi precedenti e rifiutargli contemporaneamente il riconoscimento de jure. La tesi francese che le obbligazioni finanziarie sono inerenti al territorio non porta secondo l’opinione italiana come conseguenza che le responsabilità specifiche derivanti da tali obbligazioni possano venire assunte da altri che da un governo il quale viene quindi ad avere diritto al riconoscimento de jure. Il Governo italiano ritiene quindi che il riconoscimento de jure del Governo dei Soviet non debba escludersi a priori e che anzi l’azione dell’Italia a Genova debba tendere ad ottenere dai Russi le condizioni che si ritengono essenziali perché si giunga a tale riconoscimento. Ciò corrisponde del resto allo spirito e alla lettera delle deliberazioni di Cannes».

Durante la Conferenza, peraltro, il problema della ripresa delle relazioni economiche e politiche tra la Russia sovietica e gli Stati occidentali non trovava soluzione. La Delegazione italiana avviava quindi trattative bilaterali con la Delegazione sovietica al fine di concludere una convenzione commerciale entro il 26 giugno dello stesso anno. Il negoziato presentava tuttavia varie difficoltà. Infatti, mentre la Delegazione italiana, guidata dal Senatore Conti, concentrava le trattative sugli aspetti economici, i Delegati russi, Krassin e Worowski, sollevavano invece questioni di natura politica, nei termini così riportati dal verbale della riunione del 22 maggio 1922:

«Krassin dichiara che il Governo russo non intende sollevare qui la questione del riconoscimento giuridico. Ma per poter concludere anche una convenzione puramente commerciale è necessario definire qualche punto che non è stato sufficientemente definito nell’accordo di Roma. Aggiunge che quando parlò per la prima volta col Sen. Conti ebbe l’impressione che il Governo italiano pur senza affrontare la questione del riconoscimento giuridico del Governo russo, fosse disposto ad eliminare qualcuna delle difficoltà che si oppongono ad una più efficace ripresa dei rapporti economici con la Russia. Vorowski chiarisce la portata della questione sollevata da Krassin. E’ assolutamente necessario per una effettiva ripresa di rapporti economici e commerciali fra l’Italia e la Russia, che non ci siano in Italia altri rappresentanti della Russia che quelli riconosciuti nell’accordo di Roma, cioè a dire la Delegazione Commerciale della Repubblica dei Soviet [4] . Viceversa ci sono ancora in Italia i vecchi rappresentanti del Governo Zarista. Ci sono anche rappresentanti di Stati inesistenti. E’ necessario che questi rappresentanti non siano più riconosciuti dalle autorità italiane. Di ciò abbiamo parlato, anche prima della conclusione dell’accordo di Roma, con l’allora Ministro degli Esteri della Torretta, ed abbiamo anche ottenuto degli affidamenti che non sono stati mantenuti. Bisogna che sia risoluto questo punto assolutamente vitale per noi, prima di poter riprendere ed intensificare in maniera effettiva i rapporti economici con l’Italia. Ci occorre l’assicurazione precisa che le vecchie rappresentanze ufficiali non sono più riconosciute e che unici rappresentanti della Russia in Italia sono i Delegati Commerciali del Governo dei Soviet».Due giorni dopo, i Delegati russi accettavano peraltro di firmare il progetto di convenzione commerciale, il cui testo non faceva alcun riferimento alle questioni di ordine politico sollevate da Krassin e Worowski . Il 30 dicembre 1922, in seguito al Congresso speciale dei Soviet della Russia, dell’Ucraina, della Bielorussia e della Transcaucasia, veniva proclamata l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Secondo la costituzione del nuovo Stato federale, le singole Repubbliche assumevano la qualità di Stati federati, e la competenza relativa alle relazioni internazionali veniva attribuita all’Unione. Dopo la ripresa delle trattative italo-sovietiche per la stipulazione di un trattato generale di commercio e navigazione, la conversione in legge del D.L. 31 gennaio 1922 n. 157, con il quale era stata data esecuzione all’Accordo preliminare del 1921 [6] , offriva l’occasione di un dibattito in Parlamento sulle relazioni fra i due Paesi.

Nella seduta del 30 novembre 1923, il Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri ad interim, Mussolini, si dichiarava favorevole al riconoscimento de jure del Governo sovietico, nei seguenti termini: "In fondo questa faccenda del riconoscimento dei Soviet è una famosa foglia di fico, con la quale si vuol nascondere la realtà concreta dei fatti. Dal mio punto di vista e nazionale e politico è più conveniente che io abbia a Roma un ambasciatore in perfetta regola, con tutti gli usi, i costumi e le leggi che regolano questa materia nei rapporti internazionali, piuttosto che un rappresentante che non si sa se sia commerciale, se sia diplomatico, se sia politico e che però viene a Palazzo Chigi a trattare gli affari concreti con me, e che quindi è nel fatto e nella pratica quotidiana pienamente riconosciuto». Il7 febbraio 1924, veniva firmato a Roma il Trattato di commercio e navigazione fra l’Italia e l’U.R.S.S., il cui art. 1 così disponeva:

«Les rapports diplomatiques et consulaires normaux sont établis entre le Royaume d’Italie et l’Union des Républiques Sovietistes Socialistes. Le pouvoir de chacun des Etats contractants est mutuellement reconnu comme le seul légal et souverain du Pays respectif, avec toutes les conséquences, qui s’en suivent pour l’autre Partie, selon les droits des gens et les coutumes internationales».“Tra il Regno d’Italia e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si instaurano normali rapporti diplomatici e consolari. Il potere di ciascuno degli Stati contraenti è mutuamente riconosciuto come l’unico legale e sovrano del rispettivo Paese, con tutte le conseguenze che ne derivano per l’altra Parte, secondo i diritti delle persone e le consuetudini internazionali”. Il giorno successivo, l’Ambasciatore italiano a Mosca, Manzoni, inoltrava al Commissario del Popolo per gli Affari Esteri, Cicerin, la seguente nota di Mussolini:

«Ella sa che fin dal giorno in cui assunsi il Governo è stato mio proposito di effettuare la ripresa dei rapporti politici fra i due Paesi, ritenendola utile ai loro particolari interessi ed a quelli generali dell’Europa. Sono perciò soddisfatto che oggi si sia firmato il trattato di commercio italo-russo. Mi è grato parteciparLe in tale occasione, che in armonia con le affermazioni contenute nel discorso da me fatto alla Camera dei Deputati il 30 Novembre 1923, avevo dichiarato nella seduta di chiusura della conferenza per il trattato predetto, tenutasi il 31 Gennaio ultimo scorso, che, essendo ormai raggiunto l’accordo, consideravo come risolta la questione del riconoscimento “de jure” del Governo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche da parte dell’Italia. Il Governo Italiano provvede pertanto senza altro alla nomina del Regio Ambasciatore presso il Governo dell’Unione, ed intende in conseguenza, che a partire da oggi, 7 febbraio 1924, i rapporti politici fra i due Paesi siano così definitivamente stabiliti e determinati» .La relazione sul disegno di legge presentato da Mussolini alla Camera dei Deputati per la conversione del D.L. 14 marzo 1924 n. 342, che dava esecuzione al Trattato di commercio e navigazione del 7 febbraio 1924 , affermava, fra l’altro:«La formula solenne con cui i poteri degli Stati contraenti si riconoscono come gli unici legali e sovrani dei rispettivi paesi, e dichiarano di ristabilire fra di loro i normali rapporti diplomatici e consolari, è venuta a costituire l’articolo 1 del Trattato di commercio e di navigazione, che si sottopone ora, insieme alla Convenzione doganale, alla vostra approvazione».

Durante la discussione sul disegno di legge, Mussolini interveniva poi nei seguenti termini:

«Perché quindici mesi fa il Governo fascista riconobbe de jure la Repubblica dei Soviet? Per molte ragioni. Voi le conoscete. Basterà ricordarne una […]. In fondo c’era un riconoscimento, che non arrivava all’estreme conseguenze a cui la logica dei riconoscimenti doveva condurre. C’era un rappresentante della Russia, che non era un ambasciatore politico nel senso tradizionale della parola, né un ambasciatore commerciale ed economico. Era una situazione che non poteva durare. Certi rapporti si chiariscono: o si rompe o si riconosce appieno. Il partito, il Parlamento, la Nazione, approvarono. Approvarono tacitamente per il fatto che allora l’opinione pubblica fu unanime nel riconoscere che era opportuno uscire da un periodo di incertezza durato fin troppo tempo nei rapporti fra l’Italia e la Russia, e di definirlo schiettamente secondo le norme tradizionali dei rapporti fra gli Stati. Il riconoscimento de jure portò un trattato di commercio.Il Trattato di commercio e navigazione entrava in vigore il 23 marzo 1924; tuttavia, le normali relazioni diplomatiche fra i due Governi si consideravano stabilite a partire dal 7 febbraio precedente, data della nota di Mussolini a Cicerin. Questa mia nota un mio precendente articolo pubblicato da Asino Rosso sull'argomento e al quale rinvio per le considerazioni di maggior spunto politico ed economico.

Casalino Pierluigi 


Dante latino

 



Il pensiero linguistico di Dante è caratterizzato, innanzi tutto, da una impostazione teorica in cui il latino e il volgare si oppongono. Pur essendo fondamentale nella sua teoria, questa opposizione non e storicamente sempre rigida, come è stato dimostrato in molti studi . Infatti, anche nella tessitura stilistica che vediamo nelle opere volgari di Dante, si intravede subito la ricchezza, sia lessicale che morfologica, dei vari dialetti italiani a lui contemporanei, e si palesa la sensibilità del Poeta per le varianti linguistiche. Si tratta di un contrasto che non si limita ad essere un contatto tra le due lingue, ma che comprende anche un contatto tra diversi mondi culturali, cioè tra le diverse esperienze letterarie del Sommo Poeta. Per approfondire i punti suggeriti sopra, esaminiamo l'idea di latino e quella di volgare nel Convivio e soprattutto nel De vulgari eloquentia, notando che esiste una certa differenza tra queste due opere cronologicamente parallele. Nel Convivio, la lingua volgare, oltre ad essere "la lingua di si" che e un concetto a base linguistica, e anche la lingua degli "illitterati", concetto questo a base storico-sociologica. Invece, nel De vulgari eloquentia, il volgare e addirittura "lingua materna", sebbene la sua forma sia smarrita nella selva dei dialetti italiani. Per quanto riguarda il latino, le due opere presentano aspetti diversi. Mentre nel Convivio "latino" sta ad indicare la lingua latina, nel De vulgari eloquentia Dante usa il termine "gramatica" che indica si la lingua latina, ma potrebbe anche indicare una delle sette arti liberali, una disciplina. Considerata tale discrepanza linguistica, tra le opere e a volte fin dentro i singoli trattati, possiamo dire che l'opposizione tra le due lingue non è netta, ma ricca di sfumature. Non è sempre facile capire bene le quattro caratteristiche del "volgare illustre" ("illustris", "cardinalis", "aulicus", "curialis") del De vulgari eloquentia (capitoli 16-19 del primo libro), senza un'interpretazione approfondita. Soprattutto la quarta "curialis" e il punto su cui si carica la piu forte tensione. Analizzando la modalita retorica dei brani considerati, credo di aver dimostrato la possibilità di una lettura piu chiara, nonché la possibilità di una pluralità  interpretativa. In breve, l'aggettivo "curialis" non è derivato da sostantivi come "curialitas" o "curia"', si tratta bensi di una figura etimologica aggiunta dopo per dare l'apparenza di una trattatistica. Questa è una mera ipotesi, che pero ha almeno un vantaggio, che è quella di permettere di capire meglio la differenza tra curiale e aulico. Con questo tipo di analisi, si potrebbe dimostrare che anche il "vulgare illustre" è la conseguenza di una premessa astratta. Il nodo del problema è il concetto del latino nella prospettiva linguistica di Dante, nella sua poesia e soprattutto nel Convivio e nel De vulgari eloquentia. Il volgare era la presenza dei vari dialetti italiani cosi come Dante li vedeva. Il latino, pero, e, come suggeriscono molti dantisti, una somma di due tradizioni: quella del latino classico e quella del latino medievale. Ne consegue che il contrasto tra le due lingue e basato su una valutazione di Dante in quanto poeta-teorico, un confronto rafforzato dall'astrazione che ne deriva, sicché la bipartizione "latino-volgare" prepara un vuoto semantico in cui giocano le idee filosofiche e poetiche del Poeta, vale a dire un nuovo spazio aperto al futuro in cui riaffiora il volgare nobile.

Casalino Pierluigi 


 

 


domenica 29 dicembre 2024

Il mito di Itaca, una riflessione attuale

 


ULISSE E IL MITO DI ITACA. UNA RIFLESSIONE ATTUALE.

In un universo solipsistico (e solitario) e colmo di approdi immaginari, era fin troppo facile che la coscienza di Ulisse finisse per essere segnata dal ricordo dominante di Itaca. Itaca rappresentava tutto per Ulisse: rappresentava l'amore, la sicurezza, il ripristino di un ruolo sociale e ritrovato di un'identità riconosciuta dagli altri uomini, ritornare, quindi, nella normalità e porre fine alle tribolazioni e ai prodigi immaginari di un viaggio simile ad un delirio. A causa della sua sfuggente e indefinita lontananza, Itaca rischiava insomma di assumere i contorni seduttivi e ingannevoli  di una madre "edenica", esente da ogni male. Si sprigiona però una luce differente: non si può tornare a casa pronti ad essere accolti come se tutto fosse rimasto ad aspettarci. La vita non si ferma e, dopotutto, neppure noi stavamo fermi ad aspettarla. Forse quando ci si crede giunti finalmente a casa, proprio allora l'aspettativa di una realtà che docilmente risponda ad un desiderio a lungo alimentato dalla sua stessa privazione  che ci rende più stranieri al nostro mondo di quanto non lo fossimo stati quando ci raffiguravamo come pellegrini in esilio. Si tratta di una riflessione che ci coglie nel momento in cui rivolgiamo lo sguardo ansioso verso il domani nell'intento di ricercare il nostro passato e ci accorgiamo che il domani è già la memoria del nostro futuro. Nulla è più come prima e tutto è cambiato e anche noi siamo cambiati. 

Casalino Pierluigi


 


La desolante condizione culturale del popolo italiano testimoniata dal recente rapporto del Censis mette il dito su una delle piaghe più laceranti della crisi italiana, quella di un declino senza limiti della dimensione intellettuale e didattica del Paese dove il si suona come lo chiamava Dante. Tra le ombre più significative del percorso a ritroso dell' intelligenza nazionale, va ricordato la scomparsa presocche' totale dell'insegnamento del latino, con grave danno per la conoscenza delle radici dell' italiano, ma anche della stessa generale formazione critica delle coscienze. Un paio di anni fa l' allora ministro dell’istruzione Bianchi, rispondendo a una interrogazione di alcuni senatori di Forza Italia, che proponevano di ripristinare lo studio del latino “nelle scuole secondarie di primo grado” riconosceva il valore formativo della materia, ma ha anche escludeva  che essa potesse essere reintrodotta per via legislativa perché questo comporterebbe “una rimodulazione dell’intero piano di studi e dei relativi quadri orari”. Affermazione peraltro discutibile dal momento che la circostanza potrebbe consentire una riflessione più che meditata su un recupero di credibilità e di serietà della funzione scolastica e formativa. E tutto ciò, andrebbe aggiunto, in vista di un' eventuale proposta di legge che inquadri un nuovo capitolo alla storica contesa tra sostenitori e avversari della presenza e del peso di questa disciplina all’interno dei piani di studio della scuola media. Un confronto, peraltro, che ha accompagnato la storia dell’Italia repubblicana fin dai lavori della Costituente (1947), quando il diritto di ciascun giovane, anche se povero, ad accedere a una scuola media di qualità, comprensiva dello studio del latino, fu sostenuto da Concetto Marchesi, illustre latinista e deputato del PCI, convinto a differenza di altri esponenti del suo stesso partito che l’apprendimento della “grammatica di una lingua morta” fosse “strumento più adatto di qualsiasi lingua viva alla formazione mentale dell’alunno”. Un’opinione condivisa da uno schieramento trasversale ai partiti politici, che pesò anche sulla scelta di mantenere lo studio del latino, sia pure in forma facoltativa, nella scuola media unificata (legge n. 1859 del 31 dicembre 1962), e che animò una forte resistenza alla definitiva soppressione del latino decisa con la legge n. 348 del 1977.

Pochi anni dopo, nel corso del dibattito sulla riforma della scuola secondaria superiore, che secondo alcune ipotesi allora circolanti prevedeva l’esclusione o la forte penalizzazione del latino, un gruppo di 130 prestigiosi intellettuali di diverso orientamento politico, compresi alcuni vicini al PCI (ma di “scuola Marchesi”, una scuola di pensiero che riteneva sciocco legare la soppressione del latino al tentativo di eliminare influenze conservatrici dalla scuola) prese posizione contro tali ipotesi chiedendo anzi di tornare indietro sulla decisione del 1977. Anche la rivista Tuttoscuola partecipò attivamente al dibattito, proponendo il ripristino dello studio del latino “almeno in un anno della scuola media”, come scrisse Alfredo Vinciguerra in un articolo del 2 marzo 1983, intitolato “Il rimpianto del latino”, poi ripubblicato nel volume “Il Paese che non amava la scuola”, ricordato anche dall’ex ministro della PI Gerardo Bianco nella sua testimonianza contenuta nello Speciale “Alfredo Vinciguerra trent’anni dopo”. Non se ne fece nulla, come nulla d’altra parte si fece sul fronte della riforma della scuola secondaria superiore. Da allora le preoccupazioni per la scarsa padronanza della lingua italiana da parte dei nostri studenti sono cresciute, ed è anche per questo che il “rimpianto del latino” – come strumento utile a consolidare una migliore conoscenza e competenza nell’uso della lingua italiana – non è mai venuto meno. Non resta che augurarsi che l’adesione delle scuole e delle famiglie all’ipotesi allora ventilata dal ministro Bianchi di inserire lo studio facoltativo del latino nei PTOF delle scuole medie sia con il tempo larga e convinta. Certo, una misura più strutturale, con adeguata formazione degli stessi docenti di lettere, sarebbe altamente auspicabile. Un discorso questo che dovrebbe coinvolgere anche lo studio della storia da affrontare in modo adeguato, senza cedere ad interpretazioni tipo il politicamente corretto o la cancel culture.

Casalino Pierluigi 


 


mercoledì 25 dicembre 2024

 


nel corso della loro storia politica, i genovesi non mancarono di allearsi con chiunque potesse essere loro utile; ciò avvenne al tempo delle Crociate, ma anche quando La Superba (come l'aveva definita il Petrarca per la bellezza dei suoi palazzi), peraltro impegnata ufficialmente nella difesa di Costantinopoli, affittò e in certi casi vendette proprie navi al Gran Turco. I legami segreti con i Barbareschi e la Mezzaluna ottomana sono noti e spesso passarono per le sventure delle genti delle Riviere, chiamate a pagare riscatti maggiorati dall'interessata mediazione genovese. Nel Medioevo i genovesi erano temuti anche dai loro amici e ad essi sono state attribuite malefatte peggiori di quanto non fosse in realtà (la Francia, per vincere la concorrenza ligure e genovese presso la Sublime Porta, arrivò a calunniare i mercanti liguri, facendo girare la voce che spacciavano moneta falsa). Sta di fatto che ancora oggi, nella moderna Turchia, le mamme per spaventare i loro bambini dicono ancora:"Stai bravo! Altrimenti chiamo i genovesi!". "Il mamma li Turchi" che riecheggiava lungo le coste liguri sembra impallidisse di fronte alle gesta di Genova nel Levante. Nel XIII secolo i mongoli invasero la Persia e si impadronirono di essa con il ramo degli Ilkhanidi, che si alleò con i genovesi avversari dell'espansione veneziana verso Oriente. Fu così che la "Via della Seta", che attraversava la Persia, soprattutto quella Safavide, e i caravanserraglio furono aperti ai tradizionali nemici commerciali di Venezia, che con la missione di Marco Polo, spia del Papa e di Venezia, aveva tentato di collegarsi con la Cina (ormai sotto la pax mongolica) in funzione anti araba, al fine di rompere l'accerchiamento economico del Vecchio Continente. I liguri misero a segno tuttavia un colpo da maestro con l'alleanza con i persiani, che si erano da tempo sganciati dall'influenza del Califfato arabo. Il sistema di fondaci (colonie) - termine di origine arabo - e delle fortificazioni liguri non solo nel Mediterraneo, ma anche in Crimea e in molte località del Vicino e Medio Oriente, rappresentavano il segno della potenza genovese: l'intero territorio costiero ligure, in coincidenza con le punte e i capi della costa, è tuttora munito di tali costruzioni, molte in rovina, altre ristrutturate. Erano punti di avvistamento per gli attacchi dal mare e da esse venivano trasmesse le notizie a mezzo di fuochi notturni e di fumi di giorno. Troviamo torri liguri in gran parte del Ponente e testimoniano quel complesso di relazioni di pace e di guerra, di  commerci e di intrecci umani che caratterizzarono quel periodo della storia delle nostre contrade.

Casalino Pierluigi, 23.12.2013



---------- Messaggio inoltrato ----------

Da: Pierluigi Casalino <pierluigicasalino49@gmail.com>

Date: 23 dicembre 2013 15:19


Oggetto: Fwd: Mamma i genovesi....

A: redazione@riviera24.it

Mostra testo citato


martedì 24 dicembre 2024

 La via di Damasco. La politica estera su Il Letimbro di Savona negli articoli di Pierluigi Casalino dal 1973 al 1989. Gli articoli di politica estera di Casalino Pierluigi sulla rivista l' Europa di Angelo Magliano, già condirettore Rai, dal 1973 al 1975.

Laigueglia's scholar and writer Casalino Pierluigi Is also on the web 

lunedì 23 dicembre 2024

 



---------- Forwarded message ---------

Da: Roby Guerra <guerra.roby@gmail.com>

Date: gio 25 gen 2024, 14:32

Subject: Re: Le réveil de la Chine. 1919-1930

To: Pierluigi Casalino <pierluigicasalino49@gmail.com>



Pierre, ma è in francese?   POST IN ITALIANO....  ciao, come stai? ho avuto un gennaio malaticcio..  R


Il giorno dom 21 gen 2024 alle ore 12:40 Pierluigi Casalino <pierluigicasalino49@gmail.com> ha scritto:

La République chinoise, fondée en 1911, a déclaré en 1917 la guerre aux empires centraux; elle entend profiter de cet atout pour obtenir des vainqueurs un aménagement de sa situation. L'opinion publique chinoise exprimé d'ailleurs son désir de voir cesser la mise sous tutelle économique du pays, comme l'illustre le "mouvement du 4 mai 1919": de violentes manifestations ont lieu à Pékin et Shanghai à l'annonce de l'attribution au Japon des intérêts allemands. La tâche est cependant difficile pour la Chine, profondément divisée: le gouvernement de Pékin est l' interlocuteur officiel des grandes puissances, mais son autorité est faible, et il est concurrencé par le gouvernement de Sun Yat-sen, établi à Canton. A la conférence de Washington, Pékin, qui désirait une révision totale des "traités inégaux", n'a obtenu que des aménagements de détail, en dehors du retrait japonais. A partir de 1923, de signes de redressement apparaissent. Sun Yat-sen et le Guomindang concluent un accord avec le Komintern, qui leur procure l'alliance du Parti Communiste chinois. Ainsi renforcé, le Guomindang s'assure en 1927 le contrôle militaire du pays. Successeur de Sun Yat-sen, le général Jang Jieshi (Tchang Kai-chek) élimine alors les communistes et accapare tous les pouvoirs. L' URSS rompt ses relations diplomatiques avec le nouveau gouvernement. Nationaliste, Jiang Jieshi s'efforce de desserrer le carcan des "traités inégaux". Entre 1928 et 1930, il obtient pour son pays l' autonomie douanière. L' Angleterre abandonne quatre concessions. Mais le problème de l' exterritorialite' demeure. Au total, le bilan est encore insuffisant, mais la tendance est désormais bien inversée en faveur de la Chine.

Casalino Pierluigi 



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Roberto Guerra

 


 


ULISSE E IL MITO DI ITACA. UNA RIFLESSIONE ATTUALE.

In un universo solipsistico (e solitario) e colmo di approdi immaginari, era fin troppo facile che la coscienza di Ulisse finisse per essere segnata dal ricordo dominante di Itaca. Itaca rappresentava tutto per Ulisse: rappresentava l'amore, la sicurezza, il ripristino di un ruolo sociale e ritrovato di un'identità riconosciuta dagli altri uomini, ritornare, quindi, nella normalità e porre fine alle tribolazioni e ai prodigi immaginari di un viaggio simile ad un delirio. A causa della sua sfuggente e indefinita lontananza, Itaca rischiava insomma di assumere i contorni seduttivi e ingannevoli  di una madre "edenica", esente da ogni male. Si sprigiona però una luce differente: non si può tornare a casa pronti ad essere accolti come se tutto fosse rimasto ad aspettarci. La vita non si ferma e, dopotutto, neppure noi stavamo fermi ad aspettarla. Forse quando ci si crede giunti finalmente a casa, proprio allora l'aspettativa di una realtà che docilmente risponda ad un desiderio a lungo alimentato dalla sua stessa privazione  che ci rende più stranieri al nostro mondo di quanto non lo fossimo stati quando ci raffiguravamo come pellegrini in esilio. Si tratta di una riflessione che ci coglie nel momento in cui rivolgiamo lo sguardo ansioso verso il domani nell'intento di ricercare il nostro passato e ci accorgiamo che il domani è già la memoria del nostro futuro. Nulla è più come prima e tutto è cambiato e anche noi siamo cambiati. 

Casalino Pierluigi


martedì 17 dicembre 2024

 


Le origini della famiglia Doria sembrano piuttosto controverse, se pur le si faccia risalire, secondo una tradizione, peraltro non del tutto provata, al Visconte Arduino di Narbona che, passando da Genova per unirsi ai Crociati diretti in Terrasanta, si congiunse in matrimonio con un'appartenente alla famiglia Della Volta di nome Oria: da cui i D'Oria furono i di lei figli e nipoti: tra essi quel Babilano Doria, al cui nome, come signore di Oneglia, è legata la città ligure dal XIII. Nessuna delle grandi famiglie genovesi aveva origini feudali e per tale motivo ognuna di esse cercò di attribuirsene una di spicco. Dal Visconte Arduino di Narbona, dunque, si sarebbe chiamato discendente Babilano Doria, come già ricordato in altra precedente occasione: Babilano fu nominato da Genova Vicario del Ponente ligure e prese possesso di Oneglia e dei centri vicini, divenendone consignore: in particolare Babilano Doria, e così i suoi successori dopo di lui, fu nominato appunto signore (o meglio consignore) di Oneglia, di Cascine di Oneglia, di Castelvecchio, di Malpertugio, di Barcheto, di Borgo Sant'Agata, di Costa Rossa, di Borgo d'Oneglia, di Ville dei Mortazzi, di Bestagno, di Costa d'Oneglia, di Pontedassio, di Ville dei Gatti, di Olivastri, di Ursarola, di Montarosio, di Torria, di Chiusanico, di Chiusavecchia, di Gazzelli, di Cesio e di Testico, mentre dal 1337, Aitone Doria sarà pure signore di Prelà. La corte dei Doria di Oneglia viveva, a suo modo, nonostante il periodo medievale e la posizione tutto sommato periferica, in un'atmosfera già segnata da suggestioni rinascimentali, anche in analogia agli altri rami dei Doria che,nel resto della Liguria, in molte altre zone della Penisola e delle Isole, in particolare in Sardegna, promuovevano l'orgoglio della Superba in piena ascesa politica e commerciale. E ciò pure in concorrenza con le altre famiglie genovesi che si contendevano con essa la gestione del potere nella capitale ligure. Il prestigio di Ottone Doria e il glorioso e sfortunato epilogo della sua sorte furono celebrati in un tutto il Vecchio Continente  Non fu un caso che il rampollo onegliese di Ceva Doria, il grande ammiraglio Andrea, diventasse uno dei protagonisti assoluti della politica europea del XVI secolo. Sull'argomento non si mancherà di tornare per approfondire le relazioni dei Doria di Oneglia e di altri centri della Liguria occidentale con le grandi potenze dell'epoca.

Casalino Pierluigi 



domenica 15 dicembre 2024

 



Da: Pierluigi Casalino  


Dell'influenza ebraica su Dante e sulla Divina Commedia mi sono occupato in precedenti occasioni, sia nell'ambito delle fonti in genere del Poema, che in quello diretto delle fonti ebraiche. Scrivere di Dante e degli ebrei del suo tempo significa, soprattutto, pero', ricordare Immanuel da Roma, cioe' Manoello Giudeo. Tuttavia non si può non accennare a tre letterati ebrei che precedettero l'Alighieri. Il primo fu Biniamìn ben Avraham 'Anàv (sec. XIII), fratello maggiore del più celebre Tzidqiah -l'autore dello Shibbolé haLéqet, fondamentale opera di halakhah italiana-. Biniamìn, importante poeta liturgico (autore di selichòth, tra cui quella acrostica Barùkh Eloqé 'Eliòn), compose un'operetta satirica che godette di una certa celebrità, ove poesia e prosa si alternano e in cui viene allestito una sorta di "inferno" per ricchi dissoluti, con vizi, peccatori e punizioni. In Sicilia, a distanza di qualche anno, operò il traduttore Aḥitùv da Palermo, impegnato sugli originali arabi di Maimonide, in un contesto ebraico fortemente influenzato dal pensiero maimonideo-aristotelico, sin da quando nei circoli rabbinici si accese l'aspra polemica attorno agli scritti di Rabbenu Mosheh ben Maimòn. In una sua opera allegorica, Aḥitùv (XIII-XIV sec.) descrisse la propria ascesa nell'empireo, ove poté saziarsi del pane dei giusti e bere l'acqua scaturente dalle sorgenti celesti, con cui peraltro volle annaffiare il suo bell'orto siciliano, che gli elargì tredici squisiti e succulenti frutti - ossia i tredici articoli di fede definiti da Maimonide -, da condividere riservatamente con chi sappia gustarli. Infine, nella Spagna degli anni '60 del XIII secolo, Avraham da Toledo (Ibn Waqar) per conto di re Alfonso X di Castiglia tradusse in castigliano dall'originale arabo un testo particolare, noto nel mondo latino come Liber de Scala, che, a detta di molta critica contemporanea (Luciano Gargan e MariaCorti, ma anche altri a partire da Asin Palacios nel 1919), costituirebbe l'anello di congiunzione tra Dante e la cultura arabo-islamica (giuntagli comunque indirettamente, mediata, come in questo caso, da ebrei), specie per quanto riguarda la Comedia.Non è importante che Dante abbia avuto o meno accesso alle fonti appena ricordate (tenendo sempre presente che i suoi principali modelli e riferimenti poetici furono Virgilio, Omero e Ovidio, ma anche e in particolare i riferimenti biblici ed evangelici); è invece significativo - e persino avvincente - che nell'Italia centro-meridionale, alcuni decenni prima del supremo capolavoro dantesco, due autori ebrei avessero immaginato in versi di ascese o discese nei regni eterni dei dannati e dei beati. Tutt'altra questione, invece, riguarda il lungo discorso sul linguaggio - razionale o arbitrario, essenziale o convenzionale? -, sulle sue capacità espressive e sulla sua esattezza che Dante affronta nel De Vulgari Eloquentia. Da buon medievale, si diffonde sulla lingua della Creazione; sulla lingua parlata da Dio e da Adamo, e poi da quest'ultimo con Eva e i suoi figli; sulla confusio linguarum successiva a Babele e sull'ebraico, la lingua della Rivelazione. Come ha osservato anche Umberto Eco ne La ricerca della lingua perfetta, nella riflessione dantesca ricorrono questioni e temi sviluppati da mistici e pensatori ebrei quali Avraham Abulafia (che soggiornò a Roma), Yehudah Romano, Hillél da Verona e Menaḥém Biniamìn Biniamìn Recanati. Ma, nel caso, chi fu il trait d'union tra questi Maestri e il Poeta divino?  Giungiamo così a Manoello: romano per nascita e formazione, cugino - guarda caso - dell'appena citato Yehudah, e poi fuggitivo dall'Urbe per motivi ignoti. Nelle sue peregrinazioni, che in qualche modo ne avvicinano l'esistenza a quella dell'esilio di Dante, Manoello venne accolto alla dinamica corte veronese di Cangrande della Scala (la più filoimperiale d'Europa, per splendore e vivacità seconda soltanto a quella siciliana all'epoca di Ruggero d'Altavilla e Federico II di Svevia), proprio negli stessi anni del soggiorno del fiore7ntino nella città scaligera. I due si conobbero e frequentarono? Furono amici? Queste domande restano prive di una risposta diretta. Tuttavia, Manoello fu legato da vincoli amicali al letterato e giurista Cino da Pistoia (1270-1336) e a Bosone da Gubbio (XIV sec.), politico e uomo di lettere, entrambi poeti e buoni amici di Dante. In particolare, si è conservato un fondamentale scambio di sonetti, successivi al 1321, tra Bosone (Due lumi sono di nuovo spenti al mondo) e Manoello (Io che trassi le lacrime dal fondo) per piangere la morte del Poeta, ritenuta dall'ebreo romano un lutto universale. Questo specialissimo sonetto, assieme ad altri tre e a una "frottola" detta Bisbidis, costituiscono quanto è sopravvissuto della produzione in volgare di Manoello, che si affiancava ai commenti biblici e ai suoi scritti in ebraico.Ma c'è molto altro. L'opera principale di Manoello (tra i primi libri ebraici messi a stampa dai Soncino, ancora oggi malvista in certuni ambienti rabbinici) è un prosimetro in ventotto sezioni, le Mahbaròt Immanuel (quaderni/conversazioni), ove il nostro autore introduce per la prima volta nella lingua ebraica il genere letterario, tipicamente italiano, del sonetto. Ancor più, l'ultimo capitolo delle Mahbaròt è intitolato non a caso "Inferno e Paradiso", raccontando di un immaginario viaggio, sulla scorta della Divina Commedia, nei regni oltremondani dei dannati e dei beati, puniti o premiati per il comportamento tenuto in vita, retto o empio, indipendentemente dalla fede di appartenenza. Analogamente a Dante pellegrino, anche Manoello s'intrattiene, nelle viscere della terra, a conversare con i dannati, puniti secondo il modello del contrappasso; ma anche con i beati, in un Paradiso articolato in vari gradi, per essere infine accolto dai Profeti che gli confermano la felicità ultraterrena in virtù della sua opera intellettuale e, specialmente, dei suoi commenti biblici. E anche Manoello, nei regni dei morti, come Dante, ha il suo vate - il suo Virgilio -, che nelle Mahbaròt si chiama Daniele, ma che sembrerebbe essere proprio Dante Alighieri.In conclusione, come scrive Umberto Fortis (Manoello Volgare, Salomone Belforte & C.), Immanuel ben Shelomoh ha-Romì fu il maggiore poeta ebreo dell'età medievale, capace di fondere armonicamente, in un tessuto nuovo e originale, la grande tradizione poetica della scuola giudaico-spagnola (con i suoi evidenti debiti verso la lingua e la metrica arabe, sia per la poesia liturgica, sia per la poesia erotica prodotte dai rabbini) e le esperienze liriche italiane, provenzali, stilnovistiche e giocose (c'è, infatti, in Manoello un "ammiccare" che parrebbe talora avvicinarlo a Cecco Angiolieri, la cui riscoperta si deve ampiamente, peraltro, al letterato ebreo pisano Alessandro D'Ancona).

Casalino Pierluigi 


giovedì 12 dicembre 2024

mercoledì 11 dicembre 2024

 Grazie all' azione, Israele ha sconfitto i delinquenti di Hamas ed Hezbollah